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La quinta stagione

di Peter Brosens e Jessica Woodworth — Belgio/Olanda/Francia, 2012, 92'
con Aurelia Poirier, Django Schrevens, Sam Louwyck, Gil Vancompernolle

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Una misteriosa calamità si manifesta, prolungando l'inverno più del lungo. La primavera si rifiuta di arrivare, il paesaggio e gli animali continuano ad essere in letargo. Alice, Thomas e Octave, tre ragazzini di un piccolo villaggio belga nel cuore delle foreste delle Ardenne, lottano per dare un senso al mondo che intorno a loro sta crollando. Mentre Alice e Thomas sono innamorati, Octave osserva ciò che accade dalla sedia a rotelle a cui è costretto. Il trascorrere dei mesi porta a giorni di una mancata estate in cui la violenza degli altri abitanti del villagio è pronta ad esploder.

D’un tratto, in un villaggio nelle Ardenne, la natura respinge ciò che la comunità le chiede, ciò che regola l’esistere degli uomini. Biologicamente e culturalmente: non si lascia ingravidare dai riti pagani, non accoglie i semi, non restituisce i frutti della terra. Ed è così che l’uomo affamato, nell’eterno, sterile inverno di questo Belgio fuori dal tempo, perde vigore, rallenta l’uso del linguaggio, guarda regredire violentemente la dimensione sociale. La comunità, priva della propria identità dettata dalla natura, è costretta a rifondarsi, cercando un nemico comune: lo straniero, colui che, citando Rousseau e Nietzsche, preferisce i paradossi ai pregiudizi. E rispetta l’avversione della terra, l’ostico stato delle cose. Brosens e Woodworth chiudono, nella propria terra natia, la trilogia sul rapporto tra uomo e natura cominciata con i bellissimi Khadak (girato in Mongolia) e poi Altiplano (in Perù). E con questo film di catastrofismo pagano propongono un B movie di ricerca, tra l’alto e il basso, un racconto folclorico che monda l’arte elitaria, tra l’apertura del cinema contemplativo e il geometrico formalismo del tableau vivant. Una forma obliqua che non s’accontenta ed è sempre in movimento: spinge quadri di Bruegel verso le morti di De Bruyckere, il medioevo di Bergman verso il cinema fantaetnografico di Ben Rivers, le suggestioni di Tarkovskij verso l’horror americano settantesco. E conferma l’ossessione del cinema contemporaneo per la creazione di nuovi, altri o antichi, mondi e per il loro fallimento, causa apocalisse.

Giulio Sangiorgio, FilmTV