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Muffa

di Ali Aydin — Turchia/Germania, 2012, 94'
con Ercan Kesal, Muhammet Uzuner, Tansu Biçer

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Basri è un uomo di 55 anni, lavora come guardiano ferroviario e ogni giorno percorre circa 20 chilometri a piedi per controllare lo stato dei binari. Puntualmente, ogni primo e quindici del mese scrive una lettera alla polizia per avere notizie sulla scomparsa del figlio Seyfi, avvenuta misteriosamente diciotto anni prima, quando il giovane si era appena trasferito a Istanbul per studiare all'università. L'unica cosa che Besri sa è che il figlio era stato fermato dalla polizia per attività antigovernative prima di sparire  senza lasciare alcuna traccia, provocando anche la morte della madre.

Leone del futuro alla 69ª Mostra di Venezia.

Scorrono i giorni, macerano in una Turchia dimenticata e dipinta d’ocra marcio, scura nella notte eterna di uomini che controllano i binari delle ferrovie, ma non conoscono vie di fuga. È una larva impaziente quella che s’agita nella vita di Basri, sessantenne chiuso in se stesso sotto il sole grigio di questa bellissima palude, solo, umiliato, sangue smorto ancorato soltanto a un’attesa: ovvero che il figlio, scomparso, ritorni. Dopo 18 anni, Basri è ancora lì, triste, alienato, gentile. Persiste ad ascoltare la radio che il giovane gli ha regalato, s’ostina a scrivere lettere al ministero degli interni e alla questura: chiede tracce, semplicemente. Che siano un bagliore di speranza, che siano un lutto da elaborare. Dai notiziari ottiene solo il brusio incessante di un mondo straniero, dalle istituzioni raccoglie un’unica risposta: «Suo figlio era avverso alle politiche del governo». Punto. Così, durante uno degli interrogatori che Basri subisce da funzionari stanchi delle sue richieste, quest’uomo silente racconta: della sua infanzia, della morte prossima da sempre, della moglie defunta, della solitudine. Della sua resistenza fisica inspiegabile, se non con una missione: attendere, cercare. Ancora. 14 minuti di camera fissa, la voce di Basri in monologo, poi un taglio sul suo volto, muto: le parole, che dettano frementi l’epica pervicace di un piccolo uomo, sopravvivono fuori campo, lontane dal labiale. Ed è in questo stralcio di cinema morale e tesissimo il senso etico ed estetico di Muffa, Leone del futuro alla 69ª Mostra di Venezia, opera prima che narra di desaparecidos, dei vuoti creati dal governo turco negli anni 90, del dolore di chi è rimasto, dell’assenza di catarsi, di risposte. La geometria inflessibile mima la logica antiumanista del Potere, è la forma ricorrente con cui il cinema d’oggi e ieri s’esprime disperato, imploso, rassegnato, mentre nel freddo emotivo monta, s’affanna, arranca resistenziale una storia dostoevskijana, che vuole fortissimamente, che necessita di farsi raccontare. Nonostante le ellissi, le lacune, gli abissi che le costruiscono intorno. Per questo, nel paradosso della tragedia, quando l’Istituzione colma il vuoto di cui Basri vive, il film non può che finire. Non c’è più niente da dire, nulla da chiedere, nessuno per vivere. Solo da rimpiangere nei giorni che scorrono, che macerano statici nell’ocra silente di una terra straniera.

Giulio Sangiorgio, FilmTV