Alla ricerca di Vivian Maier
di John Maloof, Charlie Siskel — USA, 2013, 84'
con John Maloof, Mary Ellen Mark, Phil Donahue, Vivian Maier
proiezione in inglese con sottotitoli in italiano
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Jhon Maloof sapeva che "chi cerca, trova", perché ha frequentato fin da piccolo i mercati delle pulci. Nel 2007, in procinto di scrivere un libro sulla storia del suo quartiere di Chicago, ha dunque acquistato all'asta una scatola piena di negativi non ancora sviluppati, sperando di trovare del materiale utile al suo scopo. Invece, ha trovato una delle più straordinarie collezioni fotografiche del XX secolo. Andando, qualche anno dopo, alla ricerca dell'identità del fotografo, una donna di nome Vivian Maier scomparsa nel 2009, Maloof ha scoperto anche una storia da romanzo: quella di una figura dall'immenso talento artistico, che ha preferito per tutta la vita mantenere il segreto sulla sua attività fotografica, preferendo fare la tata per i bambini delle famiglie bene di Chicago. Maloof e l'amico produttore Charlie Siskel hanno deciso di trasformare l'incredibile materiale ritrovato e la ricerca su Vivian in un film, mettendosi idealmente in continuità con la stessa Maier, che ha condotto una segreta esistenza "cinematografica" girando migliaia di pellicole Super8 e 16mm.
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Vi segnaliamo un bel sito ricco di materiale su Vivian Maier:
https://www.artsy.net/artist/vivian-maier
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Generalmente quando si tenta di ricostruire la vita di una persona sconosciuta vissuta in era pre-internet, si parte dalla parole: diari, lettere, tutto quello che si può trovare scritto da, a e su di lei. Se si è così fortunati da avere a che fare con qualcuno morto da poco, si può anche risalire ai parenti e alle persone che l'hanno conosciuta, ripercorrendo ogni tenue connessione, ogni possibile incontro. Ma cosa succede se la persona di cui si vuole raccontare la storia ha lasciato dietro di sé, come traccia, quasi solo le immagini che ha scattato? Si dice che ogni ritratto sia sempre anche un autoritratto: è possibile quindi lavorare all'indietro, e dalle fotografie capire il carattere, la personalità, i sogni e le paure di qualcuno? A questa domanda tentano di rispondere Charlie Siskel e John Maloof, con il documentario "Finding Vivian Maier", in cui compiono uno strano rito evocativo che ci riporta agli albori della pratica fotografica, quando, in una specie di ritorno collettivo al pensiero magico, si pensava che il dagherrotipo rubasse e trattenesse uno strato impercettibile della persona ritratta, un pezzo della sua anima. Vivian Maier di mestiere faceva la governante, e Geoff Dyer definisce il suo caso come "l'esempio estremo di una scoperta postuma: qualcuno che esiste solo nei termini di ciò che ha visto". Vivian Maier non si è mai sposata. Non ha avuto figli. Aveva pochissimi amici, e girava sempre con una Rolleiflex al collo. Tutte le persone da cui ha lavorato raccontano che scattava foto continuamente. Nessuno ricorda di averne mai vista una. L'incredibile storia di Vivian Maier e la qualità artistica delle sue immagini paiono legate indissolubilmente: con il tempo si vedrà quanto il fascino della sua vita e del suo personaggio hanno influito sul giudizio della sua opera. E nonostante l'avvertimento di Diane Arbus, (ogni fotografia è un segreto su un segreto: più ti racconta, meno ne sai), questa specie di caccia al tesoro per immagini alla ricerca di Vivian è destinata ad andare avanti molto a lungo, continuando ad alimentarne la leggenda. La storia di Maier è densa di contraddizioni, e il documentario ne percorre solo alcune. Vengono lasciati inesplorati i possibili abusi subiti, la sessualità e la vita affettiva apparentemente inesistente, l'entità dei disturbi mentali i cui accenni si raccolgono da commenti e osservazioni presenti in tutto il film, ma non vengono mai veramente investigati. Non si approfondisce il problema di cosa voglia dire prendere possesso del patrimonio artistico di uno sconosciuto, e la legittimità morale di esporre il lavoro di una persona che in vita aveva deciso di non farlo. Anche Kafka aveva lasciato i suoi manoscritti a un amico con l'ordine di distruggerli - ordine da lui ignorato: l'idea è che se avesse davvero voluto eliminali l'avrebbe fatto lui stesso; possiamo fare questo ragionamento anche per il caso della Maier? Se davvero avesse voluto tenere segrete le sue foto, le avrebbe dovute distruggere lei stessa? Il documentario accenna anche una critica alle persone e alle istituzioni che si arrogano il potere di decidere chi e cosa rientra nei canoni artistici, una questione che avrebbe meritato più spazio, che raccoglie un'insofferenza generalizzata verso un certo tipo di arte imposta dall'alto, espressa recentemente anche nella biennale di Gioni: Maier sembra rientrare in quel gruppo di persone che ci ricordano che l'arte è prima di tutto un'urgenza personale: inevitabile, pura, disinteressata. Di sicuro il personaggio tratteggiato dal documentario rimarrà con noi per molto tempo: un paradosso per una donna così schiva e solitaria in vita, che dopo la morte ha invece toccato così tante persone. E se Maier in una registrazione sostiene che “We have to make room for other people. It’s a wheel – you get on, you go to the end, and someone else has the same opportunity to go to the end, and so on, and somebody else takes their place. There’s nothing new under the sun.”, sembra che invece proprio lei sia sfuggita alla fatalità di questa conclusione, e sia riuscita a risalire sulla ruota per fare un -altro giro. (Chiara Bardelli Nonino)
In collaborazione con il Fotocineclub Mantova. Presenta il film Gianni Cossu (Presidente del Fotocineclub Mantova).