
16 settembre 2025
Tutto quello che resta di te: Il cinema come atto di scelta
A volte un film è più di un film. A volte il cinema diventa veicolo di un sentire comune, può riattivare la memoria, riaprire la storia e perfino spingerci a ridefinire cosa è giusto e cosa è sbagliato. In questi casi, non si parla di tecnica registica, sceneggiatura o fotografia. Si parla di qualcosa di più profondo: della capacità del cinema di restituire dignità, memoria e consapevolezza.
Nella mia storia personale di spettatrice, i film sull’Olocausto hanno sempre avuto un ruolo centrale. In modo quasi macabro – lo ammetto – ne ero attratta. È sempre stato per me un tema potentissimo: guardare l’incomprensibile, l’inimmaginabile, il dolore assoluto. Davanti alla televisione, alimentavo sadicamente struggimento e inquietudine.
Forse era un tentativo disperato di capire. O forse il sintomo di un profondo, seppur immotivato, senso di colpa, che mi spingeva a pretendere di essere consapevole, sensibile, informata. Di fronte a quelle immagini – i corpi smagriti, i volti stanchi, le teste rasate – mi sembrava di assolvere un dovere: sapere.
Con gli occhi increduli di una bambina forse fin troppo empatica, quelle immagini diventavano una prova da affrontare, una soglia da non oltrepassare con leggerezza. Crescendo, con la consapevolezza di essere una privilegiata, di avere alle spalle una storia familiare non marchiata dal terrore dello sterminio – cosa tutt’altro che scontata – sentivo il bisogno di sapere, di guardare. Di non distogliere lo sguardo.
E così guardavo, instancabilmente: Spielberg, Benigni e ogni altro cantore della Shoah. Anche quando non si trattava di storie vere, bastava che si attingesse a quell’immaginario perché io potessi sentirmi parte di una memoria collettiva. Il cinema mi permetteva di conoscere e di prendere una posizione, anche se tardiva, anche se teorica.
Guardare quei film era per me un modo, senz’altro semplice, di scegliere. Ma mi ero illusa che bastasse prendere una posizione, che bastasse schierarsi. Pensavo, ingenuamente, che fosse tutto lì: stare dalla parte giusta, dirlo a voce alta, riconoscerlo come valore.
Ma ora mi rendo conto che non basta sedersi accanto a coloro che sono contro la brutalità, contro i massacri, contro la discriminazione, la sofferenza e la fame nel mondo. Non è un gesto unico, risolutivo, che si compie una volta per tutte. È una pratica continua, quotidiana, spesso scomoda.
Per molto tempo ho pensato che se fossi nata ottant’anni prima sarei stata una “persona giusta”. Oggi so che quella convinzione era comoda. E, soprattutto, illusoria.
Quando sono andata a vedere Tutto quello che resta di te – un film che racconta di deportazioni, genocidio, occupazione, sfratti, lavori forzati e campi di prigionia – qualcosa si è rotto. Non mi era mai capitato di piangere davanti a un film sulla Shoah (perdonerete i continui paralleli ma non posso farne a meno: è il mio modo di leggere il mondo). Forse perché ero protetta dalla distanza storica, dall’illusione che fosse tutto risolto, conosciuto, metabolizzato.
Invece, questa volta ho pianto. Perché niente è andato come speravo. Perché quella grande certezza è crollata: la giustizia che davo per scontata non è mai esistita. E io non mi sono mai davvero battuta per far valere quella mia “posizione giusta”, convinta che non ce ne fosse bisogno.
Così, dentro una sala cinematografica sicura ed eccessivamente climatizzata a Roma, il cinema mi ha ricordato che non basta sapere. Che bisogna lottare.
Mi capita spesso di scrivere nelle mie bozze: “un film necessario”. E forse, nel loro tentativo di raccontare, ogni film lo è davvero. Tuttavia, a volte quella frase la cancello. Ma stavolta no.
Tutto quello che resta di te è un film necessario.
Diretto da Cherien Dabis, regista palestinese-americana, il film arriverà nelle sale italiane il 18 settembre.
Al centro della storia c’è Noor (Muhammad Abed Elrahman), un giovane palestinese che vive nel campo rifugiati di Nablus, raccontato attraverso lo sguardo di sua madre Hanan, interpretata dalla stessa Dabis.
È un film che si discosta dalle recenti narrazioni documentaristiche sul conflitto israelo-palestinese. Dabis sceglie la finzione, la narrazione romanzata. Non per nascondere la verità, ma per darle un volto riconoscibile.
In Tutto quello che resta di te, il conflitto non è più da dimostrare. È un dato di fatto. Non è più un tema da festival di nicchia o cineforum impegnati. I ruoli sono chiari e scanditi. I soldati israeliani sembrano proprio riesumare la parte di quelli cattivi cattivi che urlano, che avevamo imparato a conoscere in altri contesti, in altri tempi, ma che qui ritornano – più reali che mai.
Nel suo discostarsi dal genere documentario, il film di Dabis si avvicina a opere come La vita è bella o Schindler’s List. Non tanto per la qualità cinematografica, quanto per il tipo di operazione che mette in atto: trasformare una tragedia in memoria collettiva, che non può più essere ignorata.
Un’opera come questa pone una domanda fondamentale: cosa significa conoscere un dolore e portarne dentro al cuore la responsabilità? È ancora possibile ignorare? Fingere di non sapere?
Il cinema, in questo caso, non consente più neutralità. Dabis impone una verità scomoda ma incontestabile: non c’è più tempo per la sola denuncia. Serve memoria, consapevolezza e, soprattutto, presa di posizione e azione. [...]
Tutto quello che resta di te è un film necessario. Lo è non solo per quello che mostra, ma per ciò che chiede a chi guarda. Chiede consapevolezza, empatia, responsabilità. Ricorda che non basta aver preso una posizione teorica, magari comoda, magari in un passato che non ci riguarda più. Serve rinnovarla ogni giorno, nei fatti, nelle parole, anche attraverso l’arte.
In un mondo dove le immagini scorrono veloci e le tragedie si consumano in pochi secondi di scroll, il cinema torna a essere ciò che è sempre stato: uno specchio, un grido, un atto di resistenza.
Ma non volevo scrivere un’ode al cinema. O forse sì. Forse oggi, mentre la realtà ci mostra il suo volto più duro, il cinema resta uno dei pochi strumenti in grado di scuotere le coscienze, di renderci di nuovo responsabili. Di permetterci di vedere. E di scegliere, ancora una volta.
Lavinia Colanzi, Taxidrivers

02 settembre 2025
Il nascondiglio: Memoria e segreti di famiglia in un appartamento parigino
Il film Il nascondiglio, diretto dal regista svizzero Lionel Baier, porta sullo schermo il primo romanzo autobiografico di Christophe Boltanski, dove la vita vera si intreccia con la finzione narrativa per comporre un ritratto familiare multigenerazionale, stratificato e profondamente politico.
La storia del film Il nascondiglio si apre alla fine degli anni Sessanta e si sviluppa attorno alla figura di un bambino, Christophe, testimone silenzioso e curioso degli eventi che animano la sua famiglia durante le convulse settimane del maggio ‘68. Mentre i suoi genitori partecipano alle mobilitazioni contro la guerra in Vietnam e per l’indipendenza algerina, Christophe viene spesso affidato ai nonni nella grande casa familiare. È in quell’appartamento, microcosmo dell’intera genealogia Boltanski, che il bambino comincia a percepire che qualcosa è celato: un segreto taciuto, un passato non detto, una presenza invisibile ma costante. Il fulcro narrativo si cristallizza attorno alla figura del nonno Étienne, un medico ebreo russo convertito al cattolicesimo, che durante l’occupazione nazista si nascose letteralmente sotto il pavimento del bagno per sfuggire alla deportazione. Il rifugio reale diventa metafora di tutte le “cache”, i nascondigli fisici ed emotivi, che abitano la storia della famiglia.
Nel cuore del film Il nascondiglio si muove una costellazione familiare densa di contraddizioni, di storia e di umanità. Al centro troviamo la nonna, interpretata da Dominique Reymond, figura imponente e al tempo stesso dolce, vera colonna portante della famiglia. Sociologa, scrittrice e militante comunista, prepara piatti ashkenaziti come gesto di trasmissione culturale e tiene insieme i frammenti identitari della casa con autorevolezza silenziosa. Accanto a lei c’è il marito, il nonno con il volto di Michel Blanc, un medico ebreo convertito al cattolicesimo, che durante l’occupazione nazista si nascose sotto il pavimento della sala da bagno per sfuggire alla deportazione. La sua presenza è quieta, ma decisiva: incarna il trauma non detto, la sopravvivenza silenziosa che segna ogni gesto.
Luc, il padre di Christophe, è un giovane intellettuale immerso nella lotta politica. Sociologo destinato a diventare una figura chiave del pensiero critico francese, è animato da un senso profondo di giustizia. Suo fratello Christian, il futuro artista plastico, è invece un adolescente inquieto e marginale, il cui primo contatto col mondo dell’arte avviene proprio nel maggio del ‘68, con una mostra inaugurata nel giorno in cui tutto il paese era bloccato dalle manifestazioni. Completa il quadro lo zio Jean-Élie, appassionato di linguistica e di cinema, figura affettuosa e intellettualmente brillante, che condivide con Christian un legame profondo, quasi simbiotico. E poi c’è la bisnonna Niania, impersonata da Liliane Rovère, che arriva dalla Russia zarista con un’identità multipla e mutevole: è una sopravvissuta, una matriarca dai mille nomi e dai mille racconti, reali o inventati.
Al centro, silenzioso ma sempre presente, c’è Christophe bambino. Lo interpreta Ethan Chimienti, alla sua prima esperienza cinematografica, che osserva il mondo adulto con una curiosità assorta e una sensibilità che disegna i contorni della memoria futura. Il suo sguardo è il vero motore del film: non giudica, non comprende fino in fondo, ma registra, immagazzina, sente. I personaggi, così fortemente radicati nella realtà, diventano sullo schermo figure emblematiche: ognuna di loro rappresenta una sfaccettatura della memoria storica e personale, un nodo tra passato e presente, tra ciò che si dice e ciò che si nasconde.
Il nascondiglio è un film sulla memoria, individuale e collettiva, sull’identità che si costruisce tra verità storica e finzione necessaria. Lionel Baier si appropria del testo di Boltanski e ne fa un’opera cinematografica personale, mescolando alla genealogia familiare francese la propria, svizzera e mitteleuropea, altrettanto segnata da lacune e silenzi.
Il film interroga l’eredità della Shoah senza mai mostrarla frontalmente. Baier evita deliberatamente la messa in scena della Storia con la “S” maiuscola (nessun cappotto nazista in scena, nessuna ricostruzione da film epico), per concentrarsi sulle sue conseguenze quotidiane: la paura, l’adattamento, le omissioni. È una Shoah che permane, che plasma i discorsi, che si insinua nella vita come una nota dissonante, ineludibile anche quando taciuta. La casa diventa così lo spazio simbolico del passato e della trasmissione, dove oggetti, libri, fotografie e dialoghi accumulano e restituiscono strati di significato. Ogni stanza è un ricettacolo di memoria, ogni crepa del muro una faglia aperta nella coscienza storica.
L’universo visivo del film Il nascondiglio nasce in studio, non nel vero appartamento dei Boltanski. Baier, insieme alla scenografa Véronique Sacrez, ricostruisce uno spazio domestico ricco e stratificato, ispirato tanto agli interni parigini quanto ai dipinti di Félix Vallotton, agli uffici della Beauvoir quanto agli album di Gaston Lagaffe. La scenografia è dichiaratamente artificiale, ma proprio per questo potentemente evocativa: un realismo poetico, che fa sentire il peso del vissuto senza bisogno di documentarlo con pedanteria. L’intera messa in scena gioca con la tensione tra rigore intellettuale e umorismo. Come spiega lo stesso Baier, il tono è quello della commedia perché “solo ciò che ci spaventa davvero merita di essere riso”. Ed è in questo tono dolceamaro che il film trova il suo equilibrio: la comicità non dissolve il dolore, ma lo rende condivisibile.
In un gioco sottile di specchi, il film Il nascondiglio si chiede anche cosa significhi raccontare la propria famiglia: quanto si può dire? Quanto si deve inventare? Quanto si può nascondere? Nelle parole del regista, la genealogia è un atto di selezione narrativa: si conserva ciò che serve alla costruzione di sé e si lascia nell’ombra ciò che non si riesce ad affrontare. Il nascondiglio è perciò anche un film sul bisogno di raccontarsi, e sul bisogno che ogni narrazione ha di un “filtro”, di una struttura, di un’invenzione.
Il nascondiglio non è solo il racconto di una famiglia ebrea francese del Novecento. È una riflessione profonda sulla possibilità di sopravvivere al trauma, sulla necessità di reinventarsi per trasmettere qualcosa, e sull’ambivalenza del ricordo. In bilico tra ricostruzione storica e finzione affettiva, tra gravità politica e leggerezza burlesca, il film si fa portatore di una memoria viva, in trasformazione, mai pacificata. In fondo, come dice Lionel Baier, si può e si deve passare “a un’altra scena per dire la stessa cosa”. E, nel farlo, il cinema e la famiglia trovano forse il loro senso più profondo.
Film Tv

02 settembre 2025
La coppia più bella del mondo: Quir di Nicola Bellucci
Risale al 31 ottobre 1980 uno spaventoso duplice delitto a carattere omofobo: a Giarre, sulla costa siciliana orientale, venne assassinata una coppia gay, Giorgio Agatino Giammona e Antonio Galatola, che tutti in paese chiamavano i “ziti”, i fidanzati in dialetto siciliano. Fu un momento fondante del movimento omosessuale italiano, che diede il via alla costituzione di associazioni come l’Arcigay. Fra i suoi militanti storici in prima linea figura Massimo Milani, la cui vita è al centro del documentario Quir, di Nicola Bellucci, presentato nella sezione Officina Sicilia del 70° Taormina Film Festival, evento in collaborazione con il Sicilia Queer Filmfest. Massimo è una bella e solare signora che gira per strade e vicoli di Palermo con la sua bicicletta carica di fiori che spuntano dal cestino. Nonostante le fattezze femminili, con il suo prosperoso seno, Massimo si fa chiamare sempre con il suo nome di battesimo e si declina al maschile nelle conversazioni, risultando anticonformista anche nei confronti delle regole del politicamente corretto che oggi vanno di moda. Con il compagno di una vita, e da poco marito, il quale analogamente rifiuta la retorica dell’essere nati in un corpo sbagliato, gestisce un negozio di pelletteria nello storico mercato popolare di Ballarò, che è un punto d’incontro della comunità arcobaleno del capoluogo siciliano. Oltre ai coniugi gestori, Nicola Bellucci segue anche Charly Abbadessa, anziano protagonista della comunità gay americana di cui facevano parte tanti nomi importanti di Hollywood che lui frequentava, Vivian Bellina, una ragazza trans che si è trasferita in quel circondario palermitano, il teatrante e artista stravagante Ernesto Tomasini. Basterebbe questo straordinario materiale umano a giustificare il film. Nicola Bellucci ha seguito questi personaggi per svariati anni, durante l’epoca del covid come testimoniato dalle mascherine che si vedono in varie scene. Risale a questo periodo il matrimonio tra Massimo e Gino, coronamento di una vita insieme e celebrato proprio a Giarre, luogo fortemente simbolico avendo rappresentato la madre di tutte le battaglie. Il privato è politico, sia per la location scelta, ma anche per la precisa terminologia, il fatto di chiamare matrimonio ciò che le leggi italiane definiscono come unione civile. Nel film ci sono alcune scene dai gay pride, con le orazioni satiriche di Massimo, ma complessivamente il regista non indugia sulla parte più espressamente politica. Per questo motivo non viene compresa un’altra narrazione chiave sulla storia dei movimenti gay siciliani, quella relativa alla figura di Nino Gennaro, poeta e autore teatrale, molto vicino a Massimo, morto di AIDS, che da Corleone si era trasferito a Palermo insieme alla sodale Maria De Carlo. Ma è la stessa vita di questa comunità di marginali, la loro esistenza serena che procede al di là di qualsiasi giudizio esterno, a diventare politica, militanza. Una militanza che diventa omnicomprensiva, dove le battaglie per i diritti delle persone gay sono assimilabili a quelle di tutte le minoranze o al contrasto alla mafia. L’altra storia toccante che il film racconta è quella delle cure affettuose che Ernesto Tommasini fa alla propria anziana madre negli ultimi tempi della sua vita, che culmina con il funerale alla presenza di tutto quel nucleo di amici stravaganti. Matrimonio e funerale, e le tombe, entrano nel film in quanto parte della vita. Quir comprende il passaggio del tempo, il passaggio tra le generazioni. Centrale la figura di Charly, che vediamo anche nudo nel suo corpo ora impietosamente segnato dall’età. Per lui che era parte del mondo dorato hollywoodiano, della Hollywood Babilonia dove l’omosessualità era diffusissima ma si teneva segreta, come nei film di Douglas Sirk, un mondo luccicante dai colori technicolor. Nella vita dei personaggi che segue, Quir è anche un ritratto di Palermo, come sottolineato da tante panoramiche sulla città. Una città sospesa tra passato e futuro, ritratta nei suoi quartieri popolari, con i suoi storici mercati all’aperto come quello di Ballarò, dove si inserisce la comunità dei protagonisti. Una città che comprende tutto e il suo contrario, le donne velate in niqab, quel velo islamico più coprente che lascia solo una fessura per gli occhi, della comunità islamica così come i personaggi protagonisti. Quir è un film sulla bellezza umana dei suoi personaggi, costellato di momenti umoristici che mantengono l’opera in un tono leggero. Alcuni esempi: l’inquadratura di Vivian che ansima, come fosse impegnata in un rapporto sessuale, per poi scoprire che in realtà sta facendo esercizi con un peso alle gambe; il riferimento all’assonanza tra il nome di Rock Hudson e il termine “cazzo”; la battuta di Gino, quando scopre che Massimo si fa impiantare il seno: «Basta che non ti levi il resto». Giampiero Raganelli, Quinlan.it

25 giugno 2025
Scomode verità: il grande ritorno di Mike Leigh, con un’indimenticabile masterclass di Marianne Jean-Baptiste
I titoli dei film di Mike Leigh sono sempre quel che sono e, al contempo, indicano qualcosa che resta nascosto in piena vista. Dai primi Bleak Moments, ovvero i momenti cupi tra personaggi che non sanno comunicare tra loro, e Belle speranze da leggere in antitesi sul fronte delle illusioni perdute, passando per il rigurgito di speranza di Dolce è la vita, la messa a nudo di Naked, Segreti e bugie che parla letteralmente di fatti celati e occultati e così via fino alle quattro stagioni attraversate dal gruppetto di Another Year.
Scomode verità (Hard Truths), che arriva dopo i due affreschi storici Turner e Peterloo, non fa eccezione: il punto è tutto nel titolo, nel provare a confrontarsi con le cose che non accettiamo perché dolorose o sgradevoli. Non è un caso che il film inizi sì con una scena enigmatica (e ciclica) ma subito interrotta da un urlo che squarcia un sonno diurno, in una stanza che la protagonista vorrebbe tenere tutta per sé invano, non fosse che i raggi di sole si infiltrano tra le veneziane e che il marito, russando, impedisce la quiete notturna.
È il primo dei tanti urli di Pansy, una casalinga infelice – e, si sa, ognuno è infelice a modo suo – e costantemente sul piede di guerre, divorata dall’ansia e dalla paura, spaventata da un mondo che ha imparato a recepire come incontrollabile: i germi da abbattere con pulizie ossessive, la gente con cui litigare a prescindere per un parcheggio o per una visita medica, gli animali che siano insetti o volpi poco cambia, i fiori da maneggiare senza toccarne i pericolosi gambi.
Pansy non dà pace agli altri e non si dà pace, si sente odiata, insidiata, perseguitata da tutti: che non riesca più a dormire è il minimo ed è naturale che cerchi rifugio nel divano (un luogo da disinfettare, sostituire, ridurre nelle dimensioni). Come se il corpo affaticato dalle carenze (fisiologiche, affettive, sociali: il marito e il figlio sembrano annichiliti dalla donna, incapaci di reagire) si rifiutasse di giacere in un posto, il letto matrimoniale, che ormai è sinonimo di lutto: quello mai metabolizzato della madre; e quello in fieri della fine di qualcosa che forse non è mai iniziato.
A far da contraltare, sua sorella Chantelle, una parrucchiera solare che non alza mai la voce, è predisposta all’ascolto, si fa ben volere da tutti, raccoglie le confidenze delle clienti e ha un bel rapporto con le figlie cresciute da sola (gli uomini, l’abbiamo capito, sono superflui, perfino ingombranti, sicuramente repressi fino allo sconforto). A legarle è un passato che riaffiora per frammenti sparsi e ricordi condivisi, ma le scomode verità trascendono il tempo: stanno lì, nascoste in piena vista, negli spazi apparentemente ostili alla presenza di Pansy o viceversa, di fronte alla lapide di una persona cara, in una casa senza calore né arredi, in un piccolo soggiorno pieno di pietanze che non mangerà nessuno.
L’hard truth è evidente e noi non possiamo farci niente: Pansy è depressa e nessuno ha il coraggio di dirglielo – o ridirglielo – e, alla fine, il collasso emotivo è tale che l’urlo non è mai liberatorio ma punitivo, il conflitto distrugge anziché costruire, il trauma ultimo scorso è solo il sintomo. E non bastano più un abbraccio, un’attenzione, una domanda per una catarsi ormai forse impossibile.
È stupefacente come Leigh costruisce questa anatomia di una caduta senza cedere al pietismo del giorno dopo, alla retorica più scolastica, al flusso didascalico di fatti messi uno dopo l’altro per innescare una reazione. Con un fondamentale lavoro con – e su – la luce di Dick Pope (storico sodale dell’autore, morto nell’ottobre 2024), che cerca il nitore e scopre la fredda inquietudine di un turbamento privato che si riflette in un sentimento collettivo, quello del tempo sospeso della pandemia (che peraltro ha ritardato l’inizio delle riprese e si ritrova nelle sparute mascherine e nell’isolamento dell’adolescente interrotto).
Maestro del realismo e umanista fuori moda, Leigh non prescinde mai dalla commedia che postula il dramma, dall’umorismo senza il quale la vita sarebbe un’occasione perduta, dal cuore che batte anche oltre una coperta che fa da barriera, il giubbotto come corazza, nella lacrima che sgorga immaginando una rinascita. E pochi come lui amano le attrici e gli attori (Michele Austin, David Webber, Tuwaine Barret), regalando a Marianne Jean-Baptiste – da lui rivelata in Segreti e bugie – l’occasione di un’indimenticabile masterclass: uno dei personaggi più respingenti, scontrosi, antipatici degli ultimi anni al servizio della più spettacolare, straziante, travolgente, crisi di nervi dai tempi del duo Cassavetes/Rowlands. Se non è un capolavoro poco ci manca.
Lorenzo Ciofani, Cinematografo

24 giugno 2025
Fare cinema d'estate
L’amore per il cinema è il motore che anima lo spirito dei volontari del Carbone che da ormai quindici anni portano il loro schermo mobile in città e nei luoghi della provincia, dopo la lunga stagione di eventi nella sala di via Oberdan. Ogni sera avviene la magia, ogni sera si trasformano piazze, cortili, parchi e giardini in sale cinematografiche temporanee, grazie all’impegno e alla collaborazione di tutti: volontari, segreteria e tecnici dell’associazione "il cinema del carbone", che insieme alle diverse realtà e associazioni del territorio rendono l’estate mantovana sempre più vivace e coinvolgente.
Tutte le sere lo stesso rituale: si carica il furgone con l'attrezzatura e intorno alle sette si parte, destinazione: Rivarolo Mantovano, Roncoferraro, Castellaro Lagusello, Marcaria, Castelgoffredo (...) ma anche Il circolo Canottieri Mincio, Piazza Alberti e, da quest'anno, Palazzo Ducale e San Cristoforo.
È una storia sempre nuova ma antica, quella del cinema, che ci affascina con la sua luce e le sue immagini in movimento e ci porta, per qualche ora, in un altro spazio e in un altro tempo seguendo le avventure o disavventure di personaggi che diventano in pochi minuti volti e voci in cui riconoscerci.
E così ogni sera i volontari del carbone, con le loro magliette colorate, ormeggiano lo schermo nel luogo destinato, lo aprono e si preparano alla visione, accompagnati dal pubblico che diventa comunità di spettatori. Nelle piazze c'è chi arriva in bicicletta, chi con un cuscino, chi con la famiglia o l'amica del cuore, chi si ferma solo 5 minuti, chi rimane immobile fino all' ultimo fotogramma e chi, alla fine, raccoglie le sedie insieme ai volontari e ci chiede dove ci può trovare il giorno seguente. Il giardino, la piazza e quell'angolo di mondo, dopo essere stati attraversati dalla storia del film, ritornano ad essere gli stessi luoghi di sempre o forse come tutti diventano altro, trasformati in un’esperienza di luce e buio dove perdersi e ritrovarsi.
È possibile sostenere le attività del cinema del carbone con la tessera associativa o anche attraverso il 5x1000. Una delle missioni dell'associazione è quella di collaborare attivamente con enti e associazioni del territorio mantovano per promuovere la cultura cinematografica e l'aggregazione sociale.

18 giugno 2025
In marcia coi lupi: quando il cinema diventa naturalismo filosofico.
"Ho passato tre anni in questa sperduta valle delle Alpi con un'unica ossessione: guardare negli occhi dei lupi". Il regista e unico protagonista umano del film, Jean-Michel Bertrand, introduce con queste parole In marcia coi lupi, seguito del suo La vallée des loups, passato al Trento Film Festival nel 2017. In questa sorta di prolungamento della ricerca, il progetto continua a concentrarsi sull'osservazione della stessa specie, scomparsa dai territori francesi e divenuta specie protetta dal 1993. Ma più precisamente, sulla dispersione, o "sostituzione" di giovani esemplari, che, dovendo emanciparsi dal gruppo, intraprendono un cammino casuale, attraversando e cercando di insediarsi in territori anche molto diversi tra loro.
Ex piantatore di alberi per la Forestale, il regista Bertrand, non sappiamo con l'aiuto di quanti collaboratori, immagina e disegna i percorsi dei lupi, nasconde delle microcamere in quattro posizioni che ritiene strategiche e le collega al suo smartphone, al fine di raccogliere dati sui loro itinerari, abitudini, esperienze.
La sopravvivenza, per un giovane lupo isolato, non è semplice: deve evitare sia la concorrenza di branchi già formati, ai quali non può unirsi, e le minacce degli ambienti abitati da uomini. Al contrario dei clichés circolanti, il lupo ha molte vulnerabilità, tra cui anche l'ostilità di parte della comunità di campagna e il pregiudizio ancorato a narrazioni medievali.
Diario molto ellittico di un pedinamento amoroso, In marcia coi lupi è in realtà un doppio viaggio, parallelo: quello dei lupi, alla ricerca del proprio posto nell'ecosistema (in cui scopriamo che è sempre la femmina a prendere l'iniziativa e a camminare davanti) e quello del loro osservatore, solitario e vagabondo tanto quanto loro, verso una dimensione quasi eremitica. In questa immersione alpina into the wild prevale un'idea di società e di mondo a basso impatto e ad alta autoregolamentazione, distante da logiche di sfruttamento e semmai guidato da rispetto, ecologia, consapevolezza della convivenza. Le immagini a bassa definizione e spesso notturne delle microcamere vengono distillate al montaggio dentro un repertorio di panorami, colti da alture oppure da droni, in una celebrazione delle cromìe naturali tra il Monte Bianco e la catena del Giura.
Raffaella Giancristofaro, Mymovies

04 giugno 2025
ARAGOSTE A MANHATTAN: una commedia ricca di divertimento, intuizioni folgoranti e risvolti politici
In ogni scena di Aragoste a Manhattan, superbamente diretto da Alonso Ruizpalacios, si percepisce una forza vitale impetuosa, a tratti esuberante, ma più spesso tesa verso il disastro o la violenza. Pensate a The Bear sotto l'effetto della cocaina e avrete un'idea dell'intensità sostenuta e della pressione latente di questa tragicommedia feroce su ciò che i clienti non vedono durante una giornata di lavoro in un affollato ristorante di Times Square. Lo sceneggiatore e regista messicano ha stile da vendere, come si evince dalle immagini inebrianti in bianco e nero, dal montaggio dinamico e dall'uso sorprendente della musica, che alterna jazz e solenni brani corali. [...] il film resta una visione avvincente sul tema dell'immigrazione come limbo infernale, in cui qualsiasi idea di comunità si rivela un’illusione. Nei suoi film precedenti Ruizpalacios ha dimostrato un'affinità sia con la Nouvelle Vague francese sia con l'eccentricità dell'indie americano, oltre a un occhio da documentarista per i dettagli. Il suo quarto lungometraggio reca tracce di tutte queste influenze, agganciate all’idea chiave di Thoreau della fatica come qualcosa di antitetico ai sogni, o persino alla vita stessa.
David Rooney, The Hollywood Reporter

29 maggio 2025
In ricordo di Sebastião Salgado torna al cinema Il sale della terra
Per rendere omaggio al celebre fotografo Sebastião Salgado, scomparso il 23 maggio scorso a Parigi all'età di 81 anni, torna al cinema il documentario IL SALE DELLA TERRA diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, candidato al premio Oscar 2015 come Miglior Documentario e Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes-Un Certain Regard.
Ispirato dalla potenza lirica della fotografia di Sebastião Salgado, IL SALE DELLA TERRA è un documentario monumentale che traccia l'itinerario artistico e umano del fotografo brasiliano attraverso gli sguardi incrociati di Wim Wenders - anch'egli fotografo - e di suo figlio Juliano che lo ha accompagnato nei suoi ultimi viaggi. Eroe del nostro tempo, viaggiatore irriducibile, Sebastião Salgado ha esplorato oltre 40 paesi. In ogni suo scatto, con l'uso inconfondibile e personalissimo del bianco e nero, ha condensato tutta l'umanità e l'anima della terra attraverso storie di lavoratori, migrazioni e povertà. Ha raccontato il rapporto tra uomo e l'ambiente, narrando con uno sguardo straordinario la bellezza della natura e cosa ne rimane oggi, nonostante distruzioni e cambiamento climatico. Per questo nel 2016 l'Accademia Francese delle Belle Arti lo aveva eletto "grande testimone della condizione umana e dello stato del pianeta".
Alternando la sua storia personale con le riflessioni sul mestiere di fotografo, nel documentario Salgado viene interrogato dallo sguardo fuori campo di Wenders e si racconta attraverso i reportage con cui ha omaggiato la bellezza del pianeta.
Comingsoon

27 maggio 2025
Fino alle montagne: un film fortemente sensibile che affronta il tema dello sradicamento e dei limiti umani
Dopo l’allegoria politica di Antigone, Sophie Deraspe adatta il romanzo autobiografico del vero Mathyas Lefebure, “D’où viens-tu, berger?”, e si confronta con i limiti della condizione umana di fronte all’indifferenza (e alla bellezza) della natura (…) L’evoluzione di Mathyas non sta tanto nel suo entrare in relazione con la natura – che rimane inospitale e dura per chi ingenuamente vuole farvi ritorno – quanto nel passare dalla solitudine alla condivisione. Se nella prima sequenza, leggendo una sua lettera a casa, il ricco pubblicitario canadese sembra imporre la sua volontà senza curarsi di chi lo aspetta (e nell’assolata Provenza non si discosta molto dal londinese in vacanza di Un’ottima annata), nel resto del film imparerà a prendersi cura di qualcuno -del gregge, naturalmente, ma soprattutto di Élise. E proprio quest’ultima, che passa dall’immaterialità della parola (molto bella la corrispondenza con Mathyas nella prima parte) alla certezza dei gesti, è in realtà la protagonista inattesa del film, bilanciamento necessario sia delle certezze sia dei dubbi della sua controparte maschile. La grande sensibilità di Deraspe, che ha scritto il film con lo stesso Lafebure, consiste soprattutto nel lasciare ai personaggi il tempo e lo spazio (tanto spazio, nelle splendide e selvagge alture della Provenza) di accettare i cambiamenti, attenta più ai dilemmi interiori e alle battaglie delle idee che all’evoluzione drammatica del racconto. Ciò che potrebbe essere scambiato per un problema del film – la sua durata estesa rispetto all’indefinitezza narrativa – è in realtà una forza, dal momento che a Deraspe interessa soprattutto il riflesso della natura sul corpo e la mente dei protagonisti…
Roberto Manassero – Mymovies

13 maggio 2025
Black Tea di Abderrahmane Sissako: un film che lavora sulla lunghezza d’onda delle emozioni
Aspettando la felicità: sono passati dieci anni da Timbuktu e Abderrahmane Sissako si ripresenta (in Concorso a Berlino 74) con Black Tea per definire un mondo in cui agli esistenti si offre la scelta tra la menzogna e l’essere felici, tra la verità dei sentimenti e l’accettazione delle convenzioni, [...] e dove il tema dell’emigrazione diventa lo spazio ideale per l’affermazione di un principio di autenticità dei sentimenti, prima ancora che la ricerca di uno spazio fisico ed economico vitale.
Ma questo è evidentemente un film che va dritto alla sostanza della questione: il diritto alla felicità come spazio di una conquista non individuale, ma trasversale, come condivisione di un sentire che deve appartenere a tutti, all’intera comunità che diventa quasi un corpo solido, unico e identitario, al di là delle etnie e delle culture. Sissako s’inventa quello che, se non fosse un luogo ben preciso come la provincia cinese di Guangzhou, con la numerosa comunità di africani immigrata negli anni ’90, potrebbe quasi sembrare uno spazio di fantasia: l’astrazione di un perimetro geopolitico in cui convivono idealmente africani e asiatici, in una mescolanza di culture e economie quasi irrealistica. [...]
Attorno brulica una vita che tiene insieme nel quartiere commerciale attività asiatiche e africane, in un sincretismo culturale che diventa la cifra espressiva e stilistica del film: tutto riluce di cromatismi e impianti scenici iperrealistici, in cui i giochi di riflessi smarginano i perimetri come a offrire un mélange visivo in cui lasciar confondere le forme. Tutto è immerso in una perenne notte che offre quasi una dimensione onirica all’intreccio di storie d’amore, di figure in cerca di serenità, dolcezza, felicità. [...]
Black Tea lavora sulla lunghezza d’onda delle emozioni, sulla distanza della visione d’insieme. E in quanto tale è un film che resta e che saprà dialogare col pubblico.