
28 aprile 2025
Un esordio delicato e curato: La Fossa delle Marianne
Dopo la prima mondiale al Filmfest Hamburg 2024 e il riconoscimento come miglior esordio internazionale al San Diego International Film Festival, La Fossa delle Marianne è approdato in Italia come film di chiusura del Bolzano Film Festival 2025. Un percorso festivaliero solido per un’opera prima che cerca il difficile equilibrio tra intimità, dolore e narrazione. Il film dura appena 87 minuti, ma si prende tutto il tempo per scavare nei silenzi e nei non detti. Paula e Helmut si incontrano nel momento in cui le loro vite sembrano aver smarrito qualunque direzione. Lei è giovane, irrequieta, dominata da un dolore che si traduce in fuga e chiusura. Lui è un anziano misantropo e malato, che nasconde un lutto mai risolto. Il loro incontro avviene mentre lui cerca aiuto per dissotterrare la tomba della moglie, con l’intento di riseppellirla nel giardino di casa, come se la prossimità potesse colmare una distanza esistenziale. Eileen Byrne, regista lussemburghese al suo esordio, adatta il romanzo omonimo di Jasmin Schreiber con uno sguardo sincero e trattenuto, scegliendo una narrazione fatta di pause, piccoli gesti e sguardi che pesano. Paula ha dentro un abisso che la spinge a correre; Helmut un muro che lo tiene fermo. È nel contrasto tra questi due estremi che il film trova i suoi momenti più forti: non nella catarsi, ma nella resistenza, nella difficoltà a farsi comprendere, nella paura di lasciarsi vedere. Molto potente anche l’elemento narrativo del confronto col fratellino di Paula, con cui la protagonista dialoga costantemente: figura che sembra inizialmente il ricordo di una perdita, ma che finisce per incarnare la parte di sé che vuole riemergere.
Luna Wedler lavora sulla tensione del corpo e sull’inerzia dello sguardo. Paula è sempre in movimento, ma i suoi occhi restano fissi su un punto che nessuno vede. Edgar Selge, al contrario, è un corpo immobile che si consuma lentamente. La forza del film è tutta in questa dinamica: due solitudini che non si risolvono, ma si riconoscono, almeno per un attimo. Quando accade, non c’è retorica. Solo due persone che restano a galla, senza pretendere di salvarsi. [...]
Byrne filma la natura come spazio mentale: le Alpi, i laghi, la pioggia improvvisa, la luce tra i rami. La natura non consola, ma riflette. Non salva, ma accompagna. E quando il film si affida solo a questo – alla luce, al respiro, a un passo esitante – riesce a toccare corde più autentiche. La Fossa delle Marianne è un esordio delicato e curato, che lavora con sincerità su una materia emotiva fragile e profonda. È un film che sa ascoltare i suoi personaggi, che trova nei silenzi e nei gesti più piccoli la sua forza.
Giuseppe Sant'Elia, Nocturno.it

16 aprile 2025
Puan - Il professore: una tragicommedia a sfondo politico sul significato e la perdita degli ideali
Il film si concentra sulla storia della coppia di protagonisti, il professore goffo e idealista e il cinico orchestratore, di quella generazione che voleva cambiare il mondo mentre il mondo ha cambiato lei, quello che erano e quello che sono ora. E riflette anche il mondo dell'università pubblica di oggi, i suoi stereotipi (perché ce ne sono), le sue dinamiche interne, i suoi problemi, i suoi rapporti di potere, i suoi classici scontri tra ego, il suo sfondo politico e sociale, le sue nuove generazioni. Il "Puan" (il nome della famosa università che dà il titolo al film, pietra miliare dei movimenti studenteschi e rivoluzionari argentini) è anche una perfetta rappresentazione di ciò che è la vita, di come funziona, dei suoi alti e bassi, dei suoi conflitti, delle sue lotte e del suo disordine. Il film parla così dell'idealismo e della sua scomparsa, delle derive neoliberiste della società, del significato di ciò che facciamo, del perché decidiamo di dedicare il nostro tempo a una professione o a un compito (al di là del denaro), dell'importanza dell'istruzione, di ciò che ci separa e di ciò che ci unisce, della distanza e della coerenza tra pensiero e azione, delle apparenze e delle sorprese che la vita a volte ci riserva. [...]
Puan - Il professore è un film piacevole da vedere, divertente e impegnato allo stesso tempo, che funziona come commedia, dramma e cinema politico, cronaca di una sconfitta e della dignità che si può trovare in essa, e ancora una riflessione agrodolce sul significato e la crisi degli ideali, sugli alti e bassi del comportamento umano.
Júlia Olmo, Cineuropa

16 aprile 2025
Generazione romantica di Jia Zhang-ke
Il regista cinese ripercorre la coreografia infinita del suo cinema, l’amore tenuto a distanza, lo scarto abissale con il futuro, le immagini che mutano forma quando le vai a rivisitare.
Jia riavvolge il filo della relazione tra Bin (Zhubin Li) e la Qiaoqiao di Zhao Tao, personaggio ritornante delle sue immagini, e trasforma l’intera prima sezione di Generazione romantica in una playlist senza soluzione di continuità di scene di canto, di ballo di gruppo, di karaoke, di danza, prese dai suoi film precedenti, da Still Life a Al di là delle montagne o I figli del fiume giallo: è vero, possiamo giurare di riconoscere ogni fotogramma, ogni vertigine che ci viene restituita dal ritrovare queste istantanee di una poetica, ma allo stesso tempo è come se il nostro rapporto con questa materia si stesse rinnovando davanti ai nostri occhi, nell’istante stesso in cui il suo autore la va rivisitando – è quello che accade puntualmente con i movimenti di macchina di Jia, con il rapporto che instaurano con il paesaggio e le masse di corpi che lo abitano, c’è sistematicamente quell’istante in cui il tuo sguardo vaga alla ricerca del fulcro di quanto sta accadendo sulla scena, un abissale secondo di smarrimento prima di “agganciare” il senso (accade qui anche al robot con cui Zhao Tao imbastisce un irresistibile e struggente sketch di riconoscimento esistenziale nel centro commerciale).
Sta tutta in quello scarto l’operazione di Generazione romantica, perché di film in film Jia Zhang-ke ha raccontato passato, presente e futuro della sua Cina, e questa rimessa in gioco a distanza ravvicinata di quanto filmato da Unknown Pleasures in poi si trasforma anche in un attraversamento di formati di ripresa e dell’inquadratura, urbanizzazioni forzate, automazioni sociali, orizzonti che da rurali (e low budget) diventano hi-tech, o meglio fanno convivere entrambe le vedute sullo sfondo: nella coda che rappresenta l’apporto inedito al progetto, il cineasta s’immerge nel racconto della quotidianità da pandemia, col distanziamento, le mascherine, le sanificazioni.
Sergio Sozzo, SentieriSelvaggi

15 aprile 2025
Noi e Loro: Vincent Lindon, Delphine e Muriel Coulin e un film sui sentieri della vita
Ogni grammo di esperienza, di mimica e gestualità, ogni goccia di talento purissimo, è qui al servizio di una narrazione poggiata tutta sulle stanche ma ancora possenti spalle dell’interprete francese che nei panni caratteriali di Pierre padre affettuoso, danneggiato e premuroso, si muove come bilanciere esistenziale tra le vite dei suoi figli: Louis e Fus, opposti, agli antipodi, nelle cui vene scorre lo stesso sangue ma tutto sembra indicare una natura estranea. Uno pacato, gentile, attento e studioso; l’altro caotico, violento e ribelle sino a rasentare la follia. Eppure – e da qui la scelta di parole del titolo italiano Noi e Loro – uniti più che mai contro chi gli è contrario. Ci sono gli Hohenberg e poi il resto del Mondo.
Ma non solo, perché lo sviluppo del racconto intessuto dalle Coulin ne permette un’ulteriore valenza semantica. Noi e loro sono anche le due facce antitetiche della nostra società: i liberali e i populisti. Chi semina accoglienza, amore e comprensione, e chi aggressività, odio e rabbia violenta. Da qui la sempre più arcuata forbice valoriale tra i due fratelli che della narrazione di Noi e Loro è il cuore emotivo. Vite opposte quelle di Louis e Fus portati in scena da due eccellenti Crepon e (soprattutto) Voisin, ma entrambe risposte decise ad un trauma come può essere la perdita di una madre in tenera età. È un film sui sentieri della vita quello delle Coulin, su scelte e decisioni e sulle conseguenze delle nostre anche più insignificanti azioni. [...]
Noi e Loro è certamente un film che merita un occhio di riguardo. Una visione che arricchisce.
Francesco Parrino, Hotcorn

08 aprile 2025
Mickey 17 di Bong Joon-ho è una straordinaria satira spaziale
I film di Bong Joon-ho sono mondi. Ognuno contiene una varietà e una complessità di relazioni paragonabile a quella che le serie TV snodano in dieci episodi. Ogni personaggio ha una sua personalità complicata, né buono né cattivo, pieno di lati oscuri anche se ha le migliori intenzioni. Ogni svolta nella storia è motivata da qualcosa che ci è stato detto prima, ogni snodo narrativo è perfettamente coerente con il resto dei fatti. Questa non è solo buona scrittura, nei suoi film sono dettagli che emergono dalla regia, realizzata con un occhio attento alla narrazione visiva, perché ciò che la scrittura non riesce a dire ci viene comunicato dalle immagini. E di nuovo, anche in Mickey 17, presentato alla Berlinale 2025 e ora in sala, ce ne sono di pazzesche.
A partire da una delle prime, che dice tutto: un corpo umano esce da un macchinario come un foglio esce da una stampante, facendo un po’ avanti e indietro e con un rumore simile. È la massima forma di replicabilità che conosciamo, quella della fotocopia, e ha il minimo valore: il foglio stampato che si può accartocciare perché tanto se ne fa un altro uguale. Questo è Mickey, uno scemotto, che per sfuggire ai debiti sulla Terra ha accettato di imbarcarsi su un’astronave insieme a milioni di altre persone, dirette verso un nuovo pianeta da colonizzare. A differenza dei furbi, lui ha firmato senza leggerlo un documento che lo imbarca come "sacrificabile": la sua mente viene mappata e così il suo corpo. Potrà svolgere i compiti più rischiosi e testare veleni o cure, perché può morire all’infinito e poi essere ri-stampato come nuovo. Il problema nasce quando una sua versione, la 17, non muore divorata da creature aliene come tutti pensano e, tornato alla base, incontra il suo doppio, la versione 18.
La prima cosa eccezionale di questo film di grandissima fattura è l’interpretazione di Robert Pattinson, il protagonista. La maniera in cui caratterizza l’essere un sempliciotto con un eterno sorriso non ha nulla di banale. Non è l’espressione serena di qualcuno che è onestamente un cuor contento, ma quella di chi non sta capendo proprio tutto e se lo fa andare bene perché teme le conseguenze. È la cifra del film che, come spesso accade in quelli di Bong, racconta il modo sprezzante in cui le élite perpetuano il loro status, sfruttando i più poveri. In questo futuro distopico nessuno difende uno scemo e ignorante come il protagonista dai contratti violentissimi delle multinazionali. Nessuno previene che venga circuito e usato non solo come un oggetto, ma come l’ultimo degli oggetti. Il più replicabile. Un’altra idea magistrale è che questi nuovi corpi vengano prodotti a partire dai rifiuti peggiori.
Per gli appassionati della filmografia di Bong Joon-ho, siamo in un punto intermedio tra Okja e Snowpiercer, tra la satira sociale e la fantascienza, tra l’adorazione per le creaturine un po’ mostruose e l’allegoria della stratificazione sociale, della leggerezza e dell’incompetenza che regnano nelle grandi organizzazioni umane (spesso nel film viene sottolineato quanto tutti siano poco attenti e poco dediti al lavoro). A capo di tutto c’è un terribile leader, interpretato dal solito mirabile Mark Ruffalo (con la medesima dentierona che aveva Tilda Swinton in Snowpiercer e una parlata da Trump), che vive nel lusso, promettendo a tutti un domani migliore che, in realtà, non è in grado di garantire. La storia è quella della fondazione di una nuova civiltà e afferma quanto la creazione della nostra società, nel corso dei secoli, sia stata possibile proprio attraverso meccanismi di sfruttamento e massacro dei molti senza diritti da parte dei pochi potenti. E questo è un atto di violenza inaccettabile in un film pensato per far arrabbiare, per indurre alla rivolta.
Gabriele Niola, Wired

01 aprile 2025
La città proibita, il nuovo film di Mainetti è un miscuglio di generi che sa intrattenere
La tigre e il cuoco, Kung Fu all’amatriciana, Grosso guaio a Piazza Vittorio, Kill Bill all’Esquilino. Si può rinominare in tanti modi, tutti giusti, La città proibita, terzo film di Gabriele Mainetti che dopo Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out continua a sorprendere il pubblico con un film del tutto inaspettato. [...]
Che Mainetti fosse abile a realizzare film spettacolari lo sapevamo, questa volta firma una commedia d’azione che lascia spazio al romanticismo e si diverte a esagerare con un revenge movie che cita Quentin Tarantino e John Carpenter e omaggia il cinema di arti marziali. Non dimentica di restituire uno spaccato sociale curioso, quello di una Piazza Vittorio multietnica, dove italiani e cinesi coabitano con altre culture. «Roma ti entra dentro, qui tutto è permesso e niente è importante. In Cina niente è permesso e tutto è importante», ricorda il capo della malavita cinese Mr. Wang, che si intenerisce solo nel guardare il figlio rapper. Due famiglie a confronto, tra canzoni d’annata e botte da orbi, omicidi cruenti e piatti al tè verde preparati con amore.
La città proibita nel suo miscuglio di generi è un film caleidoscopico, ambizioso e risulta innovativo, ma saprà dividere: chi ne godrà appieno, finendo per tifare per la supereroina Mei e intenerirsi nel finale, e chi lo bollerà come un giocattolone ibrido poco riuscito. Una cosa è certa: tra mosse di arti marziali e pasta all’amatriciana, violenza efferata e fughe d’amore, non annoia mai.
Claudia Catalli, Wired

25 marzo 2025
Hokage: quando la guerra brucia l’anima
Difficile restituire il dramma di una guerra dall'interno di quattro soffocanti mura: un'impresa sulla carta a dir poco impossibile che, tuttavia, quel genio di Shin'ya Tsukamoto pare aver egregiamente affrontanto e orogliosamente vinto con il suo dolente e impietoso film.
È infatti un dramma crudelemente post-bellico e angosciosamente post-traumatico quello che l'ormai attempato, ma sempre filmicamente frizzante papà di Tetsuo ci apparecchia dinnanzi agli occhi con Hokage.
Lo fa attraverso un budgetancora una volta ridotto letteralmente all'osso, ma più che sufficiente a dar vita a un'infernale epopea di 90 pregnantissimi minuti nella quale tutte le nevrosi, gli orrori e i cinematografici feticismi del suo ribaldo e maramaldo Cinema si (con)fondono in una durissima e tagliente scorza dal colore e Sapore di ruggine e ossa.
Un oscuro, dolente e assai disturbante viaggio interiore fra le ferite ancora aperte e le schegge di follia di un manipolo di sopravvissuti che, tanto nel corpo quanto e soprattutto nello spirito, così come il coraggioso umano derelitto impegnato nell'Odissea di un tribolato ritorno in guerreggiante terra straniera di Fires on the Plain paiono già con un piede ben piantanto in quel misterioso seppur liberatorio Aldilà. [...]
Hokage è un film che ribalta, contraddice e addirittura amplifica punti di vista sinora erroneamente assodati, consentendo alla narrazione di uscire dalle claustrofobiche planimetrie nelle quali si era scentemente (rin)chiusa per prendere sufficientemente fiato, passando così da una dimensione dichiaratamente intima a una decisamente più universale.
È un viaggio tutt'altro che di sola andata quello delineato da Hokage.
Un viaggio, piuttosto, di andata e ritorno fra le mille incarnazioni di quel Male che solo le guerre sono in grado di generare, un Male le cui metastasi, proprio come un cancro, rimangono a lungo e si espandono incontrollatamente tanto nel corpo sociale quanto in quello spirituale e già fiaccato dei suoi stessi protagonisti.
Operando un sapiente e controllatissimo meccanismo di sottrazione - e conseguente circoscrizione - dell'azione scenica così come anche delle stesse dinamiche narrative, al pari dell'ancor più minimalista - e umanista - Killing un solido e ispiratissimo Tsukamoto confeziona con Hokagequella che forse ad oggi rappresenta la sua opera più profonda, complessa e spasmodicamente Vital(e).
Senza scomodare improprie e stucchevoli similitudini, si potrebbe infatti affermare che Hokage rappresenta per il buon Shin'ya-san quello che per Oliver Stone è stato Platoon o, volendo, ciò che Apocalypse Now ha significato per Francis Ford Coppola.
Un viaggio emotivo, psicologico e intimamente cinematografico nel profondo e temibile Cuore di tenebra di quella già più volte decantanta (dis)umanità, costretta a leccarsi quelle ferite interiori ed esteriori che solo la guerra, unica vera e assurda "igiene dei popoli", è capace così impunemente di imprimere letteralmente a fuoco nella nostra anima disgraziata.
Matteo Vergani, Cinefacts

20 marzo 2025
Berlino, Estate '42: la giovane resistenza tedesca al nazismo in un film che colpisce il cuore
Ci sono storie che è fondamentale raccontare, soprattutto oggi, prima che vengano dimenticate e che il sacrificio di chi le ha vissute, facendo scelte di coscienza estremamente coraggiose in un regime totalitario, sia reso vano dal ritorno di dinamiche che speravamo, quelle sì, archiviate per sempre. In un paese come il nostro, che sulla Costituzione ripudia la guerra e oggi si prepara il riarmo, un film come Berlino, Estate '42 andrebbe proiettato nelle scuole, per quanto ostica possa esserne la visione. Se molti conoscono l'eroico sacrificio degli studenti cattolici della Rosa Bianca e di Sophie Scholl (che aveva solo 22 anni quando fu ghigliottinata dai nazisti coi suoi compagni, dopo aver subito atroci torture), è forse meno noto un altro movimento clandestino di resistenza al regime hitleriano, anche questo composto da giovani ma di ispirazione comunista, battezzato dai nazisti L'Orchestra Rossa. Berlino, Estate '42, racconta proprio di una compagnia di ragazzi, che condivide ideali ma anche divertimento e vacanze (chiunque ne ha avuto una ad una certa età della vita), in cui si conoscono Hans, gelataio e aspirante radiotelegrafista, e la timida, dimessa Hilde (una straordinaria Liv Lisa Friel), che finirà per dimostrarsi la più determinata e coraggiosa di tutti.
2:09/04:30
Il regista Andreas Dresen sceglie una narrazione non convenzionale per raccontare la storia di un gruppo di giovani come tanti, che decidono di non voltarsi indietro, e con un po' di incoscienza, entusiasmo e molto da imparare, si procurano una radiotrasmittente con cui mandare messaggi al nemico sovietico del Reich (solo uno dei quali arriverà a destinazione), stampano volantini e compiono azioni che per quanto non influenti in modo determinante sull'esito del conflitto in corso, vengono considerate alto tradimento e dunque punite con la morte, dopo la prigione, una serie di interrogatori e un processo dall'esito scontato. [...]
In mezzo alle scene di un presente livido e buio, ci sono i flashback colorati e accesi della sua vita passata, non in ordine cronologico, ma come si presentano a volte nella nostra mente i ricordi della felicità, a caso, in cui Hilde rivive i momenti vissuti al fianco di Hans e dei suoi amici. Sono, appunto, giovani come tanti, pieni di ideali ma anche di passione, come dimostrano le scene che riguardano i loro momenti intimi. Nuotano, vanno in campeggio, fanno sesso, sono di diversa estrazione sociale ma uniti dall'idea di un mondo migliore. Probabilmente alla morte nemmeno pensano, perché a quell'età il coraggio e l'amore per la vita sono più forti del pensiero della sua fine, che può arrivare in uno splendido giorno di sole d'agosto con una modalità atroce, burocratica, ad opera di persone che hanno perso la loro umanità e sono spaventate dal futuro che le attende, che non li vedono come esseri umani ma come nemici, appunto. Eccole dunque, queste donne coraggiose e meravigliose, in fila come dal medico, mentre un nome dopo l'altro vengono chiamate a varcare la porta dove uomini senza vergogna e senza dignità toglieranno loro la testa e - la metafora viene spontanea - la capacità di pensare. [...]
Il grande scrittore e intellettuale tedesco cattolico Heinrich Böll , premio Nobel, noto per il suo impegno antinazista, nel suo Opinioni di un clown del resto scriveva “Il segreto dell'orrore sta nel particolare”. Berlino, Estate '42 traduce in forma cinematografica questa verità e per questo siamo convinti che allo scrittore sarebbe piaciuto. Anche perché “mai dimenticare” è stato il motto della sua vita e ricordare oggi Hans e Hilde Coppi, e tutti quelli andati al patibolo con loro per un'idea, è più che mai necessario.
Daniela Catelli, Comingsoon

11 marzo 2025
Diciannove: un esordio sfrontato e decisamente convincente
Diciannove sono gli anni che ha Leonardo quando decide di partire da Palermo. Diciannove sono anche gli anni che aveva il regista Giovanni Tortorici, al debutto nel lungometraggio, nel 2015. Possono esserci quindi potenziali 'frammenti' di vita vissuta in questo racconto inquieto in cui si avverte anche una distanza tra la quotidianità del protagonista e i filmati o i gruppi social dove ogni angolo del mondo sembra facilmente raggiungibile.
Quelli di Leonardo sono spostamenti inquieti: Palermo, Londra, Siena, Milano e Torino. Quasi un 'diario' proprio come quello di Elio in Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, produttore del film di cui Tortorici è stato assistente alla regia nella serie We Are Who We Are e ha curato le riprese del backstage sul set di Bones and All. I punti di vicinanza non finiscono qui. C'è anche un modo di inquadrare i luoghi che li avvicinano. Londra viene filmata come se fosse sempre sospesa tra il set e la finzione, proprio come in The Protagonists. In più c'è un rapporto quasi sanguigno nel modo di mostrare la passione per la letteratura per Tortorici, così come in Guadagnino ci sono non solo riferimenti, ma continue 'lettere d'amore' ai cineasti e ai film che ama. [...]
L'esordio di Tortorici ha un immediato impatto perché ha il coraggio di non porsi limiti, sia a livello di dialoghi ma anche di messinscena come negli effetti di animazione. Trova il volto giusto per Leonardo, interpretato da Manfredi Marini, che ha un po' la ribellione, le nevrosi ma anche l'incoscienza di un giovane Lou Castel.
Ma anche dietro la sua ruvidezza, trova molti momenti riusciti come quello del protagonista che gira di notte per Siena perché insonne e soprattutto il momento bellissimo della giornata passata insieme alla sorella dove coglie insieme la distanza e l'intimità tra loro. Non è il classico racconto in prima persona, non è il film italiano che si parla addosso. Per questo Diciannove è un debutto decisamente convincente e anche i suoi limiti lo rendono, paradossalmente, ancora più elettrizzante.
Simone Emiliani, Mymovies

04 marzo 2025
La filosofia delle piccole cose: Black Dog di Guan Hu
Premiato a Un Certain Regard di Cannes a trent’anni esatti dall’esordio del suo autore, tra gli esponenti della cosiddetta Sesta Generazione, il film si allontana dai soliti lavori commerciali di Guan per avvicinarsi agli stilemi della produzione autoriale nazionale. Luttuoso ma anche colmo di speranza, Black Dog ci apre una finestra sul presente della Cina fotografandone il passato recente. Il regista viaggia al fianco del suo antieroe senza giudicarlo ma piuttosto interrogandosi sulle difficoltà di chi resta escluso dalle grandi rivoluzioni. L’alienazione di Lang, in particolare, viene simbolicamente sintetizzata nel suo testardo silenzio, selettivo e volontario. Il non-più-giovane uomo sceglie le parole con cura, sempre per esprimere un punto di vista. E infatti, quando giungerà il momento di riprendere in mano la sua vita, saprà rimettersi in sella. Un racconto che si fa esempio virtuoso di come sia possibile ovunque e sempre, anche nelle condizioni più disperate, ritrovare il valore dell’umanità, in questo caso lontano dalla retorica cooperativistica del Partito Unico.
Aleassandro Amato, CineCriticaWeb