
15 aprile 2025
Noi e Loro: Vincent Lindon, Delphine e Muriel Coulin e un film sui sentieri della vita
Ogni grammo di esperienza, di mimica e gestualità, ogni goccia di talento purissimo, è qui al servizio di una narrazione poggiata tutta sulle stanche ma ancora possenti spalle dell’interprete francese che nei panni caratteriali di Pierre padre affettuoso, danneggiato e premuroso, si muove come bilanciere esistenziale tra le vite dei suoi figli: Louis e Fus, opposti, agli antipodi, nelle cui vene scorre lo stesso sangue ma tutto sembra indicare una natura estranea. Uno pacato, gentile, attento e studioso; l’altro caotico, violento e ribelle sino a rasentare la follia. Eppure – e da qui la scelta di parole del titolo italiano Noi e Loro – uniti più che mai contro chi gli è contrario. Ci sono gli Hohenberg e poi il resto del Mondo.
Ma non solo, perché lo sviluppo del racconto intessuto dalle Coulin ne permette un’ulteriore valenza semantica. Noi e loro sono anche le due facce antitetiche della nostra società: i liberali e i populisti. Chi semina accoglienza, amore e comprensione, e chi aggressività, odio e rabbia violenta. Da qui la sempre più arcuata forbice valoriale tra i due fratelli che della narrazione di Noi e Loro è il cuore emotivo. Vite opposte quelle di Louis e Fus portati in scena da due eccellenti Crepon e (soprattutto) Voisin, ma entrambe risposte decise ad un trauma come può essere la perdita di una madre in tenera età. È un film sui sentieri della vita quello delle Coulin, su scelte e decisioni e sulle conseguenze delle nostre anche più insignificanti azioni. [...]
Noi e Loro è certamente un film che merita un occhio di riguardo. Una visione che arricchisce.
Francesco Parrino, Hotcorn

08 aprile 2025
Mickey 17 di Bong Joon-ho è una straordinaria satira spaziale
I film di Bong Joon-ho sono mondi. Ognuno contiene una varietà e una complessità di relazioni paragonabile a quella che le serie TV snodano in dieci episodi. Ogni personaggio ha una sua personalità complicata, né buono né cattivo, pieno di lati oscuri anche se ha le migliori intenzioni. Ogni svolta nella storia è motivata da qualcosa che ci è stato detto prima, ogni snodo narrativo è perfettamente coerente con il resto dei fatti. Questa non è solo buona scrittura, nei suoi film sono dettagli che emergono dalla regia, realizzata con un occhio attento alla narrazione visiva, perché ciò che la scrittura non riesce a dire ci viene comunicato dalle immagini. E di nuovo, anche in Mickey 17, presentato alla Berlinale 2025 e ora in sala, ce ne sono di pazzesche.
A partire da una delle prime, che dice tutto: un corpo umano esce da un macchinario come un foglio esce da una stampante, facendo un po’ avanti e indietro e con un rumore simile. È la massima forma di replicabilità che conosciamo, quella della fotocopia, e ha il minimo valore: il foglio stampato che si può accartocciare perché tanto se ne fa un altro uguale. Questo è Mickey, uno scemotto, che per sfuggire ai debiti sulla Terra ha accettato di imbarcarsi su un’astronave insieme a milioni di altre persone, dirette verso un nuovo pianeta da colonizzare. A differenza dei furbi, lui ha firmato senza leggerlo un documento che lo imbarca come "sacrificabile": la sua mente viene mappata e così il suo corpo. Potrà svolgere i compiti più rischiosi e testare veleni o cure, perché può morire all’infinito e poi essere ri-stampato come nuovo. Il problema nasce quando una sua versione, la 17, non muore divorata da creature aliene come tutti pensano e, tornato alla base, incontra il suo doppio, la versione 18.
La prima cosa eccezionale di questo film di grandissima fattura è l’interpretazione di Robert Pattinson, il protagonista. La maniera in cui caratterizza l’essere un sempliciotto con un eterno sorriso non ha nulla di banale. Non è l’espressione serena di qualcuno che è onestamente un cuor contento, ma quella di chi non sta capendo proprio tutto e se lo fa andare bene perché teme le conseguenze. È la cifra del film che, come spesso accade in quelli di Bong, racconta il modo sprezzante in cui le élite perpetuano il loro status, sfruttando i più poveri. In questo futuro distopico nessuno difende uno scemo e ignorante come il protagonista dai contratti violentissimi delle multinazionali. Nessuno previene che venga circuito e usato non solo come un oggetto, ma come l’ultimo degli oggetti. Il più replicabile. Un’altra idea magistrale è che questi nuovi corpi vengano prodotti a partire dai rifiuti peggiori.
Per gli appassionati della filmografia di Bong Joon-ho, siamo in un punto intermedio tra Okja e Snowpiercer, tra la satira sociale e la fantascienza, tra l’adorazione per le creaturine un po’ mostruose e l’allegoria della stratificazione sociale, della leggerezza e dell’incompetenza che regnano nelle grandi organizzazioni umane (spesso nel film viene sottolineato quanto tutti siano poco attenti e poco dediti al lavoro). A capo di tutto c’è un terribile leader, interpretato dal solito mirabile Mark Ruffalo (con la medesima dentierona che aveva Tilda Swinton in Snowpiercer e una parlata da Trump), che vive nel lusso, promettendo a tutti un domani migliore che, in realtà, non è in grado di garantire. La storia è quella della fondazione di una nuova civiltà e afferma quanto la creazione della nostra società, nel corso dei secoli, sia stata possibile proprio attraverso meccanismi di sfruttamento e massacro dei molti senza diritti da parte dei pochi potenti. E questo è un atto di violenza inaccettabile in un film pensato per far arrabbiare, per indurre alla rivolta.
Gabriele Niola, Wired

01 aprile 2025
La città proibita, il nuovo film di Mainetti è un miscuglio di generi che sa intrattenere
La tigre e il cuoco, Kung Fu all’amatriciana, Grosso guaio a Piazza Vittorio, Kill Bill all’Esquilino. Si può rinominare in tanti modi, tutti giusti, La città proibita, terzo film di Gabriele Mainetti che dopo Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out continua a sorprendere il pubblico con un film del tutto inaspettato. [...]
Che Mainetti fosse abile a realizzare film spettacolari lo sapevamo, questa volta firma una commedia d’azione che lascia spazio al romanticismo e si diverte a esagerare con un revenge movie che cita Quentin Tarantino e John Carpenter e omaggia il cinema di arti marziali. Non dimentica di restituire uno spaccato sociale curioso, quello di una Piazza Vittorio multietnica, dove italiani e cinesi coabitano con altre culture. «Roma ti entra dentro, qui tutto è permesso e niente è importante. In Cina niente è permesso e tutto è importante», ricorda il capo della malavita cinese Mr. Wang, che si intenerisce solo nel guardare il figlio rapper. Due famiglie a confronto, tra canzoni d’annata e botte da orbi, omicidi cruenti e piatti al tè verde preparati con amore.
La città proibita nel suo miscuglio di generi è un film caleidoscopico, ambizioso e risulta innovativo, ma saprà dividere: chi ne godrà appieno, finendo per tifare per la supereroina Mei e intenerirsi nel finale, e chi lo bollerà come un giocattolone ibrido poco riuscito. Una cosa è certa: tra mosse di arti marziali e pasta all’amatriciana, violenza efferata e fughe d’amore, non annoia mai.
Claudia Catalli, Wired

25 marzo 2025
Hokage: quando la guerra brucia l’anima
Difficile restituire il dramma di una guerra dall'interno di quattro soffocanti mura: un'impresa sulla carta a dir poco impossibile che, tuttavia, quel genio di Shin'ya Tsukamoto pare aver egregiamente affrontanto e orogliosamente vinto con il suo dolente e impietoso film.
È infatti un dramma crudelemente post-bellico e angosciosamente post-traumatico quello che l'ormai attempato, ma sempre filmicamente frizzante papà di Tetsuo ci apparecchia dinnanzi agli occhi con Hokage.
Lo fa attraverso un budgetancora una volta ridotto letteralmente all'osso, ma più che sufficiente a dar vita a un'infernale epopea di 90 pregnantissimi minuti nella quale tutte le nevrosi, gli orrori e i cinematografici feticismi del suo ribaldo e maramaldo Cinema si (con)fondono in una durissima e tagliente scorza dal colore e Sapore di ruggine e ossa.
Un oscuro, dolente e assai disturbante viaggio interiore fra le ferite ancora aperte e le schegge di follia di un manipolo di sopravvissuti che, tanto nel corpo quanto e soprattutto nello spirito, così come il coraggioso umano derelitto impegnato nell'Odissea di un tribolato ritorno in guerreggiante terra straniera di Fires on the Plain paiono già con un piede ben piantanto in quel misterioso seppur liberatorio Aldilà. [...]
Hokage è un film che ribalta, contraddice e addirittura amplifica punti di vista sinora erroneamente assodati, consentendo alla narrazione di uscire dalle claustrofobiche planimetrie nelle quali si era scentemente (rin)chiusa per prendere sufficientemente fiato, passando così da una dimensione dichiaratamente intima a una decisamente più universale.
È un viaggio tutt'altro che di sola andata quello delineato da Hokage.
Un viaggio, piuttosto, di andata e ritorno fra le mille incarnazioni di quel Male che solo le guerre sono in grado di generare, un Male le cui metastasi, proprio come un cancro, rimangono a lungo e si espandono incontrollatamente tanto nel corpo sociale quanto in quello spirituale e già fiaccato dei suoi stessi protagonisti.
Operando un sapiente e controllatissimo meccanismo di sottrazione - e conseguente circoscrizione - dell'azione scenica così come anche delle stesse dinamiche narrative, al pari dell'ancor più minimalista - e umanista - Killing un solido e ispiratissimo Tsukamoto confeziona con Hokagequella che forse ad oggi rappresenta la sua opera più profonda, complessa e spasmodicamente Vital(e).
Senza scomodare improprie e stucchevoli similitudini, si potrebbe infatti affermare che Hokage rappresenta per il buon Shin'ya-san quello che per Oliver Stone è stato Platoon o, volendo, ciò che Apocalypse Now ha significato per Francis Ford Coppola.
Un viaggio emotivo, psicologico e intimamente cinematografico nel profondo e temibile Cuore di tenebra di quella già più volte decantanta (dis)umanità, costretta a leccarsi quelle ferite interiori ed esteriori che solo la guerra, unica vera e assurda "igiene dei popoli", è capace così impunemente di imprimere letteralmente a fuoco nella nostra anima disgraziata.
Matteo Vergani, Cinefacts

20 marzo 2025
Berlino, Estate '42: la giovane resistenza tedesca al nazismo in un film che colpisce il cuore
Ci sono storie che è fondamentale raccontare, soprattutto oggi, prima che vengano dimenticate e che il sacrificio di chi le ha vissute, facendo scelte di coscienza estremamente coraggiose in un regime totalitario, sia reso vano dal ritorno di dinamiche che speravamo, quelle sì, archiviate per sempre. In un paese come il nostro, che sulla Costituzione ripudia la guerra e oggi si prepara il riarmo, un film come Berlino, Estate '42 andrebbe proiettato nelle scuole, per quanto ostica possa esserne la visione. Se molti conoscono l'eroico sacrificio degli studenti cattolici della Rosa Bianca e di Sophie Scholl (che aveva solo 22 anni quando fu ghigliottinata dai nazisti coi suoi compagni, dopo aver subito atroci torture), è forse meno noto un altro movimento clandestino di resistenza al regime hitleriano, anche questo composto da giovani ma di ispirazione comunista, battezzato dai nazisti L'Orchestra Rossa. Berlino, Estate '42, racconta proprio di una compagnia di ragazzi, che condivide ideali ma anche divertimento e vacanze (chiunque ne ha avuto una ad una certa età della vita), in cui si conoscono Hans, gelataio e aspirante radiotelegrafista, e la timida, dimessa Hilde (una straordinaria Liv Lisa Friel), che finirà per dimostrarsi la più determinata e coraggiosa di tutti.
2:09/04:30
Il regista Andreas Dresen sceglie una narrazione non convenzionale per raccontare la storia di un gruppo di giovani come tanti, che decidono di non voltarsi indietro, e con un po' di incoscienza, entusiasmo e molto da imparare, si procurano una radiotrasmittente con cui mandare messaggi al nemico sovietico del Reich (solo uno dei quali arriverà a destinazione), stampano volantini e compiono azioni che per quanto non influenti in modo determinante sull'esito del conflitto in corso, vengono considerate alto tradimento e dunque punite con la morte, dopo la prigione, una serie di interrogatori e un processo dall'esito scontato. [...]
In mezzo alle scene di un presente livido e buio, ci sono i flashback colorati e accesi della sua vita passata, non in ordine cronologico, ma come si presentano a volte nella nostra mente i ricordi della felicità, a caso, in cui Hilde rivive i momenti vissuti al fianco di Hans e dei suoi amici. Sono, appunto, giovani come tanti, pieni di ideali ma anche di passione, come dimostrano le scene che riguardano i loro momenti intimi. Nuotano, vanno in campeggio, fanno sesso, sono di diversa estrazione sociale ma uniti dall'idea di un mondo migliore. Probabilmente alla morte nemmeno pensano, perché a quell'età il coraggio e l'amore per la vita sono più forti del pensiero della sua fine, che può arrivare in uno splendido giorno di sole d'agosto con una modalità atroce, burocratica, ad opera di persone che hanno perso la loro umanità e sono spaventate dal futuro che le attende, che non li vedono come esseri umani ma come nemici, appunto. Eccole dunque, queste donne coraggiose e meravigliose, in fila come dal medico, mentre un nome dopo l'altro vengono chiamate a varcare la porta dove uomini senza vergogna e senza dignità toglieranno loro la testa e - la metafora viene spontanea - la capacità di pensare. [...]
Il grande scrittore e intellettuale tedesco cattolico Heinrich Böll , premio Nobel, noto per il suo impegno antinazista, nel suo Opinioni di un clown del resto scriveva “Il segreto dell'orrore sta nel particolare”. Berlino, Estate '42 traduce in forma cinematografica questa verità e per questo siamo convinti che allo scrittore sarebbe piaciuto. Anche perché “mai dimenticare” è stato il motto della sua vita e ricordare oggi Hans e Hilde Coppi, e tutti quelli andati al patibolo con loro per un'idea, è più che mai necessario.
Daniela Catelli, Comingsoon

11 marzo 2025
Diciannove: un esordio sfrontato e decisamente convincente
Diciannove sono gli anni che ha Leonardo quando decide di partire da Palermo. Diciannove sono anche gli anni che aveva il regista Giovanni Tortorici, al debutto nel lungometraggio, nel 2015. Possono esserci quindi potenziali 'frammenti' di vita vissuta in questo racconto inquieto in cui si avverte anche una distanza tra la quotidianità del protagonista e i filmati o i gruppi social dove ogni angolo del mondo sembra facilmente raggiungibile.
Quelli di Leonardo sono spostamenti inquieti: Palermo, Londra, Siena, Milano e Torino. Quasi un 'diario' proprio come quello di Elio in Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, produttore del film di cui Tortorici è stato assistente alla regia nella serie We Are Who We Are e ha curato le riprese del backstage sul set di Bones and All. I punti di vicinanza non finiscono qui. C'è anche un modo di inquadrare i luoghi che li avvicinano. Londra viene filmata come se fosse sempre sospesa tra il set e la finzione, proprio come in The Protagonists. In più c'è un rapporto quasi sanguigno nel modo di mostrare la passione per la letteratura per Tortorici, così come in Guadagnino ci sono non solo riferimenti, ma continue 'lettere d'amore' ai cineasti e ai film che ama. [...]
L'esordio di Tortorici ha un immediato impatto perché ha il coraggio di non porsi limiti, sia a livello di dialoghi ma anche di messinscena come negli effetti di animazione. Trova il volto giusto per Leonardo, interpretato da Manfredi Marini, che ha un po' la ribellione, le nevrosi ma anche l'incoscienza di un giovane Lou Castel.
Ma anche dietro la sua ruvidezza, trova molti momenti riusciti come quello del protagonista che gira di notte per Siena perché insonne e soprattutto il momento bellissimo della giornata passata insieme alla sorella dove coglie insieme la distanza e l'intimità tra loro. Non è il classico racconto in prima persona, non è il film italiano che si parla addosso. Per questo Diciannove è un debutto decisamente convincente e anche i suoi limiti lo rendono, paradossalmente, ancora più elettrizzante.
Simone Emiliani, Mymovies

04 marzo 2025
La filosofia delle piccole cose: Black Dog di Guan Hu
Premiato a Un Certain Regard di Cannes a trent’anni esatti dall’esordio del suo autore, tra gli esponenti della cosiddetta Sesta Generazione, il film si allontana dai soliti lavori commerciali di Guan per avvicinarsi agli stilemi della produzione autoriale nazionale. Luttuoso ma anche colmo di speranza, Black Dog ci apre una finestra sul presente della Cina fotografandone il passato recente. Il regista viaggia al fianco del suo antieroe senza giudicarlo ma piuttosto interrogandosi sulle difficoltà di chi resta escluso dalle grandi rivoluzioni. L’alienazione di Lang, in particolare, viene simbolicamente sintetizzata nel suo testardo silenzio, selettivo e volontario. Il non-più-giovane uomo sceglie le parole con cura, sempre per esprimere un punto di vista. E infatti, quando giungerà il momento di riprendere in mano la sua vita, saprà rimettersi in sella. Un racconto che si fa esempio virtuoso di come sia possibile ovunque e sempre, anche nelle condizioni più disperate, ritrovare il valore dell’umanità, in questo caso lontano dalla retorica cooperativistica del Partito Unico.
Aleassandro Amato, CineCriticaWeb

25 febbraio 2025
Fiume o Morte! di Igor Bezinović: un documentario punk, satirico e grottesco e dal potere liberatorio
Nel 1919, indignato per l’esito della Conferenza di pace di Parigi, che proponeva di consegnare la città di Fiume (Rijeka, Croazia) alla Jugoslavia, il poeta proto-fascista e ufficiale dell’esercito italiano Gabriele D’Annunzio decise di occupare la città. I successivi sedici mesi di occupazione rappresentano uno degli esperimenti di governo più bizzarri della storia del XX secolo.
“I miei colleghi italiani mi hanno avvertito di non menzionare troppo il fascismo nell’introduzione, quindi, per il bene degli spettatori italiani, mi fermerò qui”. Così Igor Bevinović, giovane regista nativo di Rijeka, introduce il suo documentario ibrido dal titolo Fiume o morte!, vincitore del Tiger Award e del premio FIPRESCI al Festival di Rotterdam 2025. L’obiettivo dell’autore non è solo quello di ricordare e ricostruire l’assurda impresa fiumana e i mesi di occupazione, ma soprattutto rintracciare cosa resta nella memoria collettiva della sua città e dei suoi concittadini. Ciò che fin da subito rende il progetto così intrigante è la scelta di coinvolgere la gente del posto, prima solo per delle interviste in strada e in seguito arruolati come interpreti del film. “Chi è Gabriele D’Annunzio?”, chiede Bevinović agli avventori del mercato di Rijeka. Molti non lo conoscono, qualcuno lo definisce “un fascista italiano che ha occupato la nostra città”, altri “un poeta e seduttore, amante della Duse”. Una donna che si definisce pioniera di Tito lo chiama “orribile fascista” e ricorda come ancora ce ne siano molti in giro, solo che al giorno d’oggi è molto più difficile riconoscerli. Fiume o morte! mette in luce la considerazione antitetica dei due paesi nei confronti di D’Annunzio; in Italia è un patriota e grande poeta a cui sono stati dedicati due monumenti, mentre in Croazia viene ricordato come un pazzo amante della cocaina con i denti marci. Dopotutto, lui stesso non fu mai tenero con il popolo occupato, come quando li definì “bastardi slavi” e “sporchi croati”.
Bezinović decide così di rievocare in maniera surreale il poeta vate mettendo in scena tutte le tappe dell’impresa fiumana arruolando molti cittadini calvi per interpretarlo, ognuno a suo modo, un’operazione che ricorda quella ancor più paradossale di Quentin Dupieux per il suo DAAAAAALI!. La campagna di D’Annunzio prende vita grazie alla partecipazione di centinaia di cittadini e l’aiuto delle oltre 10.000 fotografie che il poeta aveva fatto scattare per lasciare un ricordo ai posteri. Bevinović ricrea molte di queste immagini, incoraggiando un dialogo tra passato e presente e consentendo deliberatamente a elementi anacronistici di infiltrarsi nelle ricreazioni storiche, come nella sequenza in cui il signor Cico, uno dei D’Annunzio, imbraccia una chitarra elettrica per accompagnare la “Santa Entrata” a Fiume. Oppure le foto dei legionari reinterpretate da donne tatuate e uomini con in mano degli smartphone, con inquadrature simmetriche e colorate che ricordano momenti del cinema di Wes Anderson. O ancora un D’Annunzio che cammina tra gli ultras croati con cui scatta dei selfie.
Un documentario punk, satirico e grottesco. Spesso ripetitivo nei concetti e autocompiaciuto, una conseguenza del divertimento che cast e troupe hanno provato durante le riprese. Ma deridere il fascismo è, in particolare oggi, un doveroso atto di sabotaggio, soprattutto quando a farlo sono quegli “sporchi croati” che D’Annunzio tanto disprezzava. Con Fiume o morte!, Igor Bevinović dirige un film dal potere liberatorio con cui ha tentato di esorcizzare il passato complicato di un popolo che ha fatto parte di otto paesi diversi, senza mai perdere la propria identità, come testimonia la vivace festa di Carnevale nei titoli di coda.
Federico Rizzo, SentieriSelvaggi

18 febbraio 2025
L'erede: un ambiguo e provocatorio trattato sulle eredità familiari
Una sfilata di moda ripresa dall’alto col pubblico disposto a spirale mentre sfilano in passerella abiti e modelle. Inizia così L’erede, il nuovo film di Xavier Legrand (l’autore del durissimo L’affido, il suo film d’esordio vincitore di due premi alla Mostra del Cinema di Venezia 2017 e di due César) e l’idea del vortice, verso il quale qualcuno verrà catapultato, è subito manifesta.
Per Ellias Barnès (Marc-André Grondin), trentenne stilista parigino nato in Québec, è arrivata l’ora della consacrazione internazionale. Applausi e copertine, fascino e atteggiamenti dispotici per quell’uomo fuggito dal Canada e da un padre che non ha mai capito e mai più rivisto da 20 anni. Vita programmata, segretarie tuttofare ai suoi ordini e il Volo di Icaro di Matisse ad ispirare il prossimo servizio fotografico. Il cambio di rotta arriva proprio sul più bello, con la polizia che si presenta annunciando la morte di quel vecchio genitore. C’è da organizzare e presenziare al funerale e mentre la madre si è rifatta una vita a Miami con lo zio (ogni riferimento shakeaspeariano non è puramente casuale), ecco Ellias tornare a Montréal per quella che crede sia una tappa di passaggio obbligata e indolore. Non sarà così perché tra vicine di casa premurose e amici canadesi del padre dal fare sospetto, quello stilista che soffre di attacchi di panico e ha cancellato il passato, si troverà costretto ad affrontare una situazione da non rivelare (ricordate Parasite?) e che lo metterà di fronte ad un terribile segreto.
Thriller d’autore claustrofobico e spiazzante che esplora le pulsioni più nascoste dell’animo umano, L’erede- sceneggiato dallo stesso Legrand in collaborazione con Dominick Parenteau-Lebeuf a partire dal romanzo L’ascendent di Alexandre Postel- aggiorna la lezione di Hitchcock strizzando l’occhio a Chabrol e alla tragedia classica. Col risultato d’inchiodare lo spettatore alla poltrona tra dettagli rivelatori e comportamenti ambigui, atteggiamenti controversi, sottotesti carichi di significato e un colpo di scena finale che scatena il dibattito.
Claudio Fontanini, CineSpettacolo

11 febbraio 2025
Cosa si nasconde dietro un’opera d’arte? L'uomo di argilla di Anaïs Tellenne
Artista, opera e soggetto. È tutta una questione di sguardi. Ma cosa resta dello sguardo dell’artista che si è posato sul soggetto? Cosa si nasconde dietro un’opera d’arte? Sono queste le domande che si pone Anaïs Tellenne, al suo primo lungometraggio da regista. L’homme d’argile racconta la storia di Raphaël (Raphaël Thiéry), un uomo con un occhio solo e dalla statura imponente che lavora come custode di una maestosa villa disabitata. Prossimo ai sessant’anni, vive con la madre in una piccola casa nei pressi della villa. Le sue giornate scorrono tranquille tra la caccia alle talpe, la pratica con la cornamusa e le occasionali scappatelle con la postina. Durante una notte tempestosa si presenta inaspettatamente l’affascinante Garance (Emmanuelle Devos), l’erede della tenuta, nonché artista concettuale parigina.
Negli ultimi anni abbiamo imparato a conoscere la fisicità eccezionale e lo sguardo di ghiaccio di Raphaël Thiéry in Le vele scarlatte di Pietro Marcello e in Povere creature! di Yorgos Lanthimos. Un viso marcato nelle sue imperfezioni che può trasmettere tanto; malinconia, durezza, tenerezza. La regista sfrutta a pieno le doti naturali del protagonista per trascinarci nel suo immaginario prima umile e semplice, poi più complesso e stratificato. Raphaël non aveva mai conosciuto l’amore, forse non si era neanche mai posto il problema. L’arrivo di Garance squarcia l’equilibrio che si era creato permettendogli di affacciarsi sul mondo e osservarlo con uno sguardo nuovo, anche se incompleto. Garance riesce a vedere aldilà della superficie, scorge la sensibilità che si nasconde in quell’occhio umido e in quel corpo granitico, o meglio, argilloso. Se tutti gli altri abitanti del paese lo vedono come un golem, lei ci vede un “paesaggio”, anche se in tutta onestà la madre non riuscirebbe a vederlo su una cartolina. L’artista sente il bisogno di proiettare queste sensazioni su una statua di argilla che diventa ben presto oggetto feticcio/transazionale e rappresentazione fisica del loro legame.
Il rapporto tra musa e artista può essere davvero potente, soprattutto se, come in questo caso, lo sguardo si proietta dall’alto in basso in maniera totalmente disuguale. Nonostante la profonda sensibilità artistica di Garance, si tratta di due individui di estrazione socioculturale completamente diversa. Una distanza difficile da colmare. Il quesito che si pone la regista è lo stesso che ci si potrebbe porre quando si parla di cinema documentario o cinema del reale. Che effetto ha lo sguardo dell’autore sul soggetto ripreso? Cosa resta di questa dinamica di potere univoca soggetto/oggetto?
La regista gestisce in maniera impeccabile le fasi di innamoramento di Raphaël alternando campi medi e primi piani del suo corpo in trasformazione. L’homme d’argile colpisce ed emoziona nei momenti in cui il protagonista si mette realmente a nudo e si apre utilizzando la musica come mezzo di espressione. Capita raramente di osservare il percorso di un personaggio così complesso raccontato in maniera così toccante, senza dover fare uso di assurdi stratagemmi narrativi o improbabili svolte inaspettate. Si tratta di un film piccolo ma molto significativo, una scoperta piacevole e inaspettata.
Federico Rizzo, SentieriSelvaggi