
12 aprile 2023
RINVIO VISITA GUIDATA AI GIARDINI DUCALI - NUOVA DATA 27 APRILE
!!! ATTENZIONE !!! La visita guidata ai Giardini Ducali (evento di Cultura alle quattro e un quarto) a cura di Alkémica Cooperativa Sociale onlus prevista per giovedì 13 aprile è RINVIATA A GIOVEDI' 27 APRILE, sempre alle 16.15 (con ritrovo in Piazza Pallone alle ore 16).

05 aprile 2023
L’appuntamento di Teona Strugar Mitevska è un film da non perdere
Forse è vero che talvolta sarebbe meglio dimenticare, come suggeriva provocatoriamente Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri. Quando un conflitto è ancora fresco – e trent’anni durano un soffio, inutile negarlo – a sopravvivere non sono soltanto i reduci militari e civili, ma tutto il livore che la guerra porta con sé. In molti casi, chi ha combattuto le guerre jugoslave degli anni Novanta è ancora giovane, e lo stesso vale per chi ha perso la famiglia, vedendo distrutta la propria casa e la propria città. Il rancore personale per quanto successo, ben più intenso di qualunque attrito ideologico, sussiste tutt’oggi anche fra concittadini, persino fra vicini di casa: una realtà piuttosto comune a Sarajevo, melting pot etnico-religioso fra i più eterogenei d’Europa.
Non è la città di Teona Strugar Mitevska, nativa invece di Skopje, ma la regista macedone vede la capitale bosniaca come una sintesi di tutti i conflitti socio-culturali dei Balcani, e quindi come teatro ideale per la sua storia (peraltro ispirata a una vicenda realmente accaduta). La protagonista de L’appuntamento è Asja (Jelena Kordić Kuret), quarantacinquenne che partecipa a uno speed date per accontentare le richieste di sua madre, o almeno così dice. Accoppiata con il quasi coetaneo Zoran (Adnan Omerović), la donna ne resta piacevolmente intrigata, ma durante la prima attività succede qualcosa di strano: mentre rispondono a una serie di domande per conoscersi meglio, diviene sempre più chiaro che Zoran nasconde un segreto, e più che l’amore sta cercando il perdono.
Accade allora che lo speed date si trasformi in una grande elaborazione del lutto, tanto personale quanto collettiva. L’appuntamento – in originale The Happiest Man in the World, titolo che restituisce meglio la natura paradossale del film – compatta un processo estremamente complesso tra le quattro mura di un hotel brutalista, eredità del passato jugoslavo, intersecandolo con i riti surreali dell’evento romantico: una trovata davvero brillante, estranea a qualunque retorica melodrammatica, che trasfigura una circostanza “frivola” in un passaggio cruciale nelle vite dei personaggi.
Teona Strugar Mitevska lo gestisce quasi come se fosse una pièce teatrale, con atti ben distinti che corrispondono alle varie attività dello speed date, e momenti che si avvicinano alle dinamiche del teatro-danza. Anche l’apice drammatico della storia funziona come una messa in scena, un rito catartico di purificazione. Se la cineasta individua la chiave di questo processo nel rapporto tra i corpi, sfiorati nel corteggiamento o straziati in una spaventosa allucinazione bellica, Asja può solo esplodere in un ballo da estasi dionisiaca tra gli adolescenti di Sarajevo: ovvero, quella generazione che non ha vissuto la guerra, e che è destinata a seppellirne gli antichi rancori. Torna in mente la scena finale de Il corsetto dell’imperatrice, con la sua danza di libertà dalle convenzioni e dallo sguardo maschile. Asja balla tra le donne e gli uomini del futuro, mentre cerca di scrollarsi dalle spalle il peso del passato.
Lorenzo Pedrazzi, Screenweek
03 aprile 2023
Innamorata dello spavento: FEDERICA FRACASSI in dialogo con Nicola Arrigoni
Lunedì 3 aprile ale 21.15 tornano i Dialoghi di teatro contemporaneo con protagonista Federica Fracassi: Interprete sensibile alle nuove drammaturgie, votata a scritture visionarie, feroci, poetiche classiche e contemporanee, fin dagli esordi disegna un percorso indipendente nel panorama del teatro di ricerca. Attrice, ma anche lettrice, autrice e curatrice è protagonista di innumerevoli produzioni della compagnia Teatro i, fondata, insieme all’omonimo spazio, con Renzo Martinelli.
In teatro lavora, tra gli altri, con Valerio Binasco, Valter Malosti, Antonio Latella, Motus, Luca Micheletti, Sonia Bergamasco, Andrea Chiodi, Veronica Cruciani, Pier Lorenzo Pisano, Andrea Baracco. E’ protagonista di percorsi scenici articolati in più spettacoli dedicati alla scrittura di Antonio Moresco, Massimo Sgorbani, Giovanni Testori, Henrik Ibsen. Tra le esperienze cinematografiche più significative spicca la sempre rinnovata collaborazione con il maestro Marco Bellocchio. Ha ricevuto numerosi premi tra cui: Menzione d’onore e Premio Eleonora Duse, Premio Ubu, Maschere del Teatro Italiano e Premio Hystrio 2021 all’interpretazione.
Foto di Dirk Vogel

30 marzo 2023
La maman et la putain è il film più bello del mondo
Uscito per la prima volta nel 1973, il diamante nero di Jean Eustache torna in sala cinquant'anni dopo, come nuovo, in una superba versione restaurata e dentro un abito tagliato su misura per le immagini che lo abitano. Le notti parigine ritrovano la loro profondità e gli appartamenti i loro 'falsi giorni', il loro calore e la loro penombra.
Le nuove generazioni avranno finalmente accesso a un film incredibile, un fantasma le cui incursioni nel nostro mondo erano così rare (la registrazione di un passaggio notturno su un vecchio VHS o la trasmissione su Arte in occasione della morte di Bernadette Lafont), che bisognava essere davvero appassionati o attenti per non mancarlo. E nel tentativo di ricordare dove lo abbiamo visto la prima volta, La maman et la putain ci appare come un altro pianeta in cui abbiamo voglia di abitare. Un mondo che era già straniero ai suoi contemporanei, nel film ascoltiamo Édith Piaf, non gli Stones. Girato ad altezza del suolo, come un film di Ozu, ci inchioda alla poltrona, emotivamente intatto dopo decenni passati nell'ombra, seppellito sotto le macerie dello scandalo, della censura, della mistificazione, della scomparsa di Catherine Garnier e del suicidio di Jean Eustache.
Il titolo, crudezza a parte, potrebbe essere quello di un mélo ma le cose sono più complicate di così, perché la maman (Marie) non ha figli, giusto un amante che nutre e mantiene, e la putain (Veronika) "scopa tutti gli uomini che può" per piacere, non per profitto. Dal titolo restano esclusi l'uomo che crea il legame, Alexandre, e Gilberte, la vecchia fiamma sfumata per sempre. Non si tratta quindi della storia più vecchia del mondo, vecchia quanto il cinema almeno e quanto l'Aurora di Murnau, quella di un uomo indeciso tra due donne e tentato dall'illecito. La questione per Eustache non è sostituire una coppia con un'altra ma fuggire l'idea stessa della coppia per un'utopia sentimentale infinitamente estensibile. Il risultato non cambia, l'impossibilità dell'amore è dietro l'angolo, l'inestricabilità della relazione uomo-donna in un letto posato a terra.
Alla vertigine dell'infedeltà, succede l'ossessione dell'impegno, il film comincia e si chiude con due domande di matrimonio, e il disco (ri)suona un vecchio refrain. Come in Le due inglesi, dove Jean-Pierre Léaud interpretava già il terzo lato del triangolo, i vecchi demoni, i sentimenti vivi e le gelosie sopravvivono e "fanno male". Soprattutto nella Parigi di Eustache, dove uno più uno non si sommano mai. Né per una coppia, né per l'altra. Ci sono solo solitudini nel film che dimorano separate dal montaggio, come se uomo e donna non potessero convivere nella stessa immagine. Quando succede, la camera da letto diventa un campo di battaglia, un teatro di operazioni belliche. Se i café di Saint-Germain sono luoghi di incontro, lo spazio domestico è un luogo di scontro dove la parola, più che altrove regna sovrana. Bisogna ascoltare, ascoltare tutto, bere ogni dialogo con whisky e Pernod.
In La maman et la putain la parola è la forma, la trama, il colpo di scena, lo straripamento che nasconde il vuoto riempito sovente da una canzone suonata per intero da un giradischi. Alexandre, che ha le carte in regola per essere una canaglia, parla come un libro, ogni opinione è una citazione, ogni confessione una negazione per sottrarsi, perché è meno osceno mascherare il cuore che metterlo a nudo. Gli aforismi del dandy, che contrastano il silenzio, rimbalzano sulle parole vere e crude di Veronika, che grida la sua esistenza. In un lungo piano fisso che non lascia scampo e va dritto al cuore, confessa il suo amore o forse chiede aiuto. Françoise Lebrun si abbandona completamente alla camera e a un monologo travolgente sulla mancanza di consistenza della vita, in cui tutto si mescola, sesso e amore, desiderio di maternità e morte, mascara e lacrime.
In questa epopea (deliberatamente autobiografica) del sentimento amoroso, Eustache filma relazioni che non smettono di ramificare, si interroga sulla coppia, la sua necessaria evoluzione, l'amore libero, la parità uomo-donna, il desiderio femminile, il dolore di stare al mondo. Guardiani del fuoco e di quel testo mostruoso, la sceneggiatura conta 300 pagine, i suoi attori aggiungono un accento singolare: la folgoranza Nouvelle Vague di Jean-Pierre Léaud (Alexandre), l'aura bressoniana di Isabelle Weingarten (Gilberte), l'opacità renoiriano di Bernadette Lafont (Marie) e la ieraticità di Françoise Lebrun (Veronika), metà Falconetti, metà Demazis. Praticamente una carta geografica del cinema francese.
Come nessuno, il film fiume di Eustache mette in scena il disincanto degli orfani del '68, spettri che si sfiorano senza scaldarsi, cercando rifugio in un'erranza parigina piena di insolenza o in certe ore pallide della notte, tra le lenzuola sgualcite di Jean-Pierre Léaud o nella fibra letteraria dei loro monologhi. Spalancato sull'amore e sul diritto della donna a condurre la propria vita come desidera, questo triangolo equilatero che "beve, fuma, scopa" e parla, seguendo il desiderio di geometria di Serge Gainsbourg, dispiega la parola femminile e deflagra il nostro piccolo mondo confuso, coi suoi punti di riferimento ancestrali perduti e nessun sentimento per la memoria. In quel flusso infinito di gesti e di parole, anche la crudeltà e il bisogno di ferire hanno il loro posto, perché tutto in Eustache è terribilmente e meravigliosamente umano. A (ri)guardarlo oggi, il suo modello incandescente, che non si comportava bene con le donne e praticava il 'nullismo', non avrebbe potuto insegnare il savoir-vivre alle nuove generazioni, ma che invidia il suo gusto arrogante del caos...
Marzia Gandolfi, Mymovies

21 marzo 2023
Miracle: la potenza dei sogni
Vincitore della24ma edizione del Far East Film Festival e del Gelso d’Oro è il sudcoreano Miracle: Letters to the President di Lee Jang-hoon, una toccante favola moderna tra commedia e dramma che coinvolge e travolge, un po’ come il treno senza stazione del film, con la forza e la perseveranza del giovane protagonista Jun-gyeong (un incredibile Park Jeong-min).
Seppur romanzata, la storia narrata nel film si basa su un episodio reale: la costruzione di una piccola stazione ferroviaria nell’isolata campagna coreana per iniziativa privata. Siamo in un piccolo villaggio della provincia del Gyeongsang del nord, nella Corea centrale, dove non ci sono strade ed il treno non ha fermate; l’unico modo per arrivarci è un lungo cammino lungo le rotaie, tra tunnel bui e ponti sospesi sul fiume, un dantesco girone dei dannati per anime incolpevoli che punisce con la morte ogni minima disattenzione o una semplice sorte avversa. È qui che vive Jun-gyeong, genio in erba della matematica, con il padre (macchinista spesso assente da casa) e la sorella Bo-gyeong; testimone sin da bambino di terribili incidenti, il giovane coltiva il sogno di costruire una stazione ferroviaria per il proprio villaggio, che permetta agli abitanti un viaggio sicuro. [...]
Miracle: Letters to the President è un inno al potere dei sogni; con grazia e delicatezza, Lee Jang-hoon tratteggia la storia ed i suoi protagonisti facendoli vibrare di passione, che sia inespressa o palesata, raccontandola altresì con immagini suggestive ed evocative ma con tocco leggiadro, coinvolgendo empaticamente lo spettatore sia nel dramma che nella commedia; non mancano infatti, nella equilibrata costruzione della narrazione, momenti di commozione intrecciati con altri di candida comicità, di cui memorabile rimarrà il saluto finale di Jun-gyeong e Ra-hee sulle note del Tempo delle Mele, quella Reality di Richard Sanderson che proprio in quegli anni faceva sognare i giovani adolescenti di tutto il mondo.
Michela Aloisi, CineClandestino

09 marzo 2023
Argentina, 1985: la parola alla giustizia
Torture, sparizioni, spari e morte: è un manto funereo, di un nero profondo, quello che ha coperto per cinque, lunghissimi anni, l'Argentina durante il mandato dittatoriale di Jorge Rafael Videla. Una parentesi dolorosa, che brucia come una ferita aperta, ma che il regista Santiago Mitre lascia ai confini del fuori campo. Nessuna riproposizione visiva di quegli anni; a rivivere sullo schermo sono solo i suoi ricordi, lasciando che siano gli spettatori, con la forza della propria immaginazione, a colmare quelle falle narrative. È nella portata mnemonica dei testimoni chiamati a processo, e delle parole impresse su documenti di archivio, a immergere il pubblico nello spazio-tempo di quegli anni, recuperando un senso di violenza e ingiustizia sociale inaudita, eppure costantemente pronto a ripetersi, in parti diverse del Mondo. Seguendo le fasi salienti del maxi-processo con a capo il procuratore Julio Strassera, Mitre riesce a redigere il proprio saggio storico, svestendo la propria opera di tratti finzionali e romanzati, per abbigliarla di un vestito di fattura documentarista. Una scelta sottolineata dall'inserimento di immagini restituite sotto forma di falsi estratti televisivi, tali da elevarne la portata storica, ed esacerbare quella presa in prestito da momenti altri, realmente accaduti, che fanno del proprio film uno sguardo diretto sul passato. Un'apertura dei cassetti mnemonici di carattere nazionale, mai compiuta con fini prettamente didattici, ma semplicemente dimostrativi, affinché il sangue dei padri non venga rigettato su quello dei figli. La nazione come grembo materno, e la famiglia come parte della nazione. È così che l'Argentina viene restituita in senso ideale, tanto dalla propaganda, che dagli scarti di raccordo che uniscono le varie sequenze di Argentina, 1985. Esiste un legame stretto, inossidabile, che unisce ogni cittadino al proprio paese; un rapporto ancor più profondo se a infondere vita all'opera è la figura di un uomo di giustizia come il procuratore Strassera.
Elisa Torsiello, Movieplayer

07 marzo 2023
Perché Disco Boy è un colpo di fulmine
Presentato alla Berlinale, unico film italiano in concorso, ha vinto l’Orso d’Argento per il Miglior Contributo Artistico per la fotografia (meravigliosa) di Hélène Louvart. La domanda d’obbligo quindi adesso è una sola: ma com’è Disco Boy di Giacomo Abbruzzese? Un film potente, potentissimo, figlio del miglior cinema contemporaneo, che mischia le derive digitali di questo storytelling visivo in un calderone di esoterismo, luci al neon, sonorità elettroniche e rimandi alla Nuova Hollywood. [...]
Franz Rogowski è il militare bielorusso Aleksei, un moderno Walter Kurtz in questa versione elettronica di Apocalypse Now. Rogowski è il protagonista assoluto, in fuga da una nazione fascista, salvato da metodi militari poco ortodossi, che si reinventa eroe e risale il Delta del Niger in un viaggio anche (e soprattutto) interiore alla ricerca di un vero scopo, lontano dal suo cuore di tenebra. A fare luce sul suo viaggio ci pensano le soluzioni visive che Abbruzzese adotta, che ai più ricorderanno il cinema di Nicolas Winding Refn (soprattutto nei momenti meditativi e di transizione silenziosa), ma che in realtà sono molto più vicine all’arte contemporanea e digitale: c’è una lotta sul pelo dell’acqua vista attraverso la visione termodinamica che richiede anche un grande sforzo di immedesimazione da parte dello spettatore.
Non è un caso che molta di questa deriva artistica venga poi collegata ai temi più esoterici e tribali di questa corrente, preponderanti anche nella parte centrale del film, che mischia il destino di Aleksei con quelli dei fratelli Jomo e Udoka (Morr Ndiaye e l’artista ivoriana Laëtitia Ky, fantastica), due facce della stessa medaglia: uno cerca il riscatto a partire dalla riconquista della propria territorialità, in lotta col moderno colonialismo; l’altra – più vicina ai sentimenti di Aleksei – è alla ricerca di una rivalsa in un luogo altrove, così da conquistare la propria individualità perché sconfitta da quei contesti che le hanno dato i natali. Questo luogo “altro” è, infine, la pista da ballo: nello specifico quella di un club francese dove Aleksei e Udoka si rincontrano dopo l’estenuante esperienza in Nigeria.
La pista da ballo trascende, diventa metafisica e si fa esperienza spirituale più che carnale. La grande colonna sonora curata da Vitalic accompagna questa unione di destini.[...] Si apre forse così una nuova fase del cinema italiano, finora solo auspicata: quella fatta di intenzioni e della versione più estrema dello show, don’t tell e ci pensa Abbruzzese a guidare questa nuova corrente. E noi? Noi siamo tutti dei disco boy e non vediamo l’ora di continuare a ballare…
Davide Merola, The Hot Corn

21 febbraio 2023
Holy Spider: un thriller politico da non perdere
Presentato in concorso al Festival di Cannes 2022, dove Zar Amir Ebrahimi si è aggiudicata il Prix d’interprétation féminine alla miglior attrice, Holy Spider è il terzo film di Ali Abbasi, regista e sceneggiatore iraniano naturalizzato danese. Girato in Giordania per ovvi motivi di censura, il film tratta argomenti tabù in Iran come la prostituzione e la tossicodipendenza, rendendo rischiosa ma allo stesso tempo necessaria la loro visione sullo schermo come rappresentazione fedele della realtà della vita nella nazione mediorientale. Senza mai perdere l’essenza dell’incertezza e del terrore, Abbasi costruisce il thriller più intelligente dell’anno, che usa il genere per parlare dell’oggi, raffinatissimo nel suo destrutturare le dinamiche tipiche dell’indagine per mettere in primo piano l’azione politica, ciò che avviene dopo che un killer è stato catturato.
www.cinefilos.it

17 febbraio 2023
Wittgenstein di Derek Jarman. Quando la Filosofia arriva sullo schermo
Il regista Derek Jarman ha deciso, nel 1993, di realizzare un’opera cinematografica focalizzata su uno dei mostri sacri del pensiero novecentesco. L’autore in questione è il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein. L’omonimo film, Wittgenstein, si concentra sulla vita e sul pensiero del filosofo viennese. Come un’opera teatrale, la pellicola è caratterizzata da una scenografia minimalista: uno sfondo nero, da cui fuoriescono i rispettivi attori. Wittgenstein non è una ricostruzione minuziosa della vita del filosofo, ma si limita soltanto a riportare parte del suo pensiero tanto controverso quanto importante. Wittgenstein, infatti, è considerato il massimo pensatore del XX secolo, in grado, addirittura, di aver dato vita a una nuova logica. Il suo campo di interesse fu principalmente il linguaggio e il suo contributo fu di vitale importanza. [...]
Il regista ci mostra come sia possibile narrare la vita del filosofo, tanto complessa quanto affascinante. L’elemento originale della pellicola è quella di presentarci una trama su una sequenza logica di episodi, di flash sul pensiero in continua evoluzione. Come a volere uniformare la sua vita alla frammentazione dell’opera principale.Derek Jarman riesce, in fin dei conti, a comporre un biopic inimitabile, dal forte valore artistico. È un film completamente sperimentale e indipendente. Non mancano, tuttavia, immagini da commedia surreale, mettendo in scena immagini davvero strambe, con personaggi bizzarri e dai colori vivaci. Per fare alcuni esempi: il marziano che provoca un Wittgenstein bambino con domande assurde, Russell vestito come se fosse un dandy, e la sua amante, lady Ottoline Morrell, concepita con indumenti accesi ed eccentrici.
Interessante è lo sfondo nero. Da qui escono gli attori che recitano, come se ci trovassimo dinanzi a un teatro. Jarman ritrae l’essenza profonda del pensiero di Wittgenstein, aggiungendo quell’elemento di casualità presente nel mondo. Allora ciò che crea non è un ritratto dell’uomo, ma del suo pensiero. Il regista, in Wittgenstein, riesce a darci un’idea del filosofo. Spesso le immagini tendono ad aggrovigliarsi, ma rispettano il pensiero dell’autore: confusionario e spesso contraddittorio. Jarman, nella sua audacia, rende omaggio a uno dei pensatori più importanti del Novecento. Una delle menti più significative, che ha saputo offrire importanti spiragli su cui riflettere.
Alessandro La Mura, ArteSettima

15 febbraio 2023
Tutta la bellezza e il dolore: il leone d'oro a Venezia e candidato agli Oscar è al carbone
Una narrazione volutamente frammentaria che emana dalla vita di Goldin filtrata dall'occhio di Poitras, che apparentemente scompare ma in realtà sta decidendo l'ordine delle diapositive. E nessuno si addormenta, si stanca o si annoia, come nelle più tragiche serate dai vicini che ti facevano vedere le foto della vacanza. Bisogna guardare e ascoltare, senza appello, come i Sackler a un certo punto saranno costretti a fare. Perché dalla bellezza a volte non nasce niente, mentre dal sangue versato nascono film come questo.
Una lotta che parte da lontano, un attivismo insito nella propria vita, un'esperienza brutale che fa nascere fiori dal sangue versato. Tutta la bellezza e il dolore racconta la vita della fotografa e attivista Nan Goldin, dai suoi esordi fino alla lotta contro la famiglia Sackler, proprietaria di Purdue Pharma, che ha messo sul mercato l'OxyContin, farmaco antidolorifico che negli Stati Uniti ha portato alla dipendenza e alla morte migliaia e migliaia di persone. Una lotta che la regista Laura Poitras mette in scena attraverso l'arte, la fotografia, i musei, portandosi a casa il Leone d'Oro a Venezia e la candidatura all'Oscar. E gli occhi del mondo intero.
Edoardo Ferrarese, Everyeye