Che fare quando il mondo è in fiamme?
di Roberto Minervini — Italia, Francia, USA, 2018, 109'
con Judy Hill, Dorothy Hill, Michael Nelson, Ronaldo King, Titus Turner
proiezione in inglese con sottotitoli in italiano
La storia di una comunità di afro-americani del Sud degli Stati Uniti durante l’estate del 2017, quando una serie di brutali uccisioni di giovani uomini neri scosse l’intero paese. Una riflessione sulla questione razziale in America, un ritratto intimo di persone che lottano per la giustizia, la dignità e la sopravvivenza in un paese che non è dalla loro parte. Judy cerca di mantenere a galla la propria famiglia allargata, mentre gestisce un bar minacciato dalla gentrificazione. Ronaldo e Titus, due giovanissimi fratelli, crescono in un quartiere afflitto dalla violenza, mentre il padre è in prigione. Kevin, Big Chief della tradizione indiana del Mardi Gras, lotta per mantenere vivo il patrimonio culturale della sua gente attraverso i rituali del canto e del cucito. Infine, il gruppo rivoluzionario delle Black Panthers indaga sul linciaggio di due ragazzi nel Mississippi, mentre organizza una protesta contro la brutalità della polizia.
“What You Gonna Do When the World’s on Fire?”, verso iniziale di un negro spiritual ripreso più tardi dal cantante e chitarrista nero Lead Belly (1906-1949), è il titolo del nuovo film di Roberto Minervini.
Virato in urgente e imperativa domanda politica attuale, “Che fare quando il mondo è in fiamme?”, quel verso introduce limpidamente il film che il regista e la sua troupe hanno costruito mescolandosi alla gente di Tremé, uno dei quartieri più antichi di New Orleans, il primo nella storia della città ad accogliere le gens de couleur libres, le persone di colore non più schiave.
Tremé, che in base al censimento del 2000 contava 8.853 persone, 3.429 case e 2.064 famiglie (4.918 persone per km²), dopo il passaggio dell’uragano Katrina nell’agosto del 2005 annovera oggi, secondo il censimento del 2010, 4.155 persone, 1.913 case e 827 famiglie. Dimezzato da una catastrofe ‘naturale’, attualmente è in via di gentrificazione, un disastro che di naturale non ha nulla.
Minervini, che nel corso degli anni ha scelto con coerenza di raccontare l’America profonda, mette questa volta al centro della sua narrazione questa specifica ‘zona di esenzione’, una delle tante dove i diritti civili sono stati sospesi o revocati dallo Stato: una comunità di africani americani in bilico tra estinzione e sopravvivenza, tra cancellazione e tenace memoria di sé.
Per niente interessato a spiegare, giudicare, denunciare, fare la morale, il regista si assume il compito di mettere ‘semplicemente’ in vibrazione e in risonanza alcune storie individuali affinché agiscano tra loro e, intrecciandosi, dicano di sé e di ciò che hanno intorno. In altre parole le rende udibili attraverso un dispositivo filmico che postula e costruisce un ascolto partecipe, emozionato, politico.
I temi portanti, corrispondenti grossomodo a quattro blocchi narrativi, sono: la memoria (incarnata da Chief Kevin e dalla tradizione degli ‘Indiani’ del Mardi Gras, un nitido caso di gratitudine storica); la paura (filo conduttore di tutti gli scambi tra una giovane madre, Ashlei King, e i suoi due figli ragazzini, Ronaldo King e Titus Turner); la resistenza (incarnata da Judy Hill, proprietaria di un bar storico che sarà costretta a cedere, perché gli affitti stanno andando alle stelle); la lotta e l’autodifesa (personificate dal nuovo partito delle Black Panthers).
La regia di Minervini e lo straordinario lavoro di montaggio di Marie-Hélène Dozo li uniscono, li mescolano, li giustappongono, creando una sapiente tessitura narrativa giocata sul ritmo, su un canto e controcanto fluido e compiuto.
Nelle immagini di questo film, nell’armonia con cui si legano le une alle altre, nei suoi personaggi, nella delicatezza con cui il regista li avvicina e li guarda avvicinarsi tra loro, nello splendore ipnotico del bianco e nero di Diego Romero Suárez-Llanos, c’è la grandezza del cinema classico, ma anche tutta l’invenzione necessaria a raccontare il mondo in cui siamo.
Coniugandosi con un’idea di cinema e di responsabilità civile indocile alle idee ricevute, la passione di realtà, la modestia, la capacità empatica, l’occhio e il respiro da grande documentarista e narratore di Roberto Minervini hanno prodotto un film che è pura grazia – cinematografica, umana, politica.
Se con Monrovia, Indiana il grande Frederick Wiseman continua a raccontarci l’ordinata America bianca illusa di democrazia, Roberto Minervini, forse proprio grazie alla sua ‘alienità’, ha il coraggio di immergersi nelle sue tenebre e di portare alla luce quel devastato rimosso che è l’America nera.
Misurarsi con la storia nel suo farsi – non limitandosi a ricostruire il passato attraverso film variamente autobiografici o in costume come molte opere in concorso a Venezia quest’anno, da Roma di Alfonso Cuarón a Tramonto di László Nemes – richiede coraggio e un’idea di mondo svincolata dai feroci dogmi politico-economici correnti. Il cinema di Minervini è questo e What You Gonna Do When the World’s on Fire? ne è il compimento.
Maria Nadotti, doppiozero.com
Miglior documentario al BFI London Film Festival 2018.