DELL'ARTE DELLA GUERRA
di Luca Bellino, Silvia Luzi — Italia, 2012, 80'
con Vincenzo Acerenza, Fabio Bottaferla, Luigi Esposito, Massimo Merlo e gli operai e i sostenitori della INNSE di Milano
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Milano, agosto 2009. Quattro operai salgono su un carroponte a 20 metri di altezza all'interno del capannone della INNSE, la storica Innocenti di Via Rubattino, l'ultima fabbrica ancora attiva all'interno del Comune di Milano. Vogliono fermare lo smantellamento dei macchinari e impedire la chiusura della fabbrica. Il capannone viene circondato da centinaia di poliziotti e in poche ore arrivano sostenitori da tutta Italia. I quattro operai restano per otto giorni e sette notti a più di 40 gradi sospesi in uno spazio di pochissimi metri quadri. La stampa nazionale parla di lotta operaia, ma è qualcosa di diverso. C'è una strategia chiara. C'è un esercito organizzato. Ci sono regole precise. E' una guerra con un paradigma applicabile a ogni forma di lotta.
Il cinema italiano del reale batte in modo schiacciante quello di finzione per vitalità, ricerca di linguaggio e urgenza narrativa. Ne è un esempio Dell'arte della guerra, della coppia Silvia Luzi e Luca Bellino (gli stessi di La minaccia sul Venezuela di Chavez). (...) La lotta che ci racconta è quella, durissima ed altamente simbolica, dei lavoratori della Innse, la ex Innocenti di Milano che, nell'agosto del 2009, portò in via Rubattino, telecamere, giornalisti e, soprattutto, un fiume di sostenitori da tutta Italia. E con loro anche i due registi. La posta in gioco, la chiusura della storica fabbrica per cedere il passo all'ennesima speculazione edilizia legata all'Expo 2015. Di fronte al potere assoluto del «padrone» gli operai tentano il tutto per tutto: quattro di loro salgono sul carroponte a 20 metri di altezza, per scenderne otto giorni dopo, a chiusura sventata. Alle immagini di repertorio si intrecciano, oggi, i racconti e le riflessioni dei quattro protagonisti: Vincenzo Acerenza, Fabio Bottaferla, Luigi Esposito e Massimo Merlo. Quattro irriducibili di una lotta ben più lunga di quegli otto giorni sotto i riflettori dei media. Una lotta lunga trent'anni, la loro intera vita da «schiavi» come dice uno di loro. Una schiavitù, di cui a prenderne coscienza, la vita ti ci vuole tutta intera. Eppure loro oggi, a fabbrica in funzione, sono lì a raccontare del Partito operaio, quello senza partiti che continua a lottare in tutti gli stabilimenti a rischio del Paese. Quasi un dramma in quattro atti, per quattro voci narranti che dicono di un nemico, il padrone (ma qualche volta anche il sindacato: «nel nostro caso avrebbe accettato la chiusura», raccontano); di un esercito, gli operai e loro battaglie trentennali; il territorio da difendere, la fabbrica e suoi macchinari da non far smobilitare per nulla al mondo («se le mura sono del padrone», dicono, «dopo trent'anni di lavoro quei macchinari sono nostri»); la strategia, la tattica per la battaglia («quell'odio individuale, maturato in tanti anni che diventa collettivo, altrimenti è inutile»). È materiale umano bollente, cinema dell'emergenza che rimanda a tanti «interventi a cuore aperto» fatti in molti anni da Daniele Segre, in tante fabbriche e nelle miniere persino. «Volevamo costruire un saggio sulla lotta. Per tutti», dicono i due autori. E ci sono riusciti. «CENTRO STORICO» Una fabbrica chiusa da anni, invece, e lo sguardo al passato doloroso dei suoi operai ce li ha raccontati al festival un grande autore come Victor Erice, «ospite» di un film collettivo (Centro storico) liquidato da molti, ingiustamente, come un depliant turistico del Portogallo. Nella fabbrica delle finestre rotte, che nel secolo scorso è stata la più grande industria tessile europea, Erice accompagna oggi i protagonisti di ieri: gli operai. La grande sala della mensa e una foto gigante d'epoca che ritrae il momento della pausa, fanno da sfondo alle testimonianze dei lavoratori. Ascoltati uno per uno, seduti su uno sgabello come testimoni di un processo storico, politico e soprattutto umano ormai messo a tacere dal presente della finanza globalizzata, parlano di povertà e sfruttamento. «Sono entrata in questa fabbrica a 13 anni», dice una donna, «Ora ne ho 77 e non ho mai conosciuto la felicità. L'allegria sì, ma non la felicità. Di quella parla solo la tv. E adesso vivo di questa allegria scontenta». I loro racconti danno vita e cuore a quei volti ritratti nella foto che, piano piano, si avvicinano a noi, si ingrandiscono. L'apparente convivialità del momento della mensa diventa altro. I loro sguardi ci guardano dal passato, ci svelano dettagli di fatica e sfinimento. Le occhiaie delle donne, soprattutto, che al carico della fabbrica aggiungono quello della casa. Il cinema di Victor Erice, potente e straziante, si fa scandaglio, svelamento. Di «questa allegria scontenta» della classe operaia che fu.
Gabriella Gallozzi - L'Unità
Presentano il film i registi Luca Bellino e Silvia Luzi.