lunedì
17
giugno
21:15

Fuoco cammina con me

di David Lynch — USA, 1992, 134'
con Al Strobel, Anne Gaybis, Calvin Lockhart, Catherine E. Coulson, Chris Isaak, Dana Ashbrook, David Bowie

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Gordon Cole convoca l’agente Chester Desmond per parlare del misterioso omicidio di Teresa Banks; Cole introduce Chester al suo nuovo partner, Sam Stanley, e i due ricevono indizi da Lil, la danzatrice. Desmond e Stanley esaminano il corpo di Teresa, capendo che manca il suo anello e che la lettera “T”, su un minuscolo foglietto, è stata inserita sotto l’unghia della sua mano. Desmond e Stanley scoprono del recente passato della vittima, e Desmond svanisce dopo aver preso l’anello di Teresa nel campeggio per roulottes dove ella viveva. Nel frattempo, a Philadelphia, il ‘perduto da tempo’ Agente Phillip Jeffries riappare, e dice a Cole che è stato in un incubo per due anni. Jeffries scompare nell’aria, e l’agente Dale Cooper è mandato a investigare sulla scomparsa di Desmond. Arrivato al campeggio per roulottes vede le parole “Let’s Rock” sul parabrezza della macchina di Desmond. Gli indizi sull’omicidio di Teresa Banks hanno portato ad un vicolo cieco. Un anno dopo, a Twin Peaks, Laura Palmer e Donna Hayward vanno a scuola…

“Fuoco cammina con me” è l’ultimo appello della cantilena che molti personaggi ripetono nel corso delle due stagioni di Twin Peaks: “Nell’oscurità di un futuro passato il mago desidera vedere. Un uomo canta una canzone,tra questo mondo e l’altro: Fuoco cammina con me”. Proprio mentre l’emittente televisiva decide di eliminare dal palinstesto la seconda stagione del serial, a causa del calo considerevole degli ascolti, il mago David Lynch annuncia che trarrà un lungometraggio dalle peripezie degli abitanti di Twin Peaks. Desidera vedere il futuro passato, Lynch, e quindi non può che mettersi al lavoro su un prequel. Fuoco cammina con me narra infatti gli eventi che portarono all’uccisione della giovane Laura Palmer, adolescente tanto solare e ideale di giorno quanto tormentata e dissoluta durante le notti, le lunari notti boschive dominate da gufi, e bestie assai più pericolose e infide. Dalla Croisette, che ospitò il film in concorso – salvo pentirsene in fretta e furia, dato il vomitar di fischi che accolse i titoli di coda – in poi il braccio estendibile di Twin Peaks è stato tenuto in considerazione per proporlo nella maggior parte dei casi come nadir ideale della produzione di Lynch: più di Dune, che viene citato soprattutto come aborto produttivo – ovviamente peccando di ὕβϱις, ma tant’è –, Fuoco cammina con me ha assunto il ruolo scomodo di opera sfondata e sfondante, in cui la pretesa autoriale del regista soverchia a tal punto il senso narrativo del film da farlo oscillare e cadere nel baratro del nonsense. Le accuse che colpirono Lynch furono molteplici, ma praticamente tutte ribadirono un paio di concetti: una narrazione eccessivamente criptica, per di più incomprensibile a chi non avesse avuto modo di vedere la serie televisiva, un abuso di simbolismi reiterati, e un utilizzo degli elementi in scena così fuori dai canoni da rasentare (e per qualcuno superare) i confini del ridicolo involontario.

A maggio, quando a Cannes arriveranno i primi due episodi della terza attesissima stagione di Twin Peaks, saranno trascorsi venticinque anni da quelle critiche. Venticinque anni in cui il mondo intero sembra aver rimosso Fuoco cammina con me, eccezion fatta per un manipolo di resistenti: il trittico composto da Strade perdute (a sua volta accerchiato da orde di fischiatori di professione), Mulholland Drive e INLAND EMPIRE, ultima sortita cinematografica di Lynch vecchia oramai di undici anni, hanno di fatto contribuito ad allontanare dalla mente dei più un film che è rimasto come un fantasma, ectoplasma dell’immaginario che si agita nelle menti come un’evanescenza perpetua. La verità, probabilmente, è che non si è voluto accettare il punto determinante della questione messa in gioco dal regista di Missoula, seconda più popolosa città del Montana: si è accettata l’esistenza di Fuoco cammina con me solo nella sua vacua essenza di arto estendibile di una saga televisiva. Quel braccio che Mike si è strappato dal corpo per estirpare il male che albergava in lui. Quel braccio che è diventato il nano (The Man from Another Place, come lo identificano i titoli di coda), visto che è lui stesso a informare Dale Cooper: “I Am the Arm, and I sound like this”.

Ma il prequel di Twin Peaks non è un ritorno a casa, non è il rassicurante veicolo cinematografico di qualcosa che aveva preso vita attraverso il tubo catodico. Non è un rattrappito racconto di qualcosa che vorrebbe durare di più. No. Lynch, ed è certo che ciò avverrà anche con la terza stagione, la cui attesa si fa sempre più spasmodica, torna sul luogo del delitto – nel vero senso della parola – non per reiterarne il giallo, il mystery, ma per negare una volta di più le certezze di uno spettatore fattosi sempre più comodo, rassicurato invece che perturbato, coccolato dalle sevizie là dove esse dovrebbero immergersi nella carne.

Fa sanguinare gli occhi, Fuoco cammina con me, e non solo perché il visionario che ha sempre agitato lo sguardo di Lynch deflagra con una potenza rara, al punto da apparire da subito come il gemello eterozigoto di Eraserhead – La mente che cancella, ma perché tutte le certezze, per quanto instabili, che la serie aveva trascinato con sé vengono meno, una dopo l’altra. Il primo aspetto è la figura centrale di Cooper, che qui viene relegato in un angolo, addirittura inserito tra i “tanti” agenti dell’FBI là dove la serie lo illuminava di una luce unica: Cooper invece è come Chester Desmond, che svanisce nel nulla, o come Phillip Jeffries che torna ectoplasma per raccontare della sua esperienza negli orrori del mondo degli spiriti. Viene meno la componente ironica, che ricopriva Twin Peaks di un velo, quasi come la plastica in cui era ingabbiato il corpo di Laura Palmer per non lasciarlo alla mercè degli sguardi di chiunque. C’è un velo che ricopre questo mondo, e lo ricopre spesso di ridicolo…

E poi, soprattutto, c’è Laura Palmer, l’angelo caduto, la santa, la resistente al di là di ogni resistenza umana. Colei che non cede all’abuso, nonostante la sua vita sia un lungo, irresistibile, abuso di sé e della propria identità. La “colpa” di questa ragazza, in un mediocre buco nel nulla del nulla come Twin Peaks, è quella di voler conoscere, di indagare oltre quel velo di ridicolo che copre le cose. La “colpa” di non chiudere gli occhi solo perché è notte, di non accettare il mondo materiale così com’è e di scorgere quello spirito che aleggia nei boschi e che altri non è se non la mala-coscienza di un’umanità gretta, superficiale, innocua solo all’apparenza. La giovane figlia dei Palmer non si limita al suo compito di adolescente in una collettività reazionaria. Osa. Solletica il maligno perché osa. Non trema, e quindi può confrontarsi con tutti gli io che ne agitano l’esistenza, anche quelli di cui ancora non è consapevole. BOB, questa entità malefica palindroma, leggibile allo stesso modo da ambo i lati, è suo padre ovviamente (e lo si sa dai tempi del serial televisivo), ma è anche Twin Peaks nel suo senso più profondo. È anche, in qualche lontana reminiscenza (“il futuro passato”) la stessa Laura, impossibilitata a invecchiare nella Loggia Nera, insieme al Nano e al Gigante, insieme a quel Cooper mosso dal bene più istintivo e morale, e quindi destinato in ogni caso alla sconfitta.

Accusare di illogicità un regista come Lynch significa non aver mai capito – mai, fin dai tempi di Eraserhead, The Elephant Man e Dune – il suo cinema, la sua arte, la filosofia che lo governa. Lynch è un romantico, nel senso più profondo del termine. I suoi personaggi sono vivi perché si ergono in tutta la loro altezza per fronteggiare la natura, soccombendo magari, ma sempre animati da uno spirito di ricerca, di conquista, di conoscenza al di là della superstizione. Di conoscenza attraverso la superstizione. Tutti i suoi protagonisti devono diventare adulti, e neccessariamente morire nella loro veste adolescente; tutti i suoi adulti sono colpevoli di turpitudini di cui neanche sono coscienti. Le strade sono perdute, perché non c’è più modo di conoscere, neanche il proprio nome (“che cazzo di nome hai tu?”, chiede il Mystery Man a Fred Madison in Strade perdute, mentre lo fissa con una videocamera). Tutti i suoi personaggi hanno corpi paralleli nei quali vivere una vita parallela, a volte illusione di una tranquillità che non ha diritto d’esistenza reale. Laura Palmer è la prima protagonista del cinema di Lynch a sdoppiarsi, triplicarsi, moltiplicare il sé all’infinito. Perché la realtà si muove nell’irreale immobile – la porta nel quadro appeso nella stanza da letto di Laura che diventa vera porta, accesso all’incubo che è anche ingresso privilegiato nella Loggia Nera – e viceversa.

Mike è il complice pentito di BOB, ma è anche un onesto cittadino di Twin Peaks che urla a Laura la verità dal suo camioncino: è tuo padre, Laura, è lui. Una delle sequenze più potenti di Fuoco cammina con me, vertice emotivo che è anche dimostrazione lampante della poetica di Lynch: strappando il cuore al ritmo televisivo, Lynch raggela l’azione lavorando sulla suspense. Un uomo con handicap attraversa la strada mentre un interminabile semaforo rimane rosso. Leland e Laura Palmer sono in macchina, e l’agitazione di lei cresce perché il camioncino di Mike inizia a girare ossessivamente attorno a loro. Li accerchia. È un avvertimento, a Laura quanto allo spettatore. Il senso non è la paura, brivido d’adrenalina che si porta via ormoni in via di sviluppo. Il senso è l’angoscia, la sensazione di insicurezza negli affetti più solidi. L’angoscia, che schiaccia invece di “far sballare”. La marcia funebre di un angelo caduto non può permettersi tempi televisivi. Solo ossessione, rarefazione, oscurità.

Non è più tempo dell’amore come ancora di salvezza, che permetteva a Jeffrey Beaumont di superare l’orrore celato negli appartamenti di Velluto blu e a Lula e Sailor di vivere in pieno una passione infinita, con tanto di benedizione della strega buona Glinda (non a caso interpretata proprio da Sheryl Lee/Laura Palmer); l’amore è solo un riflesso del proprio io, delle proprie ambizioni, della propria ricerca di una felicità illusoria, nella maggior parte dei casi impossibile. Visionario al punto da scardinare le logiche dell’industria, profanando il corpo del classico a colpi di avanguardia, Fuoco cammina con me è un lampo, una folgorazione; di fronte a lui, come Leland, anche lo spettatore rimane sospeso nel vuoto, pronto a disperdere tutta la sua garmbonbozia per nutrire gli spiriti delle tenebre. Gli spiriti delle proprie tenebre. Let’s Rock.

Raffaele Meale, quinlan.it

Presentano il film Massimo Giacon e Paolo Ferrarini.