Gli orsi non esistono VO
di Jafar Panahi — Iran, 2022, 107'
con Jafar Panahi, Naser Hashemi, Vahid Mobaseri, Bakhtiar Panjei, Mina Kavani
proiezione in persiano, azero con sottotitoli in italiano
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Una strada e una coppia. Lui ha procurato per lei un passaporto falso per consentirle di espatriare ma quando la donna apprende che non partiranno insieme rifiuta di lasciarlo. Uno "Stop" ci informa del fatto che si tratta di una scena di una docufiction che Jafar Panahi sta cercando di dirigere a distanza da un villaggio in cui il segnale è estremamente precario. Ma anche la vita in quel luogo è precaria.
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Il film viene proposto anche in versione doppiata in italiano, gli orari sono consultabili nella relativa scheda:
https://ilcinemadelcarbone.it/film/gli-orsi-non-esistono
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In libertà condizionata dal 2010, l’iraniano Jafar Panahi ha fatto dei film girati da remoto un’arte, nonché un metodo geniale per beffare la censura, apparendovi spesso in prima persona (vedi “Taxi Teheran”). In questo “Gli orsi non esistono”, laureato a Venezia con un prudente Premio speciale della Giuria, va anche oltre. Integrando in un’unica, spietata, commovente riflessione i due spazi in cui si articola il film. Ovvero il paesino di frontiera in cui Panahi si è stabilito per dirigere le riprese a distanza, via computer; e il set del docu-fiction che è invece oltre confine, in Turchia.
La realtà prenderà infatti il sopravvento tanto sul set, in Turchia, che in quel paesino miserabile e sonnacchioso ma dominato da regole arcaiche e brutali (come tutto l’Iran). Destinate a esplodere proprio per la presenza di quell’intruso armato di telecamere e macchine fotografiche.
La realtà si è imposta una terza volta l’11 luglio, quando Panahi è stato tradotto nel carcere di Evin, dove è tuttora detenuto, per aver protestato contro l’arresto dei colleghi Mohamad Rasoulof (il regista di “Il male non esiste”) e Mostafa Al-Hamad. Evento non imprevedibile che rende ancora più urgente “Gli orsi non esistono”, amara riflessione sulle immagini, la Legge e l’esilio, ovvero sulla scelta di restare nel proprio paese perfino quando tutto invita alla fuga (ma si può sempre tirare il freno a mano, come farà appunto Panahi).
Il film-nel-film girato in Turchia segue infatti le peripezie di una coppia di esuli in fuga verso l’Europa che a volte si rivolgono dal set al regista contestando certe scelte di racconto e le conseguenze che queste hanno nella loro vita. Come accade a Panahi quando nel villaggio si sparge il dubbio, infondato, che nelle sue foto compaiano soggetti “sensibili” destinati a riattivare un’antica faida. In un vertiginoso gioco di specchi che rievoca apertamente Kiarostami, altro gigante scomparso nel 2016, ma porta tutto su un piano nuovo.
Mai forse la censura, le manifestazioni anti regime, il carcere, le torture, erano stati nominati tanto esplicitamente in un film iraniano. Il sangue versato nelle piazze del paese in queste settimane conferma tragicamente le scelte del regista. L’Iran - il mondo - ha bisogno di sguardi ostinati e intimamente politici come quello di Panahi. Oggi più che mai.
Fabio Ferzetti, L'Espresso
Premio Speciale della Giura della 79ma edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.