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Suburbicon

di George Clooney — USA, 2017, 105'
con Matt Damon, Julianne Moore, Noah Jupe, Glenn Fleshler, Alex Hassell

guarda il trailer

Anni 50. Nella tranquilla cittadina di Suburbicon, gli abitanti sono persone normali che rappresentano il lato migliore e peggiore della natura umana. Tra questi c'è la famiglia Lodge, apparentemente perfetta, che non esita a farsi prendere la mano dal ricatto, dalla vendetta e dal tradimento dopo aver subito un pericoloso attacco nella propria abitazione...

Suburbicon è una cittadina-modello che nel 1959, dodicesimo anno dalla sua fondazione, ha già  60.000 abitanti i quali, come decantato nello spot pubblicitario che si vede all’inizio del film e che invita a trasferirsi in questo posto da sogno, vantano già una bella, si fa per dire, varietà etnica: provengono da New York, Ohio e Mississippi. A Suburbicon vive anche il capofamiglia Gardner Lodge (Matt Damon) la cui moglie Rose (Julianne Moore) è costretta sulla sedia a rotelle in seguito a un incidente stradale. Dopo un’incursione notturna di due malviventi nella loro villetta, la donna perde la vita, ma la reazione di Gardner non è così drammatica, visto che lui ben presto sembra consolarsi tra le braccia di Margaret, sorella gemella della moglie (sempre Julianne Moore). Contemporaneamente a questa vicenda si assiste, nella città di Suburbicon, al primo insediamento di una famiglia di colore, i Meyers. A partire dalla reazione del postino, che quasi va in paralisi quando realizza che la signora Meyers, cui sta recapitando le lettere, ha la pelle nera, parte un crescendo di aggressioni da parte dell’intera popolazione bianca che, senza risparmio di colpi e con una furia cieca, assalirà i Meyers con ogni mezzo.

Suburbicon possiede tutti gli ingredienti tipici alla Coen, specialmente di matrice “farghiana” (...). Il film piace e diverte e la combinazione degli sceneggiatori Clooney/Coen dà i suoi risultati. Contribuiscono alla sua solidità  i “giganti” scelti come protagonisti, vale a dire Matt Damon nei panni di un piccolo borghese dai tratti tragicomici, in cui alla violenza improvvisa e inaspettata  (nella sua privacy sessuale lo scopriamo anche dedito ad insospettabili giochi sadomaso) si affianca sicuramente un bel po’ di odio verso sé stesso; e  la “doppia” Julianne Moore, che nella sua versione di gemella biondo platino non può non rimandarci ad una citazione della algida donna hitchcockiana, e che sembra davvero a sua agio in un ruolo di genere, facendo l’occhiolino  al cliché della casalinga/oca  anni 50 alla quale però conferisce un nuovo spessore. La scena con Oscar Isaac nel ruolo di Roger, agente assicurativo che sembra pronto a incastrare i protagonisti smascherando i loro piani criminali, rappresenta sicuramente uno dei momenti più brillanti del film.

La vicenda dei Meyers, invece, è stata aggiunta alla sceneggiatura da Clooney, il quale si è ispirato a una storia vera di una famiglia di colore accaduta negli anni 50 a Levittown, e sicuramente non può non far pensare anche ad eventi politici attuali come la tragedia di Charlottesville, nell’agosto 2017. I Meyers, però, non vengono percepiti come esseri viventi in carne e ossa ma solo come vittime di un attacco gravissimo che viene presentato nel suo sviluppo costantemente durante lo svolgersi della vicenda “principale” nella villetta accanto, visto che i Meyers e i Gardner sono vicinissimi di casa. E questo rientra sicuramente nella volontà del regista di realizzare un lungometraggio che fosse un mix al di là dei limiti di genere: i mix, come si sa, possono essere molto pericolosi, ma è da apprezzare il tentativo di Clooney di combinare l’impegno sociale con una nerissima vicenda privata, riuscendo a far riflettere non solo sull’accanimento razziale ma sulla cecità borghese di fronte ad efferati reati che si compiono sotto i loro occhi (Desperate Housewives docet). E nel riuscito e azzeccato finale, tanto cinico da un lato quanto utopistico dall’altro, i due livelli narrativi  del film si concilieranno alla perfezione.

Maria Capozzi, nocturno.it