Sulla infinitezza
di Roy Andersson — Svezia, Germania, Norvegia, 2019, 76'
con Martin Serner, Jessica Louthander, Tatiana Delaunay, Anders Hellström, Jan Eje Ferling
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Riflessione sulla vita umana in tutta la sua bellezza e crudeltà, splendore e banalità. Momenti insignificanti assumono lo stesso significato degli eventi storici: una coppia fluttua su una Colonia devastata dalla guerra; sulla strada per una festa di compleanno, un padre si ferma a legare i lacci della figlia sotto la pioggia battente; le ragazze adolescenti ballano fuori da un bar; un esercito sconfitto marcia verso un campo di prigionia. Un caleidoscopio di tutto ciò che è eternamente umano, una storia infinita della vulnerabilità dell'esistenza.
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Il film viene proposto anche in versione originale sottotitolata in italiano, gli orari sono consultabili nella relativa scheda:
https://ilcinemadelcarbone.it/film/sulla-infinitezza-vo
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Roy Andersson ha visto quest’umanità immersa nel silenzio, endemicamente fuori posto, rigorosamente a distanza, in cornici che la contengono ma non la comprendono, disperatamente buffa e pietosamente disperata, che maschera la consapevolezza della propria solitudine in comportamenti ritualistici senza convinzione. Tasselli che raramente sono sketch (il mancato saluto nazista, il prete cacciato dallo studio medico, il dentista stizzito), frammenti brevi, isolati o ripresi, appesi nel nulla dell’assurdità dell’esistenza, con un senso che, se non è diegetico, pittorico ("La fine di Hitler” di Kukryniksy) o retorico (il padre che uccide per l’onore della famiglia, la pena di morte), ambisce alla comunione per restituire l’infinitezza degli umori e stati umani. In modo inedito, Andersson sottrae sberleffi e aggiunge squarci di speranza (la donna alla stazione) o gioia (il ballo delle tre ragazze), tendendo lo sguardo su di un filo che va dall’incubo (la via crucis alla Ciprì e Maresco) al sogno (gli innamorati in volo), riducendo a medesima misura tutta l’umanità in vigenza del primo principio della termodinamica, dagli ultimi con esistenza arida al dittatore con sogni di grandezza. L’avventore nel bar, fra musica di Natale e incanto della neve che cade, ripete che tutto è “comunque” fantastico ma il cinema di Andersson, volente o nolente, rimanda sempre all’afflizione, per recitazioni convinte nel terrore, incerte della felicità, assenti: più della gratificazione sa raccontare l’assenza di Dio in un mondo mortale dove l’essere umano si rivolge alle lapidi. La scena che meglio rappresenta il film, allora, è quella finale: si ferma l’auto nel nulla, l’uomo apre il cofano ma non sa che fare, si guarda intorno di continuo ma non c’è nessuno.
Niccolò Rangoni Machiavelli, spietati.it