Gli ultimi
di Vito Pandolfi e David Maria Turoldo — Italia, 1963, 87'
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Checo, figlio di poveri contadini friulani, è un ragazzino diverso dagli altri perché più intelligente, sensibile e dotato di fantasia. I compagni lo isolano e lo scherniscono, affibbiandogli il nomignolo di spaventapasseri, e Checo finisce per identificarsi con quel macabro spauracchio. Un giorno, esasperato, decide di fuggire per andare a Venezia, con il sogno di diventare pittore. Tornato a casa, inizia per lui e per la sua famiglia un periodo durissimo di povertà e fame, al quale Checo finirà per reagire distruggendo lo spaventapasseri, l’incubo della sua infanzia, e cominciando, da uomo, a lavorare con gli uomini.
David Maria Turoldo, il sacerdote, frate servita, grande oratore, saggista, poeta, ritorna in Friuli nell’autunno del 1961 e viene assegnato al Convento di Santa Maria delle Grazie a Udine. Nato a Coderno di Sedegliano da famiglia contadina nel 1916, aveva lasciato la sua casa da tantissimi anni per intraprendere la vita religiosa. I suoi più profondi ricordi erano legati all’infanzia negli anni ’20 e all’inizio degli anni ’30 in un Friuli rustico e arcaico, povero, una società parsimoniosa, molto frugale, essenziale, tenacemente alle proprie radici, con un senso delle cose, della terra, delle stagioni che egli avvertiva come “sacro”. E’ proprio a Udine che Turoldo, decisamente convinto della grande forza del cinema come mezzo per parlare agli uomini del suo tempo, riesce a dar vita a un progetto cinematografico: la realizzazione di un film sulla sua terra natale, ispirato a un racconto breve di ispirazione autobiografica (allora inedito), “Io non ero un fanciullo”, incentrato sulla figura di un bambino friulano, figlio di contadini affittuari molto poveri, intelligente, sensibile, sognatore, ma emarginato e continuamente deriso dai coetanei. Turoldo, che aveva ritrovato un Friuli molto cambiato rispetto a quello che aveva lasciato trent’anni prima, i cui tradizionali valori stavano rapidamente scomparendo, travolti dalla modernizzazione, dall’industrializzazione, dal consumismo incalzante e nuovi modelli di vita, vuole evocare attraverso un mezzo di comunicazione molto popolare come il cinema il mondo dei valori a cui lui e tante generazioni di friulani erano stati educati, ma ha un obiettivo ancor più profondo, legato a quella visione “profetica” che lo ha contraddistinto e fatto conoscere: quel film dovrebbe riuscire a dare vita e immagine sullo schermo all’esaltazione della povertà come generatrice di parsimonia, di sobrietà essenziale, povertà come “valore fondamentale del mondo”. Egli infatti era solito affermare di aver imparato tutti i valori della vita proprio dalla povertà. Nella fase della sceneggiatura Turoldo conferisce all’opera un impianto realista: è una storia friulana ambientata in un preciso momento storico; si tratta però di un piccolo vissuto locale che non solo si apre ad una dimensione simbolica, elegiaca, poetica, ma tende a caricarsi di un respiro universale. Grazie al suo carisma, al suo entusiasmo e all’energia trascinatrice, riesce a coinvolgere seri professionisti del mondo dello spettacolo, come Vito Pandolfi, critico e uomo di teatro, a cui affida la regia del film; Armando Nannuzzi, direttore della fotografia; Carlo Rustichelli, curatore delle musiche. Dato che il progetto cinematografico di Turoldo ha preso corpo nel convento udinese in cui è stato trasferito, la società che viene costituita assume il nome di “Le Grazie Film”. Per quanto riguarda gli interpreti, che, secondo una prassi già attuata dal Neorealismo una quindicina d’anni prima, sono attori non professionisti, vengono reclutati tra le gente del Friuli. Il ruolo di Zuan, il padre, è affidato a Lino Turoldo, fratello di David Maria (il quale, nel doppiaggio, gli presta la sua voce). Margherita Tonino di Osoppo interpreta la figura della madre Anute; Laura De Cecco di Gemona è la piccola Josette, un’orfana belga, e lo scrittore Riedo Puppo ha la partre del sacrestano. Gli unici non friulani sono Adelfo Galli, un bambino della comunità di Nomadelfia (al cui avvio e affermazione Turoldo aveva partecipato), che ha il ruolo di Checo, il piccolo protagonista, e Vera Pescarolo nella parte della maestra. Vera Pescarolo, sorella di Leo, il quale nel film ha la funzione di aiuto-regista, è figlia di Vera Vergani, la grande attrice di teatro e di cinema all’epoca del muto, nata a Cividale, e nipote del famoso marionettista Vittorio Podrecca. Altri collaboratori friulani sono gli scenografi Bruno Vianello e Gigi Persello ed Elio Ciol di Casarsa, che, come fotografo di scena, scatta quasi duemila fotografie che in seguito si riveleranno preziosissime per documentare e tener viva le memoria dell’impresa cinematografica di Turoldo. Tutti friulani sono le location e i set (compresi gli interni): Coderno di Sedegliano, le colline di Buia, Craoretto di Prepotto, il mulino “nieviano” di Glaunicco, un tratto della linea ferroviaria Udine-Cividale presso Remanzacco, Villa Manin di Passariano. La campagna e i borghi friulani, fotografati in un bianco e nero ricco di drammatici contrasti nei primi mesi del 1962, riescono a trasmettere quell’atmosfera di tristezza e di malinconia che Turoldo aveva espresso nel suo racconto autobiografico, quella solitudine che attraversa l’intera sua opera poetica. Parimenti, la regia è molto fedele nella resa di quel senso austero, disadorno, introverso, scabro, scarno del mondo contadino di allora; una regia attenta a non scivolare mai nella retorica, nel sentimentalismo, nell’oleografia, nel folclore. La prima de Gli ultimi ha luogo al Cinema Centrale di Udine la sera del 31 gennaio 1963; la pellicola rimane in programmazione fino all’11 febbraio. Il pubblico accorre in massa; è incuriosito, perché all’epoca la realizzazione di un film in Friuli era ancora un fatto rarissimo. La pellicola suscita dibattiti sulla stampa locale e in incontri pubblici, a cui lo stesso Turoldo partecipa con la sua consueta vitalità e vigore dialettico. Si tratta di critiche che riguardano il contenuto, ovvero il modo con cui il Friuli viene rappresentato, giudicato troppo pessimista, troppo duro, troppo rassegnato, addirittura denigratorio. Il pubblico non accetta, non capisce o non vuole capire quello che Turoldo voleva esprimere con la sua storia. Proiettato in poche altre città italiane, riscuote scarsa attenzione. In Friuli, però, Gli ultimi non viene dimenticato, tanto che, quando nel 1981 viene rimesso nel circuito dalla San Paolo Film in 16 mm, riporta un discreto successo. Con lo sviluppo di associazioni cinematografiche e la diffusione della cultura cinematografica nella regione, Gli ultimi è sempre più rivalutato, diventa film “di culto”, viene riconosciuto come capostipite del cinema friulano. Si tratta di una rivalutazione a livello storico-filologico-documentario, non di una riscoperta del messaggio “profetico” sull’elogio della povertà che Turoldo intendeva diffondere con il film. Comunque, prima della sua morte avvenuta a Milano il 7 febbraio 1992, Turoldo ha la soddisfazione di vedere il nuovo interesse che si è concentrato su quel suo pionieristico, caparbio ed appassionato lavoro cinematografico dedicato agli ultimi contadini che hanno voluto rimanere attaccati alle radici della terra natale. Dieci anni dopo, il 4 marzo 2002 al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, gremitissimo di pubblico, viene proiettata la copia restaurata della pellicola. Nel frattempo, tesi di laurea, monografie, mostre fotografiche sono dedicate a Gli ultimi. Un’operazione di “rinascita” che prelude alla pubblicazione del DVD, un supporto capace di rendere finalmente possibile una larga diffusione di un’opera che ha avuto un percorso tanto complesso e travagliato.
Carlo Gaberscek, "Il Friuli austero e poetico di Turoldo", Messaggero Veneto del 17/03/2009