La guerra è dichiarata
di Valérie Donzelli — Francia, 2011, 100'
con Valérie Donzelli, Jérémie Elkaïm, Gabriel Elkaïm, Brigitte Sy, Elina Lowensohn
Romeo e Juliette si sono incontrati ad una festa in un locale, si sono innamorati e hanno concepito un bel bambino, Adam, che a 18 mesi ha sviluppato un tumore al cervello, in una forma delle più aggressive. Si può pensare che Rome e Juliette non si chiamino così per caso e che quella a cui siamo invitati ad assistere sia una tragedia, ma non è così. Perché i due giovani genitori affrontano la dolorosa lotta contro il male e contro il destino con il sorriso sulle labbra, un'energia senza posa, una determinazione senza pari e un amore contagioso.
Per un regista sceneggiatore, tra i dilemmi portanti per la realizzazione di un film vi sono gli approcci nei confronti delle congiunzioni tra scrittura e tonalità, genere di riferimento e sfumature da adottare, etica ed estetica, materia ed esposizione.
Se già di per sé le catalogazioni delle pellicole in generi inchiodano le opere in una scomoda immobilità a rischio limitazione espressiva, Valèrie Donzelli gioca di anticipo, sfuggendo ad ogni possibile elencazione. Gli unici riferimenti possibili possiamo trovarli nella Nouvelle Vague francese, di cui è figlia curiosa, ricercatrice di gemme preziose sovraesposte o semi-nascoste e mai radiografate. Ma a ben vedere la storia è tanto personale che le si farebbe un torto rimandarla ad un preciso cineasta; e lo stile cadenzato da ritmiche quasi furibonde sembra zittire tutti coloro che sono alla disperata ricerca di accostare questa sua opera seconda ad una visione cinematografica già risaputa e consumata.
"La guerra è dichiarata" è tratto da un diario di bordo che Valèrie e il suo ex Jérémie Elkaïm tenevano aggiornato durante la malattia del loro figlio, Gabriel (anche lui praticamente nei panni di se stesso nella battute conclusive del film). In una simile circostanza l'intenzione di fare ordine in un calvario che distrugge sin dal principio ogni intenzionale assetto è un paradosso che il film mette in conto, senza contare che le ferite lasciate da un simile travaglio sono indelebili anche quando apparentemente superate.
Il film della Donzelli è folle sin dalla scelta di realizzarlo - con luce naturale - interamente (eccetto le inquadrature finali in 35 mm) con una macchina fotografica digitale Canon EOS. Limitando così l'intenzionale effetto di stare addosso ai personaggi e aumentando il numero di inquadrature fisse, pur restando in perpetuo movimento. Si ha l'impressione di attraversare verticalmente una odissea costantemente accompagnata dal cuore pulsante della vita, dallo stare al mondo, dal resistere affidandosi esclusivamente alla viva intensità che non ha altri scopi che non siano quelli inclini a sfidare ogni attimo della propria vita.
Ci sono idealmente due chiavi di lettura per affrontare il film, la prima esplicata e facilmente percepibile, la seconda presumibilmente subcosciente. Indubbiamente gli onnipresenti elementi autobiografici sono stati riversati come base portante dell'operazione successivamente al lieto fine che la regista-attrice-sceneggiatrice e il suo vero ex compagno-attore-sceneggiatore hanno vissuto (lei dichiara: "senza un lieto fine, non avrei mai girato questo film. Ci siamo liberati della parte brutta per tenerci solo il bello"). Ed è, per l'appunto, l'happy end che ha permesso di gettare sul tavolo le carte per un film al contempo anti-realistico ma fortemente ancorato alla realtà, con ritmi da commedia senza essere mai davvero comico. Non una prova per esorcizzare liberatoriamente l'accumulo di dolore, ma una mistura di una sghemba e ubriaca seduta psicanalitica e una confessione di sconcertante intimità che ritaglia, scompone e rincolla i propri pezzi per l'elaborazione di un miscuglio fraterno al vissuto privato, ma allo stesso tempo svincolato da rigidezze dell'apparato interiore. In sintesi: un corpo chiuso nell'anima di un singolo che, tramite una euforica volontà, sa farsi universale.
La seconda base per affrontare il film deriva dall'idea di leggere la storia che presenta come vista attraverso gli occhi del bambino protagonista. Priva di patimenti e lacrime, restrizioni e coordinate prestabilite, dove le iniziali immagini dell'allargamento e l'aggravarsi della neoplasia sembrano rappresentare la metastasi come un disegno astratto colorato dal bambino, dove le sofferenze dei genitori sembrano i vertiginosi timori di chi sale su una giostra mai affrontata prima.
L'imprevedibilità non risiede nel conoscere il destino del bambino, tanto che è palese a partire dall'incipit rivelatore l'intenzione di mettere lo spettatore davanti a un epilogo radioso, evitando ogni possibile ricatto che normalmente pur si addice a una storia del genere, quanto piuttosto nell'esplorazione della magia stessa del cinema, dalla possibilità del mezzo filmico di avvolgere la storia in un calderone dove tutto è possibile: il delirio del battere le mani e veder apparire oggetti durante la Vigilia di Natale, come in un film di Jacques Demy mettersi a cantare una canzone capace di unire due cuori in quel momento fisicamente distanti. La colonna sonora è variegata (da Bach a Morricone, da Vivaldi a Laurie Anderson) e l'utilizzo di tre voci off (!) è inglobato in una grammatica cinematografica oltraggiosa, con un complesso montaggio giocato su svariate modulazioni (intermittenze, aggressioni, fissità), costretto a inseguire uno sguardo sfrontato e ribelle, incapace di piangersi addosso e troppo preso dalla smania del da farsi, come ci trovassimo in un musical scatenato, un western audace o, per l'appunto, in un film di guerra.
Con l'incombere della tragedia che li avvolge, Romèo e Juliette non hanno più tempo di combattere i piccoli problemi della quotidianità: l'unico nemico da sfidare è il tumore di Adam.
Coppia ancora acerba e irresponsabile, forse, che ha ancora da scontare errori e ingenuità, ma anche capace di affrontare la realtà che li affligge tirando fuori il meglio di sé. La sorpresa che il loro percorso offre è questa capacità di affrontare un problema più grande di loro che entrambi, figli di un'immatura e viziata generazione, non credevano di possedere
Il film è quindi soprattutto la storia della coppia di innamorati spensierati che acquisiscono pian piano responsabilità e coscienza. Le strade si separano, la finestra verso il futuro è spalancata, il figlio sopravvive, la coppia muore, la vita comincia. E gli attimi finali si manifestano sulle rive del mare e il film, che fino a quel momento era sempre andato di corsa, si posa su di un lungo ralenti che cattura donna, uomo, bambino in un momento di emozione pura, dentro e fuori lo schermo.
Diego Capuano, ondacinema.it