Put Your Soul On Your Hand and Walk
di Sepideh Farsi — Francia, Iran, Palestina, 2025, 112'
proiezione in inglese, arabo con sottotitoli in italiano
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Il 7 ottobre 2023, giorno del violento attacco di Hamas a Israele, la regista iraniana Sepideh Farsi sta promuovendo il suo ultimo film per il mondo, The Siren, che si ispira alla guerra che lei, oggi in esilio in Francia, ha vissuto da adolescente nel nativo Iran. In cerca di una comprensione più profonda del contesto, Farsi cerca di entrare a Rafah dall'Egitto per parlare con rifugiati palestinesi e grazie a un contatto conosce, se pur solo in videochiamata, la fotoreporter ventiquattrenne Fatma "Fatem" Hassouna. In un inglese essenziale si apre tra loro un dialogo, profondamente sentito, una connessione immediata, che non necessita di spiegazioni, tra chi conosce il significato di una forte limitazione della propria libertà.
In una vertigine di piccoli schermi, anche in split screen, dalla connessione instabile e dall'immagine che spesso si sgrana, si congela, per poi riprendere a scorrere, Sepideh dice che "gli occhi di Fatem diventano i miei su Gaza e io divento la sua finestra sul mondo": la regista riprende il telefono con cui la videochiama, ma anche alcuni frammenti di servizi giornalistici da Gaza e intarsia tra le loro quindici conversazioni, avvenute tra aprile 2024 e aprile 2025, le fotografie che Fatem scatta ai suoi concittadini, tra macerie e ricerca di "normalità".
Perché è questo quello che Fatem vuole: documentare ciò che i civili stanno subendo. Perciò prende la sua anima in mano e si porta sulle strade con la sua macchina fotografica, nonostante il pericolo. "Non possono sconfiggerci perché non abbiamo niente da perdere". E nessun altro posto dove andare, No Other Land, come si intitola il documentario low budget che a sorpresa ha vinto l'Oscar nel 2025.Put Your Soul in your Hand and Walk è un film-ponte, la cui possibilità si dà grazie a una serie di relazioni e dispositivi, e in parallelo anche dalla forte volontà di non arrendersi. Il sorriso candido di Fatem, intriso di fatalismo misto a fede - tra le tante apparentemente frivole risate scambiate con Sepideh, che a leggerle bene, segnalano tensione, preoccupazione, imbarazzo - è il simbolo inerme di ciò che la causa palestinese, ancor più dopo il 7 ottobre, rappresenta nel mondo.
Raffaella Giancristofaro, Mymovies
La centralità della macchina da presa sullo smartphone enfatizza l'attesa prima di ogni risposta, alimentando la speranza che Fatem possa (ancora) rispondere. La sua voce e la sua immagine cominciano a pixelarsi a causa di una depressione, alienazione e di una cattività non più tollerabile visibili nel suo primo piano.
Verranno meno definitivamente il 16 aprile 2025, poche ore dopo che Fatem aveva saputo che il film nato dal montaggio di quelle telefonate sarebbe stato selezionato all'ACID di Cannes, alla proiezione del quale sognava di partecipare. Questo dialogo ostacolato è anche caratterizzato dall'ordinarietà incredula e frustrante di chi guarda da lontano e impotente un conflitto, un'ingiustizia.
Da diario di un teatro di guerra si trasforma gradualmente in una celebrazione del valore semplice dell'ascolto e della condivisione di uno stato di paura, privazione e dolore. Parola (di conforto), immagine (come prova, documento) e suono (il rombo degli aerei e il rumore delle bombe mandati su nero) si fondono mirabilmente in questo incontro che ha del miracoloso. O forse solo di ciò che è più originariamente umano: la compassione.



