25 giugno 2025

Scomode verità: il grande ritorno di Mike Leigh, con un’indimenticabile masterclass di Marianne Jean-Baptiste

I titoli dei film di Mike Leigh sono sempre quel che sono e, al contempo, indicano qualcosa che resta nascosto in piena vista. Dai primi Bleak Moments, ovvero i momenti cupi tra personaggi che non sanno comunicare tra loro, e Belle speranze da leggere in antitesi sul fronte delle illusioni perdute, passando per il rigurgito di speranza di Dolce è la vita, la messa a nudo di Naked, Segreti e bugie che parla letteralmente di fatti celati e occultati e così via fino alle quattro stagioni attraversate dal gruppetto di Another Year.

Scomode verità (Hard Truths), che arriva dopo i due affreschi storici Turner e Peterloo, non fa eccezione: il punto è tutto nel titolo, nel provare a confrontarsi con le cose che non accettiamo perché dolorose o sgradevoli. Non è un caso che il film inizi sì con una scena enigmatica (e ciclica) ma subito interrotta da un urlo che squarcia un sonno diurno, in una stanza che la protagonista vorrebbe tenere tutta per sé invano, non fosse che i raggi di sole si infiltrano tra le veneziane e che il marito, russando, impedisce la quiete notturna.

È il primo dei tanti urli di Pansy, una casalinga infelice – e, si sa, ognuno è infelice a modo suo – e costantemente sul piede di guerre, divorata dall’ansia e dalla paura, spaventata da un mondo che ha imparato a recepire come incontrollabile: i germi da abbattere con pulizie ossessive, la gente con cui litigare a prescindere per un parcheggio o per una visita medica, gli animali che siano insetti o volpi poco cambia, i fiori da maneggiare senza toccarne i pericolosi gambi.

Pansy non dà pace agli altri e non si dà pace, si sente odiata, insidiata, perseguitata da tutti: che non riesca più a dormire è il minimo ed è naturale che cerchi rifugio nel divano (un luogo da disinfettare, sostituire, ridurre nelle dimensioni). Come se il corpo affaticato dalle carenze (fisiologiche, affettive, sociali: il marito e il figlio sembrano annichiliti dalla donna, incapaci di reagire) si rifiutasse di giacere in un posto, il letto matrimoniale, che ormai è sinonimo di lutto: quello mai metabolizzato della madre; e quello in fieri della fine di qualcosa che forse non è mai iniziato.

A far da contraltare, sua sorella Chantelle, una parrucchiera solare che non alza mai la voce, è predisposta all’ascolto, si fa ben volere da tutti, raccoglie le confidenze delle clienti e ha un bel rapporto con le figlie cresciute da sola (gli uomini, l’abbiamo capito, sono superflui, perfino ingombranti, sicuramente repressi fino allo sconforto). A legarle è un passato che riaffiora per frammenti sparsi e ricordi condivisi, ma le scomode verità trascendono il tempo: stanno lì, nascoste in piena vista, negli spazi apparentemente ostili alla presenza di Pansy o viceversa, di fronte alla lapide di una persona cara, in una casa senza calore né arredi, in un piccolo soggiorno pieno di pietanze che non mangerà nessuno.

L’hard truth è evidente e noi non possiamo farci niente: Pansy è depressa e nessuno ha il coraggio di dirglielo – o ridirglielo – e, alla fine, il collasso emotivo è tale che l’urlo non è mai liberatorio ma punitivo, il conflitto distrugge anziché costruire, il trauma ultimo scorso è solo il sintomo. E non bastano più un abbraccio, un’attenzione, una domanda per una catarsi ormai forse impossibile.

È stupefacente come Leigh costruisce questa anatomia di una caduta senza cedere al pietismo del giorno dopo, alla retorica più scolastica, al flusso didascalico di fatti messi uno dopo l’altro per innescare una reazione. Con un fondamentale lavoro con – e su – la luce di Dick Pope (storico sodale dell’autore, morto nell’ottobre 2024), che cerca il nitore e scopre la fredda inquietudine di un turbamento privato che si riflette in un sentimento collettivo, quello del tempo sospeso della pandemia (che peraltro ha ritardato l’inizio delle riprese e si ritrova nelle sparute mascherine e nell’isolamento dell’adolescente interrotto).

Maestro del realismo e umanista fuori moda, Leigh non prescinde mai dalla commedia che postula il dramma, dall’umorismo senza il quale la vita sarebbe un’occasione perduta, dal cuore che batte anche oltre una coperta che fa da barriera, il giubbotto come corazza, nella lacrima che sgorga immaginando una rinascita. E pochi come lui amano le attrici e gli attori (Michele Austin, David Webber, Tuwaine Barret), regalando a Marianne Jean-Baptiste – da lui rivelata in Segreti e bugie – l’occasione di un’indimenticabile masterclass: uno dei personaggi più respingenti, scontrosi, antipatici degli ultimi anni al servizio della più spettacolare, straziante, travolgente, crisi di nervi dai tempi del duo Cassavetes/Rowlands. Se non è un capolavoro poco ci manca.

Lorenzo Ciofani, Cinematografo

24 giugno 2025

Fare cinema d'estate

L’amore per il cinema è il motore che anima lo spirito dei volontari del Carbone che da ormai quindici anni portano il loro schermo mobile in città e nei luoghi della provincia, dopo la lunga stagione di eventi nella sala di via Oberdan. Ogni sera avviene la magia, ogni sera si trasformano piazze, cortili, parchi e giardini in sale cinematografiche temporanee, grazie all’impegno e alla collaborazione di tutti: volontari, segreteria e tecnici dell’associazione "il cinema del carbone", che insieme alle diverse realtà e associazioni del territorio rendono l’estate mantovana sempre più vivace e coinvolgente.
Tutte le sere lo stesso rituale: si carica il furgone con l'attrezzatura e intorno alle sette si parte, destinazione: Rivarolo Mantovano, Roncoferraro,  Castellaro Lagusello, Marcaria, Castelgoffredo (...) ma anche Il circolo Canottieri Mincio, Piazza Alberti e, da quest'anno, Palazzo Ducale e San Cristoforo.
È una storia sempre nuova ma antica, quella del cinema, che ci affascina con la sua luce e le sue immagini in movimento e ci porta, per qualche ora, in un altro spazio  e in un altro tempo seguendo le avventure o disavventure di personaggi  che diventano in pochi minuti volti e voci in cui riconoscerci.
E così ogni sera i volontari del carbone, con le loro magliette colorate, ormeggiano lo schermo nel luogo destinato, lo aprono e si preparano alla visione, accompagnati dal pubblico che diventa comunità di spettatori. Nelle piazze c'è chi arriva in bicicletta, chi con un cuscino, chi con la famiglia o l'amica del cuore, chi si ferma solo 5 minuti, chi rimane immobile fino all' ultimo fotogramma e chi, alla fine, raccoglie le sedie insieme ai volontari e ci chiede dove ci può trovare il giorno seguente. Il giardino, la piazza e quell'angolo di mondo, dopo essere stati attraversati dalla storia del film, ritornano ad essere gli stessi luoghi di sempre o forse come tutti diventano altro, trasformati in un’esperienza di luce e buio dove perdersi e ritrovarsi.

È possibile sostenere le attività del cinema del carbone con la tessera associativa o anche attraverso il 5x1000. Una delle missioni dell'associazione è quella di collaborare attivamente con enti e associazioni del territorio mantovano per promuovere la cultura cinematografica e l'aggregazione sociale.

18 giugno 2025

In marcia coi lupi: quando il cinema diventa naturalismo filosofico.

"Ho passato tre anni in questa sperduta valle delle Alpi con un'unica ossessione: guardare negli occhi dei lupi". Il regista e unico protagonista umano del film, Jean-Michel Bertrand, introduce con queste parole In marcia coi lupi, seguito del suo La vallée des loups, passato al Trento Film Festival nel 2017. In questa sorta di prolungamento della ricerca, il progetto continua a concentrarsi sull'osservazione della stessa specie, scomparsa dai territori francesi e divenuta specie protetta dal 1993. Ma più precisamente, sulla dispersione, o "sostituzione" di giovani esemplari, che, dovendo emanciparsi dal gruppo, intraprendono un cammino casuale, attraversando e cercando di insediarsi in territori anche molto diversi tra loro.

Ex piantatore di alberi per la Forestale, il regista Bertrand, non sappiamo con l'aiuto di quanti collaboratori, immagina e disegna i percorsi dei lupi, nasconde delle microcamere in quattro posizioni che ritiene strategiche e le collega al suo smartphone, al fine di raccogliere dati sui loro itinerari, abitudini, esperienze.

La sopravvivenza, per un giovane lupo isolato, non è semplice: deve evitare sia la concorrenza di branchi già formati, ai quali non può unirsi, e le minacce degli ambienti abitati da uomini. Al contrario dei clichés circolanti, il lupo ha molte vulnerabilità, tra cui anche l'ostilità di parte della comunità di campagna e il pregiudizio ancorato a narrazioni medievali.
Diario molto ellittico di un pedinamento amoroso, In marcia coi lupi è in realtà un doppio viaggio, parallelo: quello dei lupi, alla ricerca del proprio posto nell'ecosistema (in cui scopriamo che è sempre la femmina a prendere l'iniziativa e a camminare davanti) e quello del loro osservatore, solitario e vagabondo tanto quanto loro, verso una dimensione quasi eremitica. In questa immersione alpina into the wild prevale un'idea di società e di mondo a basso impatto e ad alta autoregolamentazione, distante da logiche di sfruttamento e semmai guidato da rispetto, ecologia, consapevolezza della convivenza. Le immagini a bassa definizione e spesso notturne delle microcamere vengono distillate al montaggio dentro un repertorio di panorami, colti da alture oppure da droni, in una celebrazione delle cromìe naturali tra il Monte Bianco e la catena del Giura.

Raffaella Giancristofaro, Mymovies

04 giugno 2025

ARAGOSTE A MANHATTAN: una commedia ricca di divertimento, intuizioni folgoranti e risvolti politici

In ogni scena di Aragoste a Manhattan, superbamente diretto da Alonso Ruizpalacios, si percepisce una forza vitale impetuosa, a tratti esuberante, ma più spesso tesa verso il disastro o la violenza. Pensate a The Bear sotto l'effetto della cocaina e avrete un'idea dell'intensità sostenuta e della pressione latente di questa tragicommedia feroce su ciò che i clienti non vedono durante una giornata di lavoro in un affollato ristorante di Times Square. Lo sceneggiatore e regista messicano ha stile da vendere, come si evince dalle immagini inebrianti in bianco e nero, dal montaggio dinamico e dall'uso sorprendente della musica, che alterna jazz e solenni brani corali. [...] il film resta una visione avvincente sul tema dell'immigrazione come limbo infernale, in cui qualsiasi idea di comunità si rivela un’illusione. Nei suoi film precedenti Ruizpalacios ha dimostrato un'affinità sia con la Nouvelle Vague francese sia con l'eccentricità dell'indie americano, oltre a un occhio da documentarista per i dettagli. Il suo quarto lungometraggio reca tracce di tutte queste influenze, agganciate all’idea chiave di Thoreau della fatica come qualcosa di antitetico ai sogni, o persino alla vita stessa.
David Rooney, The Hollywood Reporter

29 maggio 2025

In ricordo di Sebastião Salgado torna al cinema Il sale della terra

Per rendere omaggio al celebre fotografo Sebastião Salgado, scomparso il 23 maggio scorso a Parigi all'età di 81 anni, torna al cinema il documentario IL SALE DELLA TERRA diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, candidato al premio Oscar 2015 come Miglior Documentario e Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes-Un Certain Regard.
Ispirato dalla potenza lirica della fotografia di Sebastião Salgado, IL SALE DELLA TERRA è un documentario monumentale che traccia l'itinerario artistico e umano del fotografo brasiliano attraverso gli sguardi incrociati di Wim Wenders - anch'egli fotografo - e di suo figlio Juliano che lo ha accompagnato nei suoi ultimi viaggi. Eroe del nostro tempo, viaggiatore irriducibile, Sebastião Salgado ha esplorato oltre 40 paesi. In ogni suo scatto, con l'uso inconfondibile e personalissimo del bianco e nero, ha condensato tutta l'umanità e l'anima della terra attraverso storie di lavoratori, migrazioni e povertà. Ha raccontato il rapporto tra uomo e l'ambiente, narrando con uno sguardo straordinario la bellezza della natura e cosa ne rimane oggi, nonostante distruzioni e cambiamento climatico. Per questo nel 2016 l'Accademia Francese delle Belle Arti lo aveva eletto "grande testimone della condizione umana e dello stato del pianeta".     

Alternando la sua storia personale con le riflessioni sul mestiere di fotografo, nel documentario Salgado viene interrogato dallo sguardo fuori campo di Wenders e si racconta attraverso i reportage con cui ha omaggiato la bellezza del pianeta.

Comingsoon

27 maggio 2025

Fino alle montagne: un film fortemente sensibile che affronta il tema dello sradicamento e dei limiti umani

Dopo l’allegoria politica di Antigone, Sophie Deraspe adatta il romanzo autobiografico del vero Mathyas Lefebure, “D’où viens-tu, berger?”, e si confronta con i limiti della condizione umana di fronte all’indifferenza (e alla bellezza) della natura (…) L’evoluzione di Mathyas non sta tanto nel suo entrare in relazione con la natura – che rimane inospitale e dura per chi ingenuamente vuole farvi ritorno – quanto nel passare dalla solitudine alla condivisione. Se nella prima sequenza, leggendo una sua lettera a casa, il ricco pubblicitario canadese sembra imporre la sua volontà senza curarsi di chi lo aspetta (e nell’assolata Provenza non si discosta molto dal londinese in vacanza di Un’ottima annata), nel resto del film imparerà a prendersi cura di qualcuno -del gregge, naturalmente, ma soprattutto di Élise. E proprio quest’ultima, che passa dall’immaterialità della parola (molto bella la corrispondenza con Mathyas nella prima parte) alla certezza dei gesti, è in realtà la protagonista inattesa del film, bilanciamento necessario sia delle certezze sia dei dubbi della sua controparte maschile. La grande sensibilità di Deraspe, che ha scritto il film con lo stesso Lafebure, consiste soprattutto nel lasciare ai personaggi il tempo e lo spazio (tanto spazio, nelle splendide e selvagge alture della Provenza) di accettare i cambiamenti, attenta più ai dilemmi interiori e alle battaglie delle idee che all’evoluzione drammatica del racconto. Ciò che potrebbe essere scambiato per un problema del film – la sua durata estesa rispetto all’indefinitezza narrativa – è in realtà una forza, dal momento che a Deraspe interessa soprattutto il riflesso della natura sul corpo e la mente dei protagonisti…

Roberto Manassero – Mymovies

13 maggio 2025

Black Tea di Abderrahmane Sissako: un film che lavora sulla lunghezza d’onda delle emozioni

Aspettando la felicità: sono passati dieci anni da Timbuktu e Abderrahmane Sissako si ripresenta (in Concorso a Berlino 74) con Black Tea per definire un mondo in cui agli esistenti si offre la scelta tra la menzogna e l’essere felici, tra la verità dei sentimenti e l’accettazione delle convenzioni, [...] e dove il tema dell’emigrazione diventa lo spazio ideale per l’affermazione di un principio di autenticità dei sentimenti, prima ancora che la ricerca di uno spazio fisico ed economico vitale.

Ma questo è evidentemente un film che va dritto alla sostanza della questione: il diritto alla felicità come spazio di una conquista non individuale, ma trasversale, come condivisione di un sentire che deve appartenere a tutti, all’intera comunità che diventa quasi un corpo solido, unico e identitario, al di là delle etnie e delle culture. Sissako s’inventa quello che, se non fosse un luogo ben preciso come la provincia cinese di Guangzhou, con la numerosa comunità di africani immigrata negli anni ’90, potrebbe quasi sembrare uno spazio di fantasia: l’astrazione di un perimetro geopolitico in cui convivono idealmente africani e asiatici, in una mescolanza di culture e economie quasi irrealistica. [...]

Attorno brulica una vita che tiene insieme nel quartiere commerciale attività asiatiche e africane, in un sincretismo culturale che diventa la cifra espressiva e stilistica del film: tutto riluce di cromatismi e impianti scenici iperrealistici, in cui i giochi di riflessi smarginano i perimetri come a offrire un mélange visivo in cui lasciar confondere le forme. Tutto è immerso in una perenne notte che offre quasi una dimensione onirica all’intreccio di storie d’amore, di figure in cerca di serenità, dolcezza, felicità. [...]

Black Tea lavora sulla lunghezza d’onda delle emozioni, sulla distanza della visione d’insieme. E in quanto tale è un film che resta e che saprà dialogare col pubblico.

28 aprile 2025

Un esordio delicato e curato: La Fossa delle Marianne

Dopo la prima mondiale al Filmfest Hamburg 2024 e il riconoscimento come miglior esordio internazionale al San Diego International Film Festival, La Fossa delle Marianne è approdato in Italia come film di chiusura del Bolzano Film Festival 2025. Un percorso festivaliero solido per un’opera prima che cerca il difficile equilibrio tra intimità, dolore e narrazione. Il film dura appena 87 minuti, ma si prende tutto il tempo per scavare nei silenzi e nei non detti. Paula e Helmut si incontrano nel momento in cui le loro vite sembrano aver smarrito qualunque direzione. Lei è giovane, irrequieta, dominata da un dolore che si traduce in fuga e chiusura. Lui è un anziano misantropo e malato, che nasconde un lutto mai risolto. Il loro incontro avviene mentre lui cerca aiuto per dissotterrare la tomba della moglie, con l’intento di riseppellirla nel giardino di casa, come se la prossimità potesse colmare una distanza esistenziale. Eileen Byrne, regista lussemburghese al suo esordio, adatta il romanzo omonimo di Jasmin Schreiber con uno sguardo sincero e trattenuto, scegliendo una narrazione fatta di pause, piccoli gesti e sguardi che pesano. Paula ha dentro un abisso che la spinge a correre; Helmut un muro che lo tiene fermo. È nel contrasto tra questi due estremi che il film trova i suoi momenti più forti: non nella catarsi, ma nella resistenza, nella difficoltà a farsi comprendere, nella paura di lasciarsi vedere. Molto potente anche l’elemento narrativo del confronto col fratellino di Paula, con cui la protagonista dialoga costantemente: figura che sembra inizialmente il ricordo di una perdita, ma che finisce per incarnare la parte di sé che vuole riemergere.

Luna Wedler lavora sulla tensione del corpo e sull’inerzia dello sguardo. Paula è sempre in movimento, ma i suoi occhi restano fissi su un punto che nessuno vede. Edgar Selge, al contrario, è un corpo immobile che si consuma lentamente. La forza del film è tutta in questa dinamica: due solitudini che non si risolvono, ma si riconoscono, almeno per un attimo. Quando accade, non c’è retorica. Solo due persone che restano a galla, senza pretendere di salvarsi. [...]

Byrne filma la natura come spazio mentale: le Alpi, i laghi, la pioggia improvvisa, la luce tra i rami. La natura non consola, ma riflette. Non salva, ma accompagna. E quando il film si affida solo a questo – alla luce, al respiro, a un passo esitante – riesce a toccare corde più autentiche. La Fossa delle Marianne è un esordio delicato e curato, che lavora con sincerità su una materia emotiva fragile e profonda. È un film che sa ascoltare i suoi personaggi, che trova nei silenzi e nei gesti più piccoli la sua forza.

Giuseppe Sant'Elia, Nocturno.it

16 aprile 2025

Puan - Il professore: una tragicommedia a sfondo politico sul significato e la perdita degli ideali

Il film si concentra sulla storia della coppia di protagonisti, il professore goffo e idealista e il cinico orchestratore, di quella generazione che voleva cambiare il mondo mentre il mondo ha cambiato lei, quello che erano e quello che sono ora. E riflette anche il mondo dell'università pubblica di oggi, i suoi stereotipi (perché ce ne sono), le sue dinamiche interne, i suoi problemi, i suoi rapporti di potere, i suoi classici scontri tra ego, il suo sfondo politico e sociale, le sue nuove generazioni. Il "Puan" (il nome della famosa università che dà il titolo al film, pietra miliare dei movimenti studenteschi e rivoluzionari argentini) è anche una perfetta rappresentazione di ciò che è la vita, di come funziona, dei suoi alti e bassi, dei suoi conflitti, delle sue lotte e del suo disordine. Il film parla così dell'idealismo e della sua scomparsa, delle derive neoliberiste della società, del significato di ciò che facciamo, del perché decidiamo di dedicare il nostro tempo a una professione o a un compito (al di là del denaro), dell'importanza dell'istruzione, di ciò che ci separa e di ciò che ci unisce, della distanza e della coerenza tra pensiero e azione, delle apparenze e delle sorprese che la vita a volte ci riserva. [...]

Puan - Il professore è un film piacevole da vedere, divertente e impegnato allo stesso tempo, che funziona come commedia, dramma e cinema politico, cronaca di una sconfitta e della dignità che si può trovare in essa, e ancora una riflessione agrodolce sul significato e la crisi degli ideali, sugli alti e bassi del comportamento umano.

Júlia Olmo, Cineuropa

16 aprile 2025

Generazione romantica di Jia Zhang-ke

Il regista cinese ripercorre la coreografia infinita del suo cinema, l’amore tenuto a distanza, lo scarto abissale con il futuro, le immagini che mutano forma quando le vai a rivisitare.

Jia riavvolge il filo della relazione tra Bin (Zhubin Li) e la Qiaoqiao di Zhao Tao, personaggio ritornante delle sue immagini, e trasforma l’intera prima sezione di Generazione romantica in una playlist senza soluzione di continuità di scene di canto, di ballo di gruppo, di karaoke, di danza, prese dai suoi film precedenti, da Still Life a Al di là delle montagne o I figli del fiume giallo: è vero, possiamo giurare di riconoscere ogni fotogramma, ogni vertigine che ci viene restituita dal ritrovare queste istantanee di una poetica, ma allo stesso tempo è come se il nostro rapporto con questa materia si stesse rinnovando davanti ai nostri occhi, nell’istante stesso in cui il suo autore la va rivisitando – è quello che accade puntualmente con i movimenti di macchina di Jia, con il rapporto che instaurano con il paesaggio e le masse di corpi che lo abitano, c’è sistematicamente quell’istante in cui il tuo sguardo vaga alla ricerca del fulcro di quanto sta accadendo sulla scena, un abissale secondo di smarrimento prima di “agganciare” il senso (accade qui anche al robot con cui Zhao Tao imbastisce un irresistibile e struggente sketch di riconoscimento esistenziale nel centro commerciale).

Sta tutta in quello scarto l’operazione di Generazione romantica, perché di film in film Jia Zhang-ke ha raccontato passato, presente e futuro della sua Cina, e questa rimessa in gioco a distanza ravvicinata di quanto filmato da Unknown Pleasures in poi si trasforma anche in un attraversamento di formati di ripresa e dell’inquadratura, urbanizzazioni forzate, automazioni sociali, orizzonti che da rurali (e low budget) diventano hi-tech, o meglio fanno convivere entrambe le vedute sullo sfondo: nella coda che rappresenta l’apporto inedito al progetto, il cineasta s’immerge nel racconto della quotidianità da pandemia, col distanziamento, le mascherine, le sanificazioni.

Sergio Sozzo, SentieriSelvaggi