
11 marzo 2025
Diciannove: un esordio sfrontato e decisamente convincente
Diciannove sono gli anni che ha Leonardo quando decide di partire da Palermo. Diciannove sono anche gli anni che aveva il regista Giovanni Tortorici, al debutto nel lungometraggio, nel 2015. Possono esserci quindi potenziali 'frammenti' di vita vissuta in questo racconto inquieto in cui si avverte anche una distanza tra la quotidianità del protagonista e i filmati o i gruppi social dove ogni angolo del mondo sembra facilmente raggiungibile.
Quelli di Leonardo sono spostamenti inquieti: Palermo, Londra, Siena, Milano e Torino. Quasi un 'diario' proprio come quello di Elio in Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, produttore del film di cui Tortorici è stato assistente alla regia nella serie We Are Who We Are e ha curato le riprese del backstage sul set di Bones and All. I punti di vicinanza non finiscono qui. C'è anche un modo di inquadrare i luoghi che li avvicinano. Londra viene filmata come se fosse sempre sospesa tra il set e la finzione, proprio come in The Protagonists. In più c'è un rapporto quasi sanguigno nel modo di mostrare la passione per la letteratura per Tortorici, così come in Guadagnino ci sono non solo riferimenti, ma continue 'lettere d'amore' ai cineasti e ai film che ama. [...]
L'esordio di Tortorici ha un immediato impatto perché ha il coraggio di non porsi limiti, sia a livello di dialoghi ma anche di messinscena come negli effetti di animazione. Trova il volto giusto per Leonardo, interpretato da Manfredi Marini, che ha un po' la ribellione, le nevrosi ma anche l'incoscienza di un giovane Lou Castel.
Ma anche dietro la sua ruvidezza, trova molti momenti riusciti come quello del protagonista che gira di notte per Siena perché insonne e soprattutto il momento bellissimo della giornata passata insieme alla sorella dove coglie insieme la distanza e l'intimità tra loro. Non è il classico racconto in prima persona, non è il film italiano che si parla addosso. Per questo Diciannove è un debutto decisamente convincente e anche i suoi limiti lo rendono, paradossalmente, ancora più elettrizzante.
Simone Emiliani, Mymovies

04 marzo 2025
La filosofia delle piccole cose: Black Dog di Guan Hu
Premiato a Un Certain Regard di Cannes a trent’anni esatti dall’esordio del suo autore, tra gli esponenti della cosiddetta Sesta Generazione, il film si allontana dai soliti lavori commerciali di Guan per avvicinarsi agli stilemi della produzione autoriale nazionale. Luttuoso ma anche colmo di speranza, Black Dog ci apre una finestra sul presente della Cina fotografandone il passato recente. Il regista viaggia al fianco del suo antieroe senza giudicarlo ma piuttosto interrogandosi sulle difficoltà di chi resta escluso dalle grandi rivoluzioni. L’alienazione di Lang, in particolare, viene simbolicamente sintetizzata nel suo testardo silenzio, selettivo e volontario. Il non-più-giovane uomo sceglie le parole con cura, sempre per esprimere un punto di vista. E infatti, quando giungerà il momento di riprendere in mano la sua vita, saprà rimettersi in sella. Un racconto che si fa esempio virtuoso di come sia possibile ovunque e sempre, anche nelle condizioni più disperate, ritrovare il valore dell’umanità, in questo caso lontano dalla retorica cooperativistica del Partito Unico.
Aleassandro Amato, CineCriticaWeb

25 febbraio 2025
Fiume o Morte! di Igor Bezinović: un documentario punk, satirico e grottesco e dal potere liberatorio
Nel 1919, indignato per l’esito della Conferenza di pace di Parigi, che proponeva di consegnare la città di Fiume (Rijeka, Croazia) alla Jugoslavia, il poeta proto-fascista e ufficiale dell’esercito italiano Gabriele D’Annunzio decise di occupare la città. I successivi sedici mesi di occupazione rappresentano uno degli esperimenti di governo più bizzarri della storia del XX secolo.
“I miei colleghi italiani mi hanno avvertito di non menzionare troppo il fascismo nell’introduzione, quindi, per il bene degli spettatori italiani, mi fermerò qui”. Così Igor Bevinović, giovane regista nativo di Rijeka, introduce il suo documentario ibrido dal titolo Fiume o morte!, vincitore del Tiger Award e del premio FIPRESCI al Festival di Rotterdam 2025. L’obiettivo dell’autore non è solo quello di ricordare e ricostruire l’assurda impresa fiumana e i mesi di occupazione, ma soprattutto rintracciare cosa resta nella memoria collettiva della sua città e dei suoi concittadini. Ciò che fin da subito rende il progetto così intrigante è la scelta di coinvolgere la gente del posto, prima solo per delle interviste in strada e in seguito arruolati come interpreti del film. “Chi è Gabriele D’Annunzio?”, chiede Bevinović agli avventori del mercato di Rijeka. Molti non lo conoscono, qualcuno lo definisce “un fascista italiano che ha occupato la nostra città”, altri “un poeta e seduttore, amante della Duse”. Una donna che si definisce pioniera di Tito lo chiama “orribile fascista” e ricorda come ancora ce ne siano molti in giro, solo che al giorno d’oggi è molto più difficile riconoscerli. Fiume o morte! mette in luce la considerazione antitetica dei due paesi nei confronti di D’Annunzio; in Italia è un patriota e grande poeta a cui sono stati dedicati due monumenti, mentre in Croazia viene ricordato come un pazzo amante della cocaina con i denti marci. Dopotutto, lui stesso non fu mai tenero con il popolo occupato, come quando li definì “bastardi slavi” e “sporchi croati”.
Bezinović decide così di rievocare in maniera surreale il poeta vate mettendo in scena tutte le tappe dell’impresa fiumana arruolando molti cittadini calvi per interpretarlo, ognuno a suo modo, un’operazione che ricorda quella ancor più paradossale di Quentin Dupieux per il suo DAAAAAALI!. La campagna di D’Annunzio prende vita grazie alla partecipazione di centinaia di cittadini e l’aiuto delle oltre 10.000 fotografie che il poeta aveva fatto scattare per lasciare un ricordo ai posteri. Bevinović ricrea molte di queste immagini, incoraggiando un dialogo tra passato e presente e consentendo deliberatamente a elementi anacronistici di infiltrarsi nelle ricreazioni storiche, come nella sequenza in cui il signor Cico, uno dei D’Annunzio, imbraccia una chitarra elettrica per accompagnare la “Santa Entrata” a Fiume. Oppure le foto dei legionari reinterpretate da donne tatuate e uomini con in mano degli smartphone, con inquadrature simmetriche e colorate che ricordano momenti del cinema di Wes Anderson. O ancora un D’Annunzio che cammina tra gli ultras croati con cui scatta dei selfie.
Un documentario punk, satirico e grottesco. Spesso ripetitivo nei concetti e autocompiaciuto, una conseguenza del divertimento che cast e troupe hanno provato durante le riprese. Ma deridere il fascismo è, in particolare oggi, un doveroso atto di sabotaggio, soprattutto quando a farlo sono quegli “sporchi croati” che D’Annunzio tanto disprezzava. Con Fiume o morte!, Igor Bevinović dirige un film dal potere liberatorio con cui ha tentato di esorcizzare il passato complicato di un popolo che ha fatto parte di otto paesi diversi, senza mai perdere la propria identità, come testimonia la vivace festa di Carnevale nei titoli di coda.
Federico Rizzo, SentieriSelvaggi

18 febbraio 2025
L'erede: un ambiguo e provocatorio trattato sulle eredità familiari
Una sfilata di moda ripresa dall’alto col pubblico disposto a spirale mentre sfilano in passerella abiti e modelle. Inizia così L’erede, il nuovo film di Xavier Legrand (l’autore del durissimo L’affido, il suo film d’esordio vincitore di due premi alla Mostra del Cinema di Venezia 2017 e di due César) e l’idea del vortice, verso il quale qualcuno verrà catapultato, è subito manifesta.
Per Ellias Barnès (Marc-André Grondin), trentenne stilista parigino nato in Québec, è arrivata l’ora della consacrazione internazionale. Applausi e copertine, fascino e atteggiamenti dispotici per quell’uomo fuggito dal Canada e da un padre che non ha mai capito e mai più rivisto da 20 anni. Vita programmata, segretarie tuttofare ai suoi ordini e il Volo di Icaro di Matisse ad ispirare il prossimo servizio fotografico. Il cambio di rotta arriva proprio sul più bello, con la polizia che si presenta annunciando la morte di quel vecchio genitore. C’è da organizzare e presenziare al funerale e mentre la madre si è rifatta una vita a Miami con lo zio (ogni riferimento shakeaspeariano non è puramente casuale), ecco Ellias tornare a Montréal per quella che crede sia una tappa di passaggio obbligata e indolore. Non sarà così perché tra vicine di casa premurose e amici canadesi del padre dal fare sospetto, quello stilista che soffre di attacchi di panico e ha cancellato il passato, si troverà costretto ad affrontare una situazione da non rivelare (ricordate Parasite?) e che lo metterà di fronte ad un terribile segreto.
Thriller d’autore claustrofobico e spiazzante che esplora le pulsioni più nascoste dell’animo umano, L’erede- sceneggiato dallo stesso Legrand in collaborazione con Dominick Parenteau-Lebeuf a partire dal romanzo L’ascendent di Alexandre Postel- aggiorna la lezione di Hitchcock strizzando l’occhio a Chabrol e alla tragedia classica. Col risultato d’inchiodare lo spettatore alla poltrona tra dettagli rivelatori e comportamenti ambigui, atteggiamenti controversi, sottotesti carichi di significato e un colpo di scena finale che scatena il dibattito.
Claudio Fontanini, CineSpettacolo

11 febbraio 2025
Cosa si nasconde dietro un’opera d’arte? L'uomo di argilla di Anaïs Tellenne
Artista, opera e soggetto. È tutta una questione di sguardi. Ma cosa resta dello sguardo dell’artista che si è posato sul soggetto? Cosa si nasconde dietro un’opera d’arte? Sono queste le domande che si pone Anaïs Tellenne, al suo primo lungometraggio da regista. L’homme d’argile racconta la storia di Raphaël (Raphaël Thiéry), un uomo con un occhio solo e dalla statura imponente che lavora come custode di una maestosa villa disabitata. Prossimo ai sessant’anni, vive con la madre in una piccola casa nei pressi della villa. Le sue giornate scorrono tranquille tra la caccia alle talpe, la pratica con la cornamusa e le occasionali scappatelle con la postina. Durante una notte tempestosa si presenta inaspettatamente l’affascinante Garance (Emmanuelle Devos), l’erede della tenuta, nonché artista concettuale parigina.
Negli ultimi anni abbiamo imparato a conoscere la fisicità eccezionale e lo sguardo di ghiaccio di Raphaël Thiéry in Le vele scarlatte di Pietro Marcello e in Povere creature! di Yorgos Lanthimos. Un viso marcato nelle sue imperfezioni che può trasmettere tanto; malinconia, durezza, tenerezza. La regista sfrutta a pieno le doti naturali del protagonista per trascinarci nel suo immaginario prima umile e semplice, poi più complesso e stratificato. Raphaël non aveva mai conosciuto l’amore, forse non si era neanche mai posto il problema. L’arrivo di Garance squarcia l’equilibrio che si era creato permettendogli di affacciarsi sul mondo e osservarlo con uno sguardo nuovo, anche se incompleto. Garance riesce a vedere aldilà della superficie, scorge la sensibilità che si nasconde in quell’occhio umido e in quel corpo granitico, o meglio, argilloso. Se tutti gli altri abitanti del paese lo vedono come un golem, lei ci vede un “paesaggio”, anche se in tutta onestà la madre non riuscirebbe a vederlo su una cartolina. L’artista sente il bisogno di proiettare queste sensazioni su una statua di argilla che diventa ben presto oggetto feticcio/transazionale e rappresentazione fisica del loro legame.
Il rapporto tra musa e artista può essere davvero potente, soprattutto se, come in questo caso, lo sguardo si proietta dall’alto in basso in maniera totalmente disuguale. Nonostante la profonda sensibilità artistica di Garance, si tratta di due individui di estrazione socioculturale completamente diversa. Una distanza difficile da colmare. Il quesito che si pone la regista è lo stesso che ci si potrebbe porre quando si parla di cinema documentario o cinema del reale. Che effetto ha lo sguardo dell’autore sul soggetto ripreso? Cosa resta di questa dinamica di potere univoca soggetto/oggetto?
La regista gestisce in maniera impeccabile le fasi di innamoramento di Raphaël alternando campi medi e primi piani del suo corpo in trasformazione. L’homme d’argile colpisce ed emoziona nei momenti in cui il protagonista si mette realmente a nudo e si apre utilizzando la musica come mezzo di espressione. Capita raramente di osservare il percorso di un personaggio così complesso raccontato in maniera così toccante, senza dover fare uso di assurdi stratagemmi narrativi o improbabili svolte inaspettate. Si tratta di un film piccolo ma molto significativo, una scoperta piacevole e inaspettata.
Federico Rizzo, SentieriSelvaggi

11 febbraio 2025
Una viaggiatrice a Seoul: un po’ diario di viaggio, un po’ commedia surreale e un po’ storia di fantasmi
Come i precedenti In Another Country e La caméra de Claire, anche Una viaggiatrice a Seoul (a Berlino 2024 ha vinto l’Orso d’Argento, il quarto in carriera per Hong) consacra il connubio tra attrice e regista come tra i più interessanti nell’esplorare il rapporto tra motion ed emotion, movimento ed emozioni, nei termini di una corrispondenza che elegge le immagini a lingua franca con la quale comprendersi al di là delle parole.
Insegnante francese piombata a Seoul, Iris (cioè Huppert o viceversa) è misurata ed enigmatica: come una novella Alice (nella città), sa che per ritrovare se stessi non si può che viaggiare in terra straniera e si imbatte in una serie di incontri casuali che mettono in discussione la sua vita.
Questo percorso personale, sospeso tra diario di viaggio e commedia surreale, viene esaltato da una regia essenziale (poche scene, inquadrature fisse, movimenti minimi, fiducia nel digitale) che contempla la sua protagonista tenendola nascosta in piena vista. Come Huppert sfugge allo sguardo altrui come un fantasma, tiene le distanze dall’intimità, gioca con le aspettative altrui, così Hong ne sa evocare una dimensione quasi ectoplasmatica, eludendo le certezze quanto l’urgenza di offrire le risposte più semplicistiche (Iris esiste? Quel che vediamo è reale?).
Ennesima variazione del tipico minimalismo di un autore abituato a sottigliezze impercettibili, Una viaggiatrice a Seoul (A Traveler’s Needs, i bisogni del viaggiatore, nel titolo internazionale, più acuto e preciso) si prende i suoi tempi, trova la nitidezza di un racconto stratificato, illumina le cose della vita con la serenità di chi sa che c’è qualcosa oltre la superficie.

04 febbraio 2025
Conclave è un appassionante thriller morale
Il drammaturgo e sceneggiatore Peter Straughan non è nuovo al thriller. E neanche all’ambientazione ecclesiastica (suo il copione di Il debito, The Debt, di John Madden, 2010). Qui, nell’adattare il romanzo di Robert Harris, viene chiamato a unire entrambi questi elementi. Il risultato è un thriller del tutto particolare, che smoglia quasi più ai film di spionaggio degli anni della Guerra Fredda (sempre sua, del resto, la penna di La talpa, Tinker Tailor Soldier Spy, di Tomas Alfredson, 2011). Solo che qui gli avversari, i diversi gruppi, fanno tutti parte dello stesso establishment: ovvero la Curia romana e, nella fattispecie, il cardinalato. Sono i cardinali, infatti, provenienti da vari Paesi del mondo, a essere preposti all’elezione del nuovo papa dopo la morte o la rinuncia di quello in carica. Quest’assemblea, che può protrarsi anche per diversi giorni (se non ancora periodi ancora più lunghi), è detta appunto conclave: una pratica che risale a circa 900 anni fa. Cum clave, sottochiave: i cardinali, coordinati dal decano, di giorno si rinchiudono nella Cappella Sistina e la notte alloggiano nella vicina Domus Sanctae Marthae.
Nel film, il cardinale decano Lawrence (Ralph Fiennes) si trova a dirigere il conclave obtorto collo: la delega è giunta da parte del pontefice defunto, da lui molto amato, e non ha potuto rifiutare. E tuttavia è un uomo stanco e in crisi, la sua mente è piena di dubbi, vorrebbe lasciare l’ambiente della Curia per ritirarsi in un monastero. Più volte nel corso del film viene ribadito che la fede è alimentata dal dubbio. Le certezze assolute sono nefaste perché aprono le porte all’arroganza e al fanatismo. I dubbi invece rendono ancor più necessaria e costante la preghiera, mantengono umili. Conclave è un thriller morale. L’intrigo rappresentato è volto non tanto a scovare colpevoli (e cadaveri), come avviene ne Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud, bensì nello smascherare l’ipocrisia e la vanagloria di alcuni dei candidati al ruolo di nuovo papa, fra cui vi è lo stesso Lawrence. Il reazionario Tedesco (Sergio Castellitto), l’ambiguo Tremblay (John Lithgow), Adeyemi (Lucian Msamati), dal passato oscuro, e l’ultima aggiunta, il cardinale Benitez (Carlos Diehz), fresco di nomina, che ha vissuto in posti di guerra, sempre vicino alla gente che soffre. Ma Lawrence non ha dubbi sul personaggio che, personalmente, vuole sostenere: si tratta del cardinal Bellini (Stanley Tucci), uomo in apparenza probo e restio ai giochi di potere. Giochi di potere che però finiscono per coinvolgere tutti, anche gli elementi più impensabili. Il potere corrompe, l’ambizione divora. Coloro che pensano di essere i più degni sono di fatto i più indegni, e viceversa. Il regista Edward Berger cartografa gli interni del Vaticano (ricostruiti a Cinecittà, compresa la cappella più famosa del globo) come i prolungamenti contorti e oscuri dell’animo umano di coloro che dovrebbero, in teoria, servire Dio e la Chiesa, ma molto spesso finiscono per servire innanzitutto se stessi. La prospettiva del film è dunque laica, se vogliamo agnostica, ma non anticlericale. La focalizzazione interna passa attraverso gli occhi tormentati di Lawrence/Fiennes, stanco di cercare la purezza, o meglio, stanco di non riuscire a trovarla, non in quell’ambiente, dove arriva a sospettare persino delle persone che giudica più nobili, meno corrotte. Fino a dubitare persino di se stesso, quando gli viene suggerita la possibilità che la sua estrema riluttanza all’idea di diventare il prossimo pontefice sia in realtà essa stessa un atto di superbia, mascherata da umiltà.
Conclave è un film appassionante, venato di una sottile ironia e sprazzi di grottesco, con qualche concessione al distopico così in voga e oramai transgenere, nonché a questioni urgenti del contemporaneo come il femminismo (godibile la reprimenda pronunciata al cospetto dei prelati dall’umile suora interpretata da Isabella Rossellini). Un grande Ralph Fiennes come il suo personaggio, il cardinale decano Lawrence, guida un “conclave” di interpreti tutti all’altezza.
Vittorio Renzi, Quinlan

21 gennaio 2025
Il mio giardino persiano: il film più amato alla Berlinale 2024
Il mio giardino persiano (My Favourite Cake il titolo internazionale) della coppia registica iraniana formata da Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha è stato probabilmente il film più amato dalla critica e dal pubblico del Concorso della Berlinale 2024. Spiacevolmente, com’era successo l’anno scorso con Past Lives di Celine Song, la giuria ufficiale lo ha del tutto ignorato, preferendo aderire ad un’impostazione fortemente piegata alle logiche della politica dell’Autore. Purtroppo, My Favourite Cake non si allinea su tale canone, giacché Moghaddam e Sanaeeha adottano un approccio a favore del racconto e dei personaggi, nonché consciamente (e sorprendentemente) mirato alla riflessione socio-politica, piuttosto che alla glorificazione e all’imposizione di uno “sguardo” registico che dà forma e richiama a se stesso il portato dell’oggetto filmico. Tale modestia è però anche la ragione della riuscita di My Favourite Cake, della sua adorabile, quasi zuccherosa, affabilità, ma anche del suo doloroso retrogusto.
La protagonista del film è Mahin, una vedova settantenne interpretata con irresistibile verve e umanità da Lily Farhadpour. La donna vive sola da decenni in un bell’appartamento di Teheran, dedicandosi alla cucina e alle sue piante, visitando il mercato per fare le spese, sentendo la figlia immigrata all’estero tramite FaceTime e accogliendo le riunioni di un gruppo di affiatate amiche attorno al suo tavolo. Invitandoci ad una di queste irriverenti congreghe, i registi ci permettono di tastare il polso di un’intimità taciuta e rivelatrice: anche queste donne sole iraniane (significativamente ritratte in interni senza il velo, contravvenendo alle rigide regole della censura cinematografica locale) desiderano la presenza e l’affetto di un compagno.
Ed è proprio questo rinfocolato richiamo del cuore (e della carne…) a condurre Mahin verso il tentativo discreto, imbarazzato e persino impacciato di concedersi un incontro sentimentale che la faccia sentire desiderata e viva… Il fortunato prescelto e ‘disponibile’ è il tassista Faramarz, interpretato da Esmail Mehrabi, anch’egli in una prova estremamente accattivante.
Di qui diventa difficile rivelare di più, perché è essenziale scoprire la stratificazione di My Favourite Cake nel suo sviluppo, assaporandone il crescendo di coinvolgimento e le sue inattese increspature, ironiche e drammatiche. Sarà opportuno però dire di come ai registi sia stata negata la partecipazione alla Berlinale perché questo amabile (e amaro) film intenzionalmente vìola diverse prescrizioni imposte ai cineasti iraniani: si diceva delle scene in interni con le donne che realisticamente non portano il velo, ma ci sono pure una scena in cui Mahin difende una giovane colta in fallo dalla polizia morale per i capelli non coperti dal velo (sequenza da brividi che evoca direttamente il caso di Mahsa Amini) e momenti di inebriamento da alcol e di danza non ritenuti moralmente consoni.
Queste trasgressioni e il blocco che ne conseguono costituiscono un parallelo perfetto (e una conferma) nella vita reale alla toccante parabola cinematografica di Mahin: cercando di forzare i limiti della propria libertà alla ricerca di una felicità anche effimera, non può che scontrarsi con la dura e impietosa prigione di una realtà che tali libertà e felicità osteggia e non tollera.
Paolo Bertolin, Cinematografo

14 gennaio 2025
La stanza accanto di Pedro Almodóvar è il film sulla morte più vitale di sempre
The Room Next Door, Leone d’oro a Venezia 81, è un vitalissimo film sulla morte. Leggevo, e lo sentivo dire anche dopo la proiezione stampa al Lido, che è cupo, qualcuno diceva addirittura senile. A me pare tutto il contrario. Da qualche tempo, Almodóvar ha evidentemente avviato una riflessione – artistica e personale, si vedano i bellissimi dispacci dalla pandemia su El Diario – sulla fine. Sulle separazioni: dalle persone, dalla vita. Su quello che lasciamo indietro, e quello che forse non troviamo davanti. I corti The Human Voice (sempre a Venezia, sempre con Tilda Swinton) e Strange Way of Life. E Madres paralelas. E, prima di tutti, il citato, magnifico Dolor y gloria.
The Room Next Door è la prosecuzione obbligata, precisa, dolorosa e gloriosa su quella strada. È tratto da una storia non sua (il romanzo Attraverso la vita di Sigrid Nunez). È il suo primo lungometraggio girato in inglese, dopo un progetto abortito con Cate Blanchett dall’opera di Lucia Berlin. È un film doloroso, sì, ma mai dolente.
Ingrid (Julianne Moore), scrittrice che non riesce a fare i conti con la sua e nostra mortalità, viene a sapere che Martha (Tilda Swinton), una vecchia amica che non vede più da anni, ha un grave cancro. Va a trovarla in ospedale. Nasce un nuovo patto, tra due donne che amiche erano rimaste pure a distanza, e che si ritrovano ancora più vicine nella maturità, e nelle scelte che essa comporta.
Perché The Room Next Door non è un giallo, ma un po’ sì. È un noir verniciato di melodramma alla maniera anni ’40 che ad Almodóvar piace da sempre moltissimo. Qui anche di più, perché per la prima volta ha girato in America (ma gli interni sono ovviamente a Madrid), e sembra voler risagomare ancor più esattamente quel modo, quel mondo. C’è tanto cinema classico, da Buster Keaton a Lettera da una sconosciuta. Ci sono scale che portano a stanze segrete come in Vertigine di Preminger. Vestiti eleganti e lettere misteriose per davvero. Poliziotti impiccioni e travestimenti.
Ma, al cuore, questo film rimane un’indagine sulla fine, o su un nuovo inizio. Il centro di The Room Next Door resta l’amicizia tra due donne come raramente si è vista sullo schermo ultimamente. Non la sisterhood alla moda corrente: del resto, un paio di battute lasciano intendere che tante istanze di oggi, spesso solo di superficie, a Pedro non piacciono, o quantomeno non interessano; ma la relazione piena, rotonda, adulta fra due donne, e tutto quello che resta e che cambia.
Tilda Swinton e Julianne Moore sono due giganti (ma dai), soprattutto nel lasciarsi spazio a vicenda, nell’ascoltarsi, nel non divorarsi facendo a gara di gigionismi (entrambe sono, anzi, molto “tenute”). Non è, per intenderci, un “film di donne” nello stile dei melodrammi alla Eva contro Eva rieditati in chiave camp anche recente (da Diario di uno scandalo a May December i primi che mi vengono in mente).
E, nel suo umanesimo anche ambientalista, politico e morale, il dolorosissimo The Room Next Door riesce a restare un film pieno di luce. Quella di Hopper, e dei colori sempre accesi di Pedro, e della neve che, quando cade in questo film, è sempre rosa. E quello di una giacca gialla e di un rossetto rosso, per stendersi al sole ad aspettare.
Mattia Carzaniga, Rolling Stone

03 gennaio 2025
Vermiglio di Maura Delpero è un incanto
Vermiglio è un film dell’incanto, anche quando veicola esattamente l’opposto. È forse questo l’aspetto più sorprendente ed affascinante del secondo, notevole lungometraggio della trentina Maura Delpero, fresca vincitrice del Leone d’argento – Gran premio della giuria all’ultima Mostra del cinema di Venezia, il secondo premio per importanza nella gerarchia del palmarès. [...]
Film sul confine e dunque sul crinale. Sempre. Tra pace e guerra, quiete e tempesta, angoscia e serenità, inconscio e presa di coscienza, valli e vette, realtà e onirismo. Al centro c’è una famiglia dominata da Cesare, maestro di scuola, figura fondamentale della comunità e padre di una figlia e un figlio grandi, di due figlie e un figlio piccoli, di un neonato e due piccoli che non ce l’hanno fatta, Flavio e Giovanni. Cesare impera, austero, severo, ma non tirannico o violento, e tuttavia la regista è di una finezza micidiale nel farci cogliere per intero, senza alcun manicheismo, la dinamica dei meccanismi psicologici e sociali che si esprimono in primo luogo in famiglia, i quali – come in un orologio dal meccanismo perfetto – creano una condizione di prigionia sistematica, fisica e psicologica, per le donne, che non lascia praticamente spazio alla loro volontà.
Si sussurra tanto, si parla molto pacatamente, non si urla praticamente mai e Delpero, tra i vari miracoli che compie nel film, riesce a essere cruda sulla condizione della donna, senza togliere nulla alla delicatezza, a una dolcezza sommessa, che tuttavia non è mai sottomessa. E riesce, appunto, a non infrangere il fragile cristallo dell’incanto, che in tutta evidenza ha creato con grande cura e fatica, e che resta intatto fino alla fine, anche quando tristi e crude verità emergono sconvolgendo le vite, anche quando le piccole grandi guerre del quotidiano che sottotraccia si agitano sempre più deflagrano come una granata, se non come un colpo di cannone, in quell’ambiente innevato e raggelato.
Con modalità un po’ buzzatiana, il film mette la guerra fuori campo per meglio metterla in campo. Nel senso che il nemico che incombe sempre come terribile minaccia ma non arriva mai del Deserto dei Tartari, chiaramente un’entità astratta e metafisica, è un concetto che si presta a molte varianti. Un’altra recente è quella che Roberto Minervini ha messo in scena nel suo ultimo film, I dannati, una delle sorprese dell’ultimo Cannes: ambientato durante la guerra di secessione americana, il nemico resta sempre invisibile, anche quando affiora tra gli alberi con uno o più spari, per poi scomparire, come un’entità imprendibile. E incomprensibile. [...]
In quest’opera di complessa ricostruzione storico-antropologica, che Delpero ha scritto e diretto, non sorprende quindi la scelta di dialoghi in dialetto, anche per sottolineare che in Trentino o in Sicilia l’italiano era una magnifica lingua straniera. Quella che Cesare insegna a grandi e piccoli. Come la musica, altra sua grande passione. Personaggio articolato, contraddittorio, certamente denso grazie a uno straordinario Tommaso Ragno, anche se qui tutti e tutte sono di eccezionale bravura, consacrando così Delpero come grande direttrice di interpreti.
Francesco Boille, Internazionale