
04 giugno 2025
ARAGOSTE A MANHATTAN: una commedia ricca di divertimento, intuizioni folgoranti e risvolti politici
In ogni scena di Aragoste a Manhattan, superbamente diretto da Alonso Ruizpalacios, si percepisce una forza vitale impetuosa, a tratti esuberante, ma più spesso tesa verso il disastro o la violenza. Pensate a The Bear sotto l'effetto della cocaina e avrete un'idea dell'intensità sostenuta e della pressione latente di questa tragicommedia feroce su ciò che i clienti non vedono durante una giornata di lavoro in un affollato ristorante di Times Square. Lo sceneggiatore e regista messicano ha stile da vendere, come si evince dalle immagini inebrianti in bianco e nero, dal montaggio dinamico e dall'uso sorprendente della musica, che alterna jazz e solenni brani corali. [...] il film resta una visione avvincente sul tema dell'immigrazione come limbo infernale, in cui qualsiasi idea di comunità si rivela un’illusione. Nei suoi film precedenti Ruizpalacios ha dimostrato un'affinità sia con la Nouvelle Vague francese sia con l'eccentricità dell'indie americano, oltre a un occhio da documentarista per i dettagli. Il suo quarto lungometraggio reca tracce di tutte queste influenze, agganciate all’idea chiave di Thoreau della fatica come qualcosa di antitetico ai sogni, o persino alla vita stessa.
David Rooney, The Hollywood Reporter

29 maggio 2025
In ricordo di Sebastião Salgado torna al cinema Il sale della terra
Per rendere omaggio al celebre fotografo Sebastião Salgado, scomparso il 23 maggio scorso a Parigi all'età di 81 anni, torna al cinema il documentario IL SALE DELLA TERRA diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, candidato al premio Oscar 2015 come Miglior Documentario e Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes-Un Certain Regard.
Ispirato dalla potenza lirica della fotografia di Sebastião Salgado, IL SALE DELLA TERRA è un documentario monumentale che traccia l'itinerario artistico e umano del fotografo brasiliano attraverso gli sguardi incrociati di Wim Wenders - anch'egli fotografo - e di suo figlio Juliano che lo ha accompagnato nei suoi ultimi viaggi. Eroe del nostro tempo, viaggiatore irriducibile, Sebastião Salgado ha esplorato oltre 40 paesi. In ogni suo scatto, con l'uso inconfondibile e personalissimo del bianco e nero, ha condensato tutta l'umanità e l'anima della terra attraverso storie di lavoratori, migrazioni e povertà. Ha raccontato il rapporto tra uomo e l'ambiente, narrando con uno sguardo straordinario la bellezza della natura e cosa ne rimane oggi, nonostante distruzioni e cambiamento climatico. Per questo nel 2016 l'Accademia Francese delle Belle Arti lo aveva eletto "grande testimone della condizione umana e dello stato del pianeta".


Alternando la sua storia personale con le riflessioni sul mestiere di fotografo, nel documentario Salgado viene interrogato dallo sguardo fuori campo di Wenders e si racconta attraverso i reportage con cui ha omaggiato la bellezza del pianeta.
Comingsoon

27 maggio 2025
Fino alle montagne: un film fortemente sensibile che affronta il tema dello sradicamento e dei limiti umani
Dopo l’allegoria politica di Antigone, Sophie Deraspe adatta il romanzo autobiografico del vero Mathyas Lefebure, “D’où viens-tu, berger?”, e si confronta con i limiti della condizione umana di fronte all’indifferenza (e alla bellezza) della natura (…) L’evoluzione di Mathyas non sta tanto nel suo entrare in relazione con la natura – che rimane inospitale e dura per chi ingenuamente vuole farvi ritorno – quanto nel passare dalla solitudine alla condivisione. Se nella prima sequenza, leggendo una sua lettera a casa, il ricco pubblicitario canadese sembra imporre la sua volontà senza curarsi di chi lo aspetta (e nell’assolata Provenza non si discosta molto dal londinese in vacanza di Un’ottima annata), nel resto del film imparerà a prendersi cura di qualcuno -del gregge, naturalmente, ma soprattutto di Élise. E proprio quest’ultima, che passa dall’immaterialità della parola (molto bella la corrispondenza con Mathyas nella prima parte) alla certezza dei gesti, è in realtà la protagonista inattesa del film, bilanciamento necessario sia delle certezze sia dei dubbi della sua controparte maschile. La grande sensibilità di Deraspe, che ha scritto il film con lo stesso Lafebure, consiste soprattutto nel lasciare ai personaggi il tempo e lo spazio (tanto spazio, nelle splendide e selvagge alture della Provenza) di accettare i cambiamenti, attenta più ai dilemmi interiori e alle battaglie delle idee che all’evoluzione drammatica del racconto. Ciò che potrebbe essere scambiato per un problema del film – la sua durata estesa rispetto all’indefinitezza narrativa – è in realtà una forza, dal momento che a Deraspe interessa soprattutto il riflesso della natura sul corpo e la mente dei protagonisti…
Roberto Manassero – Mymovies

13 maggio 2025
Black Tea di Abderrahmane Sissako: un film che lavora sulla lunghezza d’onda delle emozioni
Aspettando la felicità: sono passati dieci anni da Timbuktu e Abderrahmane Sissako si ripresenta (in Concorso a Berlino 74) con Black Tea per definire un mondo in cui agli esistenti si offre la scelta tra la menzogna e l’essere felici, tra la verità dei sentimenti e l’accettazione delle convenzioni, [...] e dove il tema dell’emigrazione diventa lo spazio ideale per l’affermazione di un principio di autenticità dei sentimenti, prima ancora che la ricerca di uno spazio fisico ed economico vitale.
Ma questo è evidentemente un film che va dritto alla sostanza della questione: il diritto alla felicità come spazio di una conquista non individuale, ma trasversale, come condivisione di un sentire che deve appartenere a tutti, all’intera comunità che diventa quasi un corpo solido, unico e identitario, al di là delle etnie e delle culture. Sissako s’inventa quello che, se non fosse un luogo ben preciso come la provincia cinese di Guangzhou, con la numerosa comunità di africani immigrata negli anni ’90, potrebbe quasi sembrare uno spazio di fantasia: l’astrazione di un perimetro geopolitico in cui convivono idealmente africani e asiatici, in una mescolanza di culture e economie quasi irrealistica. [...]
Attorno brulica una vita che tiene insieme nel quartiere commerciale attività asiatiche e africane, in un sincretismo culturale che diventa la cifra espressiva e stilistica del film: tutto riluce di cromatismi e impianti scenici iperrealistici, in cui i giochi di riflessi smarginano i perimetri come a offrire un mélange visivo in cui lasciar confondere le forme. Tutto è immerso in una perenne notte che offre quasi una dimensione onirica all’intreccio di storie d’amore, di figure in cerca di serenità, dolcezza, felicità. [...]
Black Tea lavora sulla lunghezza d’onda delle emozioni, sulla distanza della visione d’insieme. E in quanto tale è un film che resta e che saprà dialogare col pubblico.

28 aprile 2025
Un esordio delicato e curato: La Fossa delle Marianne
Dopo la prima mondiale al Filmfest Hamburg 2024 e il riconoscimento come miglior esordio internazionale al San Diego International Film Festival, La Fossa delle Marianne è approdato in Italia come film di chiusura del Bolzano Film Festival 2025. Un percorso festivaliero solido per un’opera prima che cerca il difficile equilibrio tra intimità, dolore e narrazione. Il film dura appena 87 minuti, ma si prende tutto il tempo per scavare nei silenzi e nei non detti. Paula e Helmut si incontrano nel momento in cui le loro vite sembrano aver smarrito qualunque direzione. Lei è giovane, irrequieta, dominata da un dolore che si traduce in fuga e chiusura. Lui è un anziano misantropo e malato, che nasconde un lutto mai risolto. Il loro incontro avviene mentre lui cerca aiuto per dissotterrare la tomba della moglie, con l’intento di riseppellirla nel giardino di casa, come se la prossimità potesse colmare una distanza esistenziale. Eileen Byrne, regista lussemburghese al suo esordio, adatta il romanzo omonimo di Jasmin Schreiber con uno sguardo sincero e trattenuto, scegliendo una narrazione fatta di pause, piccoli gesti e sguardi che pesano. Paula ha dentro un abisso che la spinge a correre; Helmut un muro che lo tiene fermo. È nel contrasto tra questi due estremi che il film trova i suoi momenti più forti: non nella catarsi, ma nella resistenza, nella difficoltà a farsi comprendere, nella paura di lasciarsi vedere. Molto potente anche l’elemento narrativo del confronto col fratellino di Paula, con cui la protagonista dialoga costantemente: figura che sembra inizialmente il ricordo di una perdita, ma che finisce per incarnare la parte di sé che vuole riemergere.
Luna Wedler lavora sulla tensione del corpo e sull’inerzia dello sguardo. Paula è sempre in movimento, ma i suoi occhi restano fissi su un punto che nessuno vede. Edgar Selge, al contrario, è un corpo immobile che si consuma lentamente. La forza del film è tutta in questa dinamica: due solitudini che non si risolvono, ma si riconoscono, almeno per un attimo. Quando accade, non c’è retorica. Solo due persone che restano a galla, senza pretendere di salvarsi. [...]
Byrne filma la natura come spazio mentale: le Alpi, i laghi, la pioggia improvvisa, la luce tra i rami. La natura non consola, ma riflette. Non salva, ma accompagna. E quando il film si affida solo a questo – alla luce, al respiro, a un passo esitante – riesce a toccare corde più autentiche. La Fossa delle Marianne è un esordio delicato e curato, che lavora con sincerità su una materia emotiva fragile e profonda. È un film che sa ascoltare i suoi personaggi, che trova nei silenzi e nei gesti più piccoli la sua forza.
Giuseppe Sant'Elia, Nocturno.it

16 aprile 2025
Puan - Il professore: una tragicommedia a sfondo politico sul significato e la perdita degli ideali
Il film si concentra sulla storia della coppia di protagonisti, il professore goffo e idealista e il cinico orchestratore, di quella generazione che voleva cambiare il mondo mentre il mondo ha cambiato lei, quello che erano e quello che sono ora. E riflette anche il mondo dell'università pubblica di oggi, i suoi stereotipi (perché ce ne sono), le sue dinamiche interne, i suoi problemi, i suoi rapporti di potere, i suoi classici scontri tra ego, il suo sfondo politico e sociale, le sue nuove generazioni. Il "Puan" (il nome della famosa università che dà il titolo al film, pietra miliare dei movimenti studenteschi e rivoluzionari argentini) è anche una perfetta rappresentazione di ciò che è la vita, di come funziona, dei suoi alti e bassi, dei suoi conflitti, delle sue lotte e del suo disordine. Il film parla così dell'idealismo e della sua scomparsa, delle derive neoliberiste della società, del significato di ciò che facciamo, del perché decidiamo di dedicare il nostro tempo a una professione o a un compito (al di là del denaro), dell'importanza dell'istruzione, di ciò che ci separa e di ciò che ci unisce, della distanza e della coerenza tra pensiero e azione, delle apparenze e delle sorprese che la vita a volte ci riserva. [...]
Puan - Il professore è un film piacevole da vedere, divertente e impegnato allo stesso tempo, che funziona come commedia, dramma e cinema politico, cronaca di una sconfitta e della dignità che si può trovare in essa, e ancora una riflessione agrodolce sul significato e la crisi degli ideali, sugli alti e bassi del comportamento umano.
Júlia Olmo, Cineuropa

16 aprile 2025
Generazione romantica di Jia Zhang-ke
Il regista cinese ripercorre la coreografia infinita del suo cinema, l’amore tenuto a distanza, lo scarto abissale con il futuro, le immagini che mutano forma quando le vai a rivisitare.
Jia riavvolge il filo della relazione tra Bin (Zhubin Li) e la Qiaoqiao di Zhao Tao, personaggio ritornante delle sue immagini, e trasforma l’intera prima sezione di Generazione romantica in una playlist senza soluzione di continuità di scene di canto, di ballo di gruppo, di karaoke, di danza, prese dai suoi film precedenti, da Still Life a Al di là delle montagne o I figli del fiume giallo: è vero, possiamo giurare di riconoscere ogni fotogramma, ogni vertigine che ci viene restituita dal ritrovare queste istantanee di una poetica, ma allo stesso tempo è come se il nostro rapporto con questa materia si stesse rinnovando davanti ai nostri occhi, nell’istante stesso in cui il suo autore la va rivisitando – è quello che accade puntualmente con i movimenti di macchina di Jia, con il rapporto che instaurano con il paesaggio e le masse di corpi che lo abitano, c’è sistematicamente quell’istante in cui il tuo sguardo vaga alla ricerca del fulcro di quanto sta accadendo sulla scena, un abissale secondo di smarrimento prima di “agganciare” il senso (accade qui anche al robot con cui Zhao Tao imbastisce un irresistibile e struggente sketch di riconoscimento esistenziale nel centro commerciale).
Sta tutta in quello scarto l’operazione di Generazione romantica, perché di film in film Jia Zhang-ke ha raccontato passato, presente e futuro della sua Cina, e questa rimessa in gioco a distanza ravvicinata di quanto filmato da Unknown Pleasures in poi si trasforma anche in un attraversamento di formati di ripresa e dell’inquadratura, urbanizzazioni forzate, automazioni sociali, orizzonti che da rurali (e low budget) diventano hi-tech, o meglio fanno convivere entrambe le vedute sullo sfondo: nella coda che rappresenta l’apporto inedito al progetto, il cineasta s’immerge nel racconto della quotidianità da pandemia, col distanziamento, le mascherine, le sanificazioni.
Sergio Sozzo, SentieriSelvaggi

15 aprile 2025
Noi e Loro: Vincent Lindon, Delphine e Muriel Coulin e un film sui sentieri della vita
Ogni grammo di esperienza, di mimica e gestualità, ogni goccia di talento purissimo, è qui al servizio di una narrazione poggiata tutta sulle stanche ma ancora possenti spalle dell’interprete francese che nei panni caratteriali di Pierre padre affettuoso, danneggiato e premuroso, si muove come bilanciere esistenziale tra le vite dei suoi figli: Louis e Fus, opposti, agli antipodi, nelle cui vene scorre lo stesso sangue ma tutto sembra indicare una natura estranea. Uno pacato, gentile, attento e studioso; l’altro caotico, violento e ribelle sino a rasentare la follia. Eppure – e da qui la scelta di parole del titolo italiano Noi e Loro – uniti più che mai contro chi gli è contrario. Ci sono gli Hohenberg e poi il resto del Mondo.
Ma non solo, perché lo sviluppo del racconto intessuto dalle Coulin ne permette un’ulteriore valenza semantica. Noi e loro sono anche le due facce antitetiche della nostra società: i liberali e i populisti. Chi semina accoglienza, amore e comprensione, e chi aggressività, odio e rabbia violenta. Da qui la sempre più arcuata forbice valoriale tra i due fratelli che della narrazione di Noi e Loro è il cuore emotivo. Vite opposte quelle di Louis e Fus portati in scena da due eccellenti Crepon e (soprattutto) Voisin, ma entrambe risposte decise ad un trauma come può essere la perdita di una madre in tenera età. È un film sui sentieri della vita quello delle Coulin, su scelte e decisioni e sulle conseguenze delle nostre anche più insignificanti azioni. [...]
Noi e Loro è certamente un film che merita un occhio di riguardo. Una visione che arricchisce.
Francesco Parrino, Hotcorn

08 aprile 2025
Mickey 17 di Bong Joon-ho è una straordinaria satira spaziale
I film di Bong Joon-ho sono mondi. Ognuno contiene una varietà e una complessità di relazioni paragonabile a quella che le serie TV snodano in dieci episodi. Ogni personaggio ha una sua personalità complicata, né buono né cattivo, pieno di lati oscuri anche se ha le migliori intenzioni. Ogni svolta nella storia è motivata da qualcosa che ci è stato detto prima, ogni snodo narrativo è perfettamente coerente con il resto dei fatti. Questa non è solo buona scrittura, nei suoi film sono dettagli che emergono dalla regia, realizzata con un occhio attento alla narrazione visiva, perché ciò che la scrittura non riesce a dire ci viene comunicato dalle immagini. E di nuovo, anche in Mickey 17, presentato alla Berlinale 2025 e ora in sala, ce ne sono di pazzesche.
A partire da una delle prime, che dice tutto: un corpo umano esce da un macchinario come un foglio esce da una stampante, facendo un po’ avanti e indietro e con un rumore simile. È la massima forma di replicabilità che conosciamo, quella della fotocopia, e ha il minimo valore: il foglio stampato che si può accartocciare perché tanto se ne fa un altro uguale. Questo è Mickey, uno scemotto, che per sfuggire ai debiti sulla Terra ha accettato di imbarcarsi su un’astronave insieme a milioni di altre persone, dirette verso un nuovo pianeta da colonizzare. A differenza dei furbi, lui ha firmato senza leggerlo un documento che lo imbarca come "sacrificabile": la sua mente viene mappata e così il suo corpo. Potrà svolgere i compiti più rischiosi e testare veleni o cure, perché può morire all’infinito e poi essere ri-stampato come nuovo. Il problema nasce quando una sua versione, la 17, non muore divorata da creature aliene come tutti pensano e, tornato alla base, incontra il suo doppio, la versione 18.
La prima cosa eccezionale di questo film di grandissima fattura è l’interpretazione di Robert Pattinson, il protagonista. La maniera in cui caratterizza l’essere un sempliciotto con un eterno sorriso non ha nulla di banale. Non è l’espressione serena di qualcuno che è onestamente un cuor contento, ma quella di chi non sta capendo proprio tutto e se lo fa andare bene perché teme le conseguenze. È la cifra del film che, come spesso accade in quelli di Bong, racconta il modo sprezzante in cui le élite perpetuano il loro status, sfruttando i più poveri. In questo futuro distopico nessuno difende uno scemo e ignorante come il protagonista dai contratti violentissimi delle multinazionali. Nessuno previene che venga circuito e usato non solo come un oggetto, ma come l’ultimo degli oggetti. Il più replicabile. Un’altra idea magistrale è che questi nuovi corpi vengano prodotti a partire dai rifiuti peggiori.
Per gli appassionati della filmografia di Bong Joon-ho, siamo in un punto intermedio tra Okja e Snowpiercer, tra la satira sociale e la fantascienza, tra l’adorazione per le creaturine un po’ mostruose e l’allegoria della stratificazione sociale, della leggerezza e dell’incompetenza che regnano nelle grandi organizzazioni umane (spesso nel film viene sottolineato quanto tutti siano poco attenti e poco dediti al lavoro). A capo di tutto c’è un terribile leader, interpretato dal solito mirabile Mark Ruffalo (con la medesima dentierona che aveva Tilda Swinton in Snowpiercer e una parlata da Trump), che vive nel lusso, promettendo a tutti un domani migliore che, in realtà, non è in grado di garantire. La storia è quella della fondazione di una nuova civiltà e afferma quanto la creazione della nostra società, nel corso dei secoli, sia stata possibile proprio attraverso meccanismi di sfruttamento e massacro dei molti senza diritti da parte dei pochi potenti. E questo è un atto di violenza inaccettabile in un film pensato per far arrabbiare, per indurre alla rivolta.
Gabriele Niola, Wired

01 aprile 2025
La città proibita, il nuovo film di Mainetti è un miscuglio di generi che sa intrattenere
La tigre e il cuoco, Kung Fu all’amatriciana, Grosso guaio a Piazza Vittorio, Kill Bill all’Esquilino. Si può rinominare in tanti modi, tutti giusti, La città proibita, terzo film di Gabriele Mainetti che dopo Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out continua a sorprendere il pubblico con un film del tutto inaspettato. [...]
Che Mainetti fosse abile a realizzare film spettacolari lo sapevamo, questa volta firma una commedia d’azione che lascia spazio al romanticismo e si diverte a esagerare con un revenge movie che cita Quentin Tarantino e John Carpenter e omaggia il cinema di arti marziali. Non dimentica di restituire uno spaccato sociale curioso, quello di una Piazza Vittorio multietnica, dove italiani e cinesi coabitano con altre culture. «Roma ti entra dentro, qui tutto è permesso e niente è importante. In Cina niente è permesso e tutto è importante», ricorda il capo della malavita cinese Mr. Wang, che si intenerisce solo nel guardare il figlio rapper. Due famiglie a confronto, tra canzoni d’annata e botte da orbi, omicidi cruenti e piatti al tè verde preparati con amore.
La città proibita nel suo miscuglio di generi è un film caleidoscopico, ambizioso e risulta innovativo, ma saprà dividere: chi ne godrà appieno, finendo per tifare per la supereroina Mei e intenerirsi nel finale, e chi lo bollerà come un giocattolone ibrido poco riuscito. Una cosa è certa: tra mosse di arti marziali e pasta all’amatriciana, violenza efferata e fughe d’amore, non annoia mai.
Claudia Catalli, Wired