20 dicembre 2022

Fairytale: il nuovo, affascinante e complesso film di Sokurov

Era il film più atteso del Festival di Locarno ed è diventato molto presto uno dei più discussi, chiacchierati e interpretati al termine delle prime proiezioni: “Fairytale” di Aleksandr Sokurov è arrivato come un ufo all'interno del cartellone svizzero, creando ampi dibattiti e riflessioni. Non poteva che essere altrimenti di fronte alla nuova opera di uno degli autori più significativi degli ultimi decenni, regista di capolavori come “Madre e figlio” del 1997 o “Arca Russa” del 2002, oltreché Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2011 per un altro film meraviglioso come “Faust”.

Si apre con immagini dal sapore sublime e allo stesso tempo inquietanti, questo lungometraggio in cui l'autore fa rivivere personaggi del ventesimo secolo come Winston Churchill, Adolf Hitler, Iosif Stalin e Benito Mussolini. Queste figure principali della narrazione si trovano all'interno di una sorta di inferno monocromatico, con riferimenti alla Divina Commedia e alle relative illustrazioni di Gustave Doré.Ci sono anche apparizioni di altri personaggi come Napoleone e Gesù in quest'opera profondamente politica, che usa il passato per parlare del presente, in cui Sokurov torna a trattare il tema del potere e delle dittature dopo aver già dedicato a questi argomenti diversi lungometraggi (tra cui si può citare “Moloch”, un agghiacciante e potentissimo ritratto, sempre su Hitler, datato 1999).

Se la narrazione è indubbiamente ostica e può dare adito a qualche perplessità, priva di sbavature è invece un'estetica semplicemente meravigliosa, tanto per gli effetti visivi quanto per le scelte fotografiche. Alla base c'è una scelta a dir poco complessa da realizzare, in cui le vere immagini dei dittatori e dei leader politici i sono state “ritagliate” e inserite all'interno di un contesto scenografico dal taglio profondamente originale e persino sperimentale. Sokurov ha sempre presenti numerosi riferimenti pittorici (Caspar Friedrich è uno dei nomi principali di “Madre e figlio”) e anche qui non mancano possibili ispirazioni che spaziano da Goya all'arte sacra. La “fairytale” di Sokurov ha un finale ben poco fiabesco e incantato, ma è l'ennesima pellicola di un mosaico di film semplicemente unici e sempre capaci di sorprendere.

Andrea Chimento, Il sole24ore

20 dicembre 2022

La Palma d'oro Triangle of sadness al carbone

Se vi piacciono i film misurati e compatti, Triangle of Sadness (Palma d'oro a Cannes 2022) non fa per voi. Squilibrato, esagerato, prolisso, come già il precedente, premiato The Square. Ma più di quest’ultimo, pieno di motivi interessanti, a partire da una riflessione, articolata e non banale, sul tema del denaro. Il dislivello della nostra società ha ispirato, negli ultimi anni, più di un cineasta, basti pensare ad opere come Parasite o Un altro mondo.

Il contributo all’argomento di Östlund passa attraverso la sua predilezione per la provocazione, le situazioni vagamente imbarazzanti, per i personaggi come per gli spettatori. Qualche volta a produrre il disagio sono i dialoghi, come quello iniziale, dove un ragazzo che ha pagato la cena alla fidanzata prova a chiedersi, e a chiederle, perché è così scontato che a tirare fuori la carta di credito sia sempre l’uomo. Ovviamente la discussione degenera in litigio, il che permette al regista di introdurre il tema centrale del film, nella fattispecie il condizionamento sociale determinato, sin nei rapporti di genere, dal denaro. In altre sequenze la dimensione provocatoria è  affidata alla presenza di corpi comici, ovvero eccessivi, quindi destinati a uscire fuori di sé: è il caso dell’episodio della crociera – la quintessenza di un mondo piramidale, con i ricchi (i passeggeri) in cima e i poveri, verrebbe da dire la servitù (camerieri, cuochi, ecc.), in fondo – che degenera in un’apoteosi finale di merda e vomito.

Östlund piace l’idea di ribaltare il mondo, di vedere capovolte le sue gerarchie economiche; alla malinconia di Brizé, a sua volta ossessionato da una visione marxista della società, sostituisce l’amore per la dissacrazione, lo sberleffo irriverente di chi, messo l’universo  a testa in giù , poi si diverte a guardare gli effetti. Esemplare al riguardo la parte conclusiva, ambientata su un’isola dove sono finiti i malcapitati superstiti della crociera. E dove va in scena il gioco della rivincita degli oppressi, della supremazia di chi le cose le sa fare su chi invece è sempre e solo stato abituato ad ordinare agli altri di farle. Anche in questo caso, in un contesto di irriverenza suprema, dove a prevalere è una ironia feroce, acida, soprattutto nel raccontare la sparizione del rapporto di solidarietà fra gli scampati al naufragio, corroso dalle dinamiche del potere. Si ride, durante la visione del film di Östlund, ma sono risate tutt’altro che liberatrici, la catarsi bloccata dalla consapevolezza che il mondo di Triangle, per quanto ritratto con note grottesche ed estreme, per quanto popolato da figure caricaturali, è pur sempre omologo al nostro: e in quanto tale, scandito sui tempi e i modi della ricchezza, dell’autorità e della sopraffazione.

Leonardo Gandini, Cineforum

20 dicembre 2022

Un racconto d'epoca, sullo sfondo della moda di Christian Dior: La signora Harris va a Parigi

Non è la prima volta che il romanzo "La signora Harris" (1958) di Paul Gallico viene tradotto in audiovisivo: avvenne già con un film per la tv In volo per un sogno (1992), interpretato da Angela Lansbury. Questo La signora Harris va a Parigi, diretto da Anthony Fabian, si fa forte di un'accuratissima messa in scena all'altezza della sala e letteralmente da Oscar (production design di Luciana Arrighi, costumi di Jenny Beavan), per recuperare lo spirito di un racconto classico, dallo svolgimento tanto ottimista quanto prevedibile: le radici di un "feel good movie" da manuale sono incarnate da una protagonista che mette d'accordo tutti. Dolce quanto basta a non trasformare la sua decisione in arroganza, decisa quanto basta a non rendere la sua dolcezza una passività. Più che una donna, Ada è l'equilibrio incarnato, che non a caso unisce mondi agli antipodi, aprendo gli occhi a quasi tutte le persone che incontra, ed è in grado anche di svelare involontariamente i caratteri reali della gente, sotto la facciata. Citazioni filosofiche nei dialoghi rendono esplicita quest'interpretazione. [...]

Ada è il simbolo di un cambiamento epocale nella cultura di massa: la rivendicazione di un benessere, di un tempo libero da dedicare al bello, da parte del proletariato, che nel film si vede scioperare per rivendicare i propri diritti. L'apparizione di Ada avvia la necessità della riproducibilità di un abito firmato, poco prima esclusiva "opera d'arte". È la concessione del bello al più ampio pubblico possibile: è il tema sorridente che regge La signora Harris va a Parigi. Si tratti di un viaggio a Parigi, di un abito di Dior o dell'invito di un marchese, non viene mai messo in dubbio nel film che la finestra su questa bellezza possa essere un'illusione. Il punto è che tutti abbiamo diritto a quell'illusione.

Domenico Misciagna, Comingsoon

09 dicembre 2022

Un nobel in circolo: Simonetta Bitasi presenta il documentario Annie Ernaux - I miei anni super 8

Sabato 10 dicembre alle 17:30, in collaborazione con Rete Bibliotecaria Mantovana e Associazione Filofestival, la proiezione del film Annie Ernaux - I miei anni super 8 sarà preceduta da Un Nobel in circolo, presentazione corale della scrittrice francese condotta da Simonetta Bitasi assemblando impressioni, pareri e commenti raccolti tra i gruppi di lettura delle provincia di Mantova che in questi anni si sono appassionatamente dedicati ai suoi libri.

07 dicembre 2022

I misteri del giardino di Compton House

E' nel 1982 che il talento di Greenaway si impone al grande pubblico e all’attenzione della critica con "I misteri del giardino di Compton House", murder mystery secentesco ambientato in un bucolico e idealizzato Wiltshire. Sfruttando gli stilemi tipici del racconto giallo, il regista gallese confeziona un barocco pastiche audiovisivo che si pone nel contempo come indagine sul concetto di proprietà, come espressione cinematografica di una Weltanschauung prospettivista e come originale manifesto per un’idea di cinema innovativa, ispirata ai canoni dell’estetica postmoderna e post-strutturalista. [...]

Il film esemplifica quindi un’estetica post-strutturalista: perennemente proteso oltre l’intreccio, si pone come autocosciente indagine sui rapporti strutturali che legano realtà e rappresentazione, amore e interesse, produzione artistica e logiche di mercato, denunciando nel contempo la natura parziale e limitata di ogni interpretazione del reale. Ogni verità è relativa, ogni visuale prospettica. Perciò si comprende bene come Mr. Neville, pittore-scienziato che si impegna a "riprodurre il mondo fedelmente" e "si applica con ogni sforzo a non distorcere e non dissimulare mai", sia destinato allo scacco dal principio. I rogue elements che infestano il giardino (il paio di stivali, la scala, la camicia) sono le invariabili eccezioni che violano la regola. E nella proliferazione virulenta di tali segnali, riconosciamo i capricci di una realtà recalcitrante, che rifiuta di piegarsi al metro cartesiano del protagonista. Nel mondo di Greenaway, sistemi o codici di ogni sorta sono sogni inadeguati, fantasie, velenose illusioni. Il pensiero categorico sembra rendere il mondo più comprensibile; Greenaway ritiene che esso lo distorca, forzandolo in schemi innaturali. [...]

"I misteri di Compton House" è il primo lungometraggio in cui Greenaway integra i bizantinismi dei precedenti cortometraggi ("A Walk Through H", "Windows", "Intervals", "Dear Phone") in un codice lineare che pure cela, sotto il velo dell’intreccio, divergenti e molteplici rimandi. Si comprende dunque perché il film costituisca una pietra miliare del cinema moderno: gettando un ponte oltre la narrazione, esemplifica e precorre il carattere enigmatico dei successivi, coinvolgendo lo spettatore in un perpetuo gioco di rimandi, allegorie, allusioni e inventari. Parte della critica si è chiesta dal principio se la poetica di Greenaway corrispondesse allo sterile divertissement di un erudito oppure al prodotto di una sincera vocazione artistica. A dar retta a Gadamer ("The Relevance of the Beautiful", 1986), i due eventi non sono in contraddizione, poiché l’esperienza estetica si configura in primo luogo come pratica dialogica che cattura il fruitore e lo sfida all’inesauribile gioco dell’interpretazione. Ecco spiegato perché i giardini di Compton House, dopo quasi quarant’anni, rappresentano per noi ancora oggi una fonte di incommensurabile fascino, insondabile mistero.

Rudi Capra, Ondacinema.it

05 dicembre 2022

Nessuno deve sapere di Bouli Lanners

Bouli Lanners è uno degli artisti cinematografici belgi più versatili dell'ultimo ventennio, in grado di destreggiarsi in ruoli comici così come in parti inquietanti in cui dà anima e corpo a personaggi davvero ai limiti. Ma, e lo ha dimostrato già dirigendo tre interessanti film, un regista di talento, autore di tre film interessanti, se non proprio belli, come Eldorado road (2008), Un'estate da giganti (2011), e Les premiers, les derniers (2016). Questa sua ultima fatica, intitolata Nobody has to know (in Francia, ove è appena uscito in sala, "L'ombre d'une mensonge") si presenta come un raffinato e trattenuto thriller dell'anima e del cuore che, attraverso una sorta di rinascita obbligata che la drammatica circostanza richiede al nostro sfortunato protagonista, permette di far luce su una comunità isolata sia dalla natura, sia dalla propria riservata etica morale. La stessa che spinge una donna per troppo tempo soggiogata e costretta in un ruolo sacrificale, ad escogitare un suo piano per poter uscire dal ruolo che le regole severe del luogo le hanno costruito addosso, privandola di ogni libertà ed emozione di vivere. Lanners dirige con professionalità una sorta di giallo psicologico che sonda tra i comportamenti rigidi ed inflessibili di una società racchiusa ostinatamente in se stessa, pregiandosi di una ambientazione e di paesaggi naturali mozzafiato che ben si contestualizzano a rappresentare una società fuori dal tempo e dalle frenesie di un mondo al contrario decisamente globalizzato. E il volto interdetto dai molteplici interrogativi che lo colgono, quando il protagonista (reso molto bene dallo stesso Bouli Lanners, attore di comprovata versatilità come accennato sopra) si (ri)scopre addosso un corpo incastonato di tatuaggi a lui - momentaneamente in condizione di amnesia totale - completamente ignoti, diventa il simbolo di un film denso di misteri, ma allo stesso tempo pacato e impegnato a concentrarsi sulle singole sfaccettature interiori dei suoi due protagonisti e di qualche altro personaggio di contorno, piuttosto che concedersi sfacciatamente alle regole della suspence e del thriller.

Alan Smithee, FilmTv.it

24 novembre 2022

Torna in sala Fitzcarraldo di Werner Herzog rimasterizzato in 4K

Uno dei film più folli mai realizzati, e non potevano che realizzarlo Werner Herzog e Klaus Kinski. Folle in primo luogo perchè ha richiesto per la sua realizzazione uno sforzo immane, esattamente come quello narrato nella storia: due morti, un numero imprecisato di feriti, quattro milioni di euro bruciati nella produzione (per pagare i quali Herzog si dovette impegnare praticamente tutto), tre anni di lavorazione in mezzo alla giungla. In secondo luogo folle perchè a causa, o forse per merito, della sregolatezza di Kinski e di una sceneggiatura claudicante risulta un film grottescamente disunito, disomogeneo, ma proprio per questo immensamente affascinante. Fitzcarraldo narra la storia di un uomo che vuole costruire un teatro d’opera in una cittadina sperduta nella giungla amazzonica per rendere omaggio al suo grande mito: Caruso. Fitzcarraldo è un viaggio dentro l’anima di questo personaggio che, come per una sorta di processo osmotico, si identifica e si fonde con il suo magistrale interprete: Klaus Kinski. I suo sforzi titanici per portare la cultura in mezzo al nulla diverranno parte integrante di questa piccola grande epopea. Il suo grande sogno si identifica in un’immensa cattedrale nel deserto, un’opera a se stante, costruita per rendere omaggio ai grandi della lirica senza alcun legame con l’ambiente circostante. Per realizzare il suo sogno non esiterà a far transitare una barca per il trasporto del Caucciù in un vasto tratto collinare nel bel mezzo della foresta amazzonica. Le scene in cui gli indios e la ciurma lavorano con argani e carrucole per trainare l’immenso scafo in cima alla collina sono emblematiche della caparbietà umana avvinta ad una surreale follia. Capolavoro di Werner Herzog e famelica interpretazione di Kinski. Scena memorabile: Fitzcarraldo che, superate le avversità, al suo arrivo si erge sulla tolda della nave facendo risuonare le note di Bellini con il suo grammofono.

filmalcinema.com

23 novembre 2022

Una voce fuori dal coro, il potere salvifico dell’arte e un ritratto di famiglia al maschile

Un talento scoperto per caso, che può trasformarsi in una speranza di riscatto, e le giornate difficili di un adolescente in una famiglia composta da quattro fratelli maschi che combattono, ognuno a modo suo, per tenersi uniti, andare avanti e prendersi amorevolmente cura della madre in coma. “Un voce fuori dal coro” è il delicato film d’esordio del regista francese di origine italo-spagnola Yohan Manca, ispirato da un'opera teatrale di Hédi Tillette de Clermont-Tonnerre. Protagonista assoluto della storia, nei panni del giovane Nour è Mael Rouin-Berrandou, l’insegnate di canto che scopre il suo talento è interpretata da Judith Chemla, e i fratelli di Nour da Dali Benssalah (Abel), Sofian Khammes (Mo), Monchef Farfar (Hedi). [...]

Il regista ci porta a osservare le dinamiche di una famiglia composta da quattro giovani maschi feriti, eppure amorevoli e determinati ad andare avanti uniti, capaci di dedicarsi con dedizione quotidiana alle cure della madre malata come di azzuffarsi ferocemente per sfogare tensioni e frustrazioni. Lo sguardo di Yohan Manca è quello di Nour e della sua età, in bilico tra un precoce disincanto e la voglia di credere nella promessa di un futuro diverso, che si fa più vivida attraverso la scoperta di una passione. E’ uno sguardo delicato, aperto e puro, che non giudica. Non censura errori e difficoltà, ma li racconta dall’interno del contesto, senza indulgere ne patetico ma alla ricerca semmai di frammenti di poetico, limitandosi a guardare le vite dei fratelli con l’interesse e l’ atteggiamento benevolo e premuroso con cui il ragazzino li guarda a distanza seduto su un muretto, mentre loro si sfidano e si affannano, come tutti i ragazzi del mondo, per afferrare, almeno, la gioia minima e fugace della vittoria in una partitella di calcio sulla spiaggia.

Valentina Di Nino, Today.it

23 novembre 2022

Con Telefono Rosa contro la violenza sulle donne

Il cinema del carbone e le volontarie di TELEFONO ROSA MANTOVA in collaborazione con l'Assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Mantova, in occasione della giornata contro la violenza sulle donne propongono la visione del film NON CONOSCI PAPICHA di Mounia Meddour Gens.

Ambientato nell'Algeria degli anni Novanta, il film racconta una realtà ancora attuale: quella del fondamentalismo religioso, della respressione cieca, dell'ottusità di chi mira a mettere a tacere la forza vitale delle donne per renderle sudditi obbedienti da gestire a proprio piacimento.

La proiezione a ingresso libero per la cittadinanza di giovedì 24 novembre alle 21.15 sarà presentata dalla presidente di Telefono Rosa Avv. Paola Mari e dalla vicepresidente di Telefono Rosa Valeria Biondani.

09 novembre 2022

Un anno, una notte

Lo struggente, pluripremiato film di Isaki Lacuesta Un anno, una notte sbarca al carbone dal 10 novembre 2022.

Racconto struggente e tutto sulla pelle di chi c’era quella sera del 13 novembre 2015 quando dei terroristi islamici spararono sulla folla che ballava nel locale. 130 morti, centinaia di feriti e la tragedia di chi si è salvato raccontato in questo magnifico film presentato alla scorsa Berlinale e dal 10 novembre nei nostri cinema, interpretato da due attori che vi lasceranno senza parole, Noemi Merlant e Nahuel Pérez Biscayart, e diretto dal pluripremiato Isaki Lacuesta.

Un film che non è la cronaca di una tragedia e neppure semplicemente il suo ricordo. Non è un intreccio di testimonianze romanzate e neppure semplicemente una collana di flashback. Non la storia di una coppia e di ciò che può diventare dopo un trauma. Ma tutto questo insieme in sapienti frammenti a comporre il racconto di sentimenti di vita, di morte e di sopravvivenza che frullano i pensieri di una coppia all’indomani della tragedia del Bataclan.