18 maggio 2023

Peter Von Kant: François Ozon omaggia il cinema e la Petra di Rainer Fassbinder

A più di vent’anni di distanza da Gocce d’acqua su pietre roventi Ozon torna a omaggiare il cinema di Rainer Fassbinder, questa volta in maniera più esplicita ribaltando al maschile le dinamiche e i ruoli de Le lacrime amare di Petra Von Kant grazie ad un’intensa prova di Denis Ménochet.[...]

Che Peter Von Kant sia un omaggio diretto al film di Fassbinder del 1972 è dichiaratamente comprensibile sia dal titolo che dalla storia, qui riletta da una prospettiva maschile e non più femminile. Ozon però non ha deciso di rendere omaggio soltanto a Le lacrime amare di Petra Von Kant, ma la sua è una celebrazione a tutto tondo dell’opera e del cinema fassbinderiano, più ancora che in Gocce d’acqua su pietre roventi. Each man kills the things he loves (qui cantata nella sua versione tedesca) da Querelle del 1982, ultimo film del regista tedesco prima della morte prematura, diventa così una canzone manifesto di Peter Von Kant che racchiude perfettamente in sé la struggente contraddizione del personaggio omonimo interpretato da Denis Ménochet. Rispetto a Fassbinder però Ozon lascia sullo sfondo l’ironia dai tratti tragici, e viceversa, della pellicola originale preferendo invece giocare sui tic e sulle idiosincrasie del protagonista e caricandoli allo stremo. [...]

Ma nonostante alcuni cambiamenti formali e strutturali Peter Von Kant è cinema di Ozon allo stato puro; le ossessioni di Ozon per il corpo, il sesso, il tradimento (amoroso e intellettuale) e il passare impietoso del tempo rimangono salde, saldissime. Tanto più che qui, ancora più che nei film passati, la carica erotica del giovane Amir e quella decadente di peter sono centrali in un certo senso all’interno del racconto, perché alla fin fine ciò che interessa a Ozon è filmare la decadenza e il sacrificio. [...]

Denis Ménochet diventa Peter Von Kant, gli dà forma e stazza, lo riempie di dolore e di non detti e si fa carico delle sue mille contraddizioni, dei suoi difetti e delle sue fragilità. La parabola diegetica e tematica dell’intero lungometraggio non potrebbe però svilupparsi senza un comprimario all’altezza, qui quasi un antagonista, ovvero l’Amir interpretato dall’altrettanto convincente Khalil Gharbia. È però la meravigliosa Isabelle Adjani a prendersi completamente la scena, sia nel primo che nel terzo atto del film, perché la sua Sidonie è esattamente il tipo di personaggio a cui Ozon può dare colore e profondità senza risultare troppo caricaturale e artefatto.

Daniele Luciani, Spettacolo.eu

15 maggio 2023

Lynch/Oz, un imprescindibile documentario per meglio comprendere l'opera lynchiana

Lynch/Oz sorprende e appassiona. Il regista Alexandre O. Philippe, che apre il sipario sul film come un mago lynchiano, annunciando il titolo, affida infatti il compito di indagare sul rapporto tra Il Mago di Oz e il cinema di David Lynch a sei cineasti, che in molti casi hanno scritto e diretto cinema di genere, in ogni caso non mainstream: Rodney Ascher (autore del documentario Room 237 su Shining), John Waters, Karyn Kusama, il duo Justin Benson-Aaron Moorhead (V/H/S: Viral) e David Lowery. Sono loro a esporre, nei sei capitoli - Vento, Membrane, (spiriti) Affini, Moltitudini, Judy, Scavare - di quello che appare come un saggio critico visuale, l'influenza del Mago di Oz non solo sull'opera del regista, ma anche sul cinema americano dei suoi coetanei, che hanno visto più volte il capolavoro di Fleming da bambini ogni volta che veniva riproposto in tv, cogliendone inizialmente solo il lato di fiaba colorata e ottimista, e man mano che crescevano il lato oscuro, quello che la cortina delle tende colorate cela allo sguardo umano e che è la porta su un altro mondo, i mostri, le streghe e il male che Dorothy è costretta ad affrontare per tornare a casa.

Lynch/Oz si espande attraverso le parole di questi autori fino a diventare una disamina del cinema tutto e della società americana, e di un periodo simbolico come gli anni Cinquanta, un'epoca scintillante nell'immaginario come il mondo di Oz che registi come David Lynch e John Waters rielaborano in modo originale, rappresentando la nostalgia come il bel tappeto sotto il quale si nascondono la polvere, gli insetti e anche qualcosa di peggio, il cuore nero del sogno americano. Non tutti i contributi sono di pari livello, ma aprono nuovi sguardi su opere mostrate spesso in split screen nella loro originale bellezza, facendo nascere nello spettatore dipendente da quel mondo alieno il desiderio di rivederle, ancora e ancora. Nessun film di David Lynch resta fuori da questa analisi, nemmeno il vituperato Dune, perché la fiamma accesa dal Mago di Oz e lo stesso destino della sua interprete, l'infelice Judy Garland, ha fatto divampare la fiamma creativa, vero e proprio imprinting artistico, in un uomo tanto sensibile e profondo, dotato del dono della necessaria leggerezza e dello sguardo puro in grado di contrastare il male.

Daniela Catelli, Comingsoon

03 maggio 2023

Creature di Dio, quando l'omertà diventa orrore

L’Irlanda delle contraddizioni ritorna dopo L’isola degli spiriti di Martin McDonagh, con una storia rurale esile ma efficace, fatta di sguardi e silenzi, che increspa l’anima e fa riflettere come le onde del mare riflettono la realtà alterandone le forme. Nel film, Brian (Paul Mescal) fa ritorno a casa dopo diversi anni di permanenza in un luogo imprecisato dell’Australia, destabilizzando gli equilibri familiari, soprattutto quelli della “mamma chioccia” Aileen (Emily Watson) che dovrà mentire per salvaguardare l'incolumità del figlio.

Sebbene si capisca dalle prime battute la traiettoria tracciata dalla sceneggiatura, la regia prende strade non convenzionali. Saela Davis e Anna Rose Holmer dimostrano di possedere la giusta sensibilità per mettere in scena il contesto socio/culturale di un piccolo e sperduto villaggio di pescatori che - qui sta il primo di una lunga serie di paradossi - non hanno mai voluto imparare a nuotare. Per gli uomini del villaggio il mare rappresenta tanto la vita quanto la morte e i cui pericoli non intendono approfondire, né fare tesoro delle risorse messe a disposizione dalla natura. Tradizione che diventa allegoria.
Il villaggio fa da sfondo alla vicenda ma è così importante da diventare esso stesso un personaggio, con le sue zone d'ombra e i panorami spettrali, fotografato come se fosse un luogo dell'orrore e del mistero. In effetti, il film scava a fondo nell'animo umano e nella morale di una mamma, costretta a scegliere tra integrità e amore, tra verità e menzogna senza soluzione di continuità.

Vuti Sugameli

28 aprile 2023

L'ultima notte di Amore: Pierfrancesco Favino e l'aspirazione all'onestà

È così difficile essere onesti nel mondo di oggi? Se lo chiede Andrea Di Stefano nel suo ultimo film L'ultima notte di Amore, presentato nella sezione Berlinale Special Gala del festival tedesco. Un ragionamento che poggia sulle spalle interpretative solide di Pierfrancesco Favino e prende la forma di un film di genere, quasi un omaggio a un certo cinema italiano degli anni '70, per raccontare un momento preciso della vita e carriera del poliziotto Franco Amore, in procinto di andare in pensione.

Pierfrancesco Favino conferma la solita bravura nel mettere in scena la lotta interiore del personaggio, i suoi dubbi, il suo dolore nell'affrontare le difficoltà che gli si parano davanti. Intenso e solido come sempre, capace di elevare la dimensione narrativa di un film che è costruito attorno alla sua figura importante e centrale. [...]

A fare da sfondo e grande tentazione per L'ultima notte di Amore c'è una Milano che non è quella "da bere" della movida e degli aperitivi, ma un labirinto di opulenza e tentazioni, un'icona di una vita che molti dei suoi abitanti non possono raggiungere. Andrea Di Stefano ce ne mostra le luci sfavillanti in riprese notturne di grande impatto, valorizzate dalla splendida fotografia e il valore aggiunto di aver girato in pellicola. Una scelta produttiva importante che viene valorizzata dalla visione su grande schermo e rappresenta una ulteriore motivazione per prediligere la visione in sala.

Antonio Cuomo, Movieplayer

27 aprile 2023

Il debutto alla regia del premio Oscar Bong Joon-ho: Cane che abbaia non morde

Bong all’esordio convoca alcuni archetipi: il condominio ballardiano, quel microcosmo osservato alla lente che brulica di figure stralunate, deformate o grottesche; il gusto per il racconto che si traduce in puro piacere dell’affabulazioine, come dimostra la lunga storia della leggenda metropolitana esposta nelle cantine; il personaggio dell’uccisore di cani che, come insegna la dottrina di John Douglas, primo profiler dei serial killer, potrebbe essere uno psicotico in erba perché si inizia sempre dall’ammazzare piccoli animali. E poi, come detto, c’è la società coreana che già vent’anni fa è molto lontana dall’immagine idilliaca che vuole trasmettere, o che vorrebbe silenziare non parlandone. Se l’ambiente universitario del protagonista è di base corrotto, come metonimia del mondo del lavoro che stronca ogni merito, d’altra parte anche il palazzo è un condensato del divario di classe, e qui sta la vera anticipazione di Parasite. La divisione radicale tra ricchi e poveri, tra piani alti e bassi, con un essere che vive sottoterra tra cunicoli e tubi, suona oggi da presagio per il film che vincerà l’Oscar. Così come l’indagine fatta in casa per scoprire il responsabile è il neonato della vasta detection impossibile di Memories of Murder, per molti il capolavoro del regista. D’altronde è normale che, come spesso avviene, un trentenne ponga i semi nel debutto a basso budget per poi farli germogliare in ampie volute nelle opere successive. Giusto così. Cane che abbaia non morde è quindi una commedia grottesca, con punte nel thriller e nell’horror, a dimostrazione che il cinema di Bong nella sua giovane mente era già un melange, un’unione di generi tutti mediamente scuri e crepuscolari.

Emanuele Di Nicola, Nocturno

18 aprile 2023

Vera, ritratto tra il vero e il falso di un personaggio sopra le righe

Nonostante le apparenze, Vera è una donna che rispecchia il suo nome: non sa fingere, non vuole farlo, si racconta candidamente tra fantasia e realtà nei suoi problemi di figlia di un uomo famoso e idolatrato, con la convinzione di non essere mai all'altezza, coi problemi con gli uomini derivanti da un complesso di Elettra schiacciante, la consapevolezza di non essere riconosciuta per le proprie qualità ma spesso considerata solo come riflesso della gloria altrui. Tutto questo è comune a molti figli d'arte, soprattutto donne, che non si sono sentite accettate perché messe sempre di fronte a un paragone impossibile. Le più fragili (e noi ne conosciamo un paio) si sono fatte del male, altre, come Vera, si sono trasformate fisicamente. In risposta a una famiglia in cui essere brutti era considerato un peccato mortale, lei ha cercato in ogni modo di somigliare a un trans, che considera un ideale di bellezza, un femminile costruito ad arte che con l'esasperazione delle sue caratteristiche (il seno, le labbra, gli zigomi) cancella spesso le tracce originali del volto, i supposti difetti fisici (fa tenerezza che a un certo punto Vera e la sorella Giuliana vedendosi bambine in vecchi film casalinghi si chiedano perché si siano rifatte il naso, che andava bene com'era). [...]

E poi ci sono gli altri, la gente del popolo, i borgatari, quelli nel cui mondo Vera entra camminando - prendiamo in prestito il titolo dell'autobiografia di Holly Woodlawn, la superstar di Andy Warhol - “coi tacchi alti nei bassifondi”, un po' Candide, un po' Pinocchio, colma di amore e ingenuità, destinata a essere ferita ma felice, finché può fare del bene a una piccola famiglia di San Basilio (dove avevano già ambientato La pivellina, luogo dai lontani richiami pasoliniani). Sono molto belle e credibili le sue interazioni col ragazzino orfano, Manuel, con suo padre e con la nonna. Persone con vite ai margini, alla cui semplicità, Vera, che non rinuncia mai agli stivali, al cappello, alle pellicce e alle lunghe extension biondo platino, si adatta di buon grado. Non le costa nessuna fatica passare dalle boutique di lusso dove acquista scarpe glamour ai supermercati di quartiere, per comprare gli addobbi per festeggiare il compleanno della nonna o sedersi a tavola con loro a mangiare pasta e fagioli, perché è intrinsecamente convinta della bontà degli uomini. Capisce la sofferenza perché l'ha provata, sia pure nella sua vita di privilegiata, cerca l'amore e l'affetto che viene frainteso e spesso tradito da gente troppo disperata per non approfittare di un'occasione tanto ghiotta.

Eppure, Vera è molto intelligente, sensibile e colta. Dietro i suoi occhi bistrati si cela un mondo, una malinconia profonda e la consapevolezza che probabilmente verrà ferita ancora una volta e nessuno la aiuterà. E' straordinaria nell'interpretare questa versione di se stessa, Vera Gemma, ed è più che giustificato il premio che ha ottenuto per il ruolo, alla Mostra del cinema di Venezia nella sezione Orizzonti. Ancora una volta, Covi e Frimmel sono riusciti a mostrarci l'umanità autentica di un personaggio che loro stessi, inizialmente, avevano guardato con sospetto, ma di cui hanno poi conosciuto e ci hanno fatto scoprire la profonda bellezza interiore.

  Daniela Catelli, ComingSoon  

18 aprile 2023

Mixed By Erry: Sydney Sibilia, tre fratelli e la nostalgia di un sogno a tutto volume

Mixed by Erry, nel raccontare del più (im)perfetto sogno italiano, vede Sibilia vestire e colorare Napoli di una luce nuova, diversa – e come dovrebbe essere sempre – lasciando la camorra lì, sullo sfondo, come fosse una presenza muta e discreta, appena percettibile, per dare via libera ad una storia di passione e speranza, di voglia di lasciare un segno nel mondo, in bilico tra sogni a occhi aperti e dura realtà, tra I Love Radio Rock, i film di John Carney come Sing Street e anche qualcosa dell’ascesa di Blow. Sempre con il volume al massimo, ovviamente, ma non per fare soldi o diventare miliardari, ma per vivere quello che si ha nel cuore: «Perché per noi questa storia è una storia di fratellanza, un’avventura di ragazzi che si vogliono bene, una storia di famiglia che si sostiene e che non è avida, non campa per i soldi, ma solo per vivere…».

Mixed by Erry parte così da una digressione temporale per poi riavvolgere il nastro raccontando di ascesa e caduta di un’impresa impossibile, un po’ leggenda metropolitana un po’ storia vera. Al centro del racconto, un atto creativo illegale ma legittimato dal contesto, tutto avvolto da una narrazione vivace e giocosa, di buon ritmo, resa da un Sibilia ispirato tra una ricostruzione storica accurata e colorata e dialoghi incalzanti che ci ricorda – o fa scoprire, dipende dall’età – la magia delle compilation/mixtape, o delle musica capace di dire parole impossibili da pronunciare. Molto prima di Spotify, molto prima di TikTok e dei social. E a tal proposito, accanto alla canzone di Liberato che chiude il film, Mixed By Erry propone (ovviamente) una compilation degna del miglior Guardiani della Galassia. Qualche esempio? I Want You Back dei Jackson 5, Relax dei Frankie Goes to Hollywood, It’s Tricky dei Run-DMC, E Mo e Mo di Peppino di Capri, Quello che le donne non dicono di Fiorella Mannoia, Sweet Dreams degli Eurythmics, Dog Eat Dog dei Adam & The Ants e nientemeno che Fade to Grey di Visage, a conferma di come: «I DJ possono nascere pure a Forcella».

Non ultimo il comparto attoriale, perché se è vero che il trio dei fratelli Frattasio (D’Oriano, Arena e Palumbo) è sorprendente e dall’avvenire promettente, oltre ai genitori Cristiana Dell’Anna e Adriano Pantale (e attenzione al divertente cameo di Raiz degli Almamegretta), è quando le cose si fanno difficili per Mixed by Erry che entrano in scena anche due pesi massimi: Francesco Di Leva e Fabrizio Gifuni, che si mettono in gioco e alzano irrimediabilmente la posta per la gioia dello spettatore, tra ristoranti di pesce di Milano, festival di Sanremo e scudetti del Napoli. In altre parole? Un’opera sopraffina, un film da non perdere e di cui godere al cinema, e poi in streaming, insomma, basta che non sia piratato. Anche se a riguardo forse Erry avrebbe qualcosa da dire…

Francesco Parrino, Hotcorn

12 aprile 2023

RINVIO VISITA GUIDATA AI GIARDINI DUCALI - NUOVA DATA 27 APRILE

!!! ATTENZIONE !!! La visita guidata ai Giardini Ducali (evento di Cultura alle quattro e un quarto) a cura di Alkémica Cooperativa Sociale onlus prevista per giovedì 13 aprile è RINVIATA A GIOVEDI' 27 APRILE, sempre alle 16.15 (con ritrovo in Piazza Pallone alle ore 16).

05 aprile 2023

L’appuntamento di Teona Strugar Mitevska è un film da non perdere

Forse è vero che talvolta sarebbe meglio dimenticare, come suggeriva provocatoriamente Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri. Quando un conflitto è ancora fresco – e trent’anni durano un soffio, inutile negarlo – a sopravvivere non sono soltanto i reduci militari e civili, ma tutto il livore che la guerra porta con sé. In molti casi, chi ha combattuto le guerre jugoslave degli anni Novanta è ancora giovane, e lo stesso vale per chi ha perso la famiglia, vedendo distrutta la propria casa e la propria città. Il rancore personale per quanto successo, ben più intenso di qualunque attrito ideologico, sussiste tutt’oggi anche fra concittadini, persino fra vicini di casa: una realtà piuttosto comune a Sarajevo, melting pot etnico-religioso fra i più eterogenei d’Europa.

Non è la città di Teona Strugar Mitevska, nativa invece di Skopje, ma la regista macedone vede la capitale bosniaca come una sintesi di tutti i conflitti socio-culturali dei Balcani, e quindi come teatro ideale per la sua storia (peraltro ispirata a una vicenda realmente accaduta). La protagonista de L’appuntamento è Asja (Jelena Kordić Kuret), quarantacinquenne che partecipa a uno speed date per accontentare le richieste di sua madre, o almeno così dice. Accoppiata con il quasi coetaneo Zoran (Adnan Omerović), la donna ne resta piacevolmente intrigata, ma durante la prima attività succede qualcosa di strano: mentre rispondono a una serie di domande per conoscersi meglio, diviene sempre più chiaro che Zoran nasconde un segreto, e più che l’amore sta cercando il perdono.

Accade allora che lo speed date si trasformi in una grande elaborazione del lutto, tanto personale quanto collettiva. L’appuntamento – in originale The Happiest Man in the World, titolo che restituisce meglio la natura paradossale del film – compatta un processo estremamente complesso tra le quattro mura di un hotel brutalista, eredità del passato jugoslavo, intersecandolo con i riti surreali dell’evento romantico: una trovata davvero brillante, estranea a qualunque retorica melodrammatica, che trasfigura una circostanza “frivola” in un passaggio cruciale nelle vite dei personaggi.

Teona Strugar Mitevska lo gestisce quasi come se fosse una pièce teatrale, con atti ben distinti che corrispondono alle varie attività dello speed date, e momenti che si avvicinano alle dinamiche del teatro-danza. Anche l’apice drammatico della storia funziona come una messa in scena, un rito catartico di purificazione. Se la cineasta individua la chiave di questo processo nel rapporto tra i corpi, sfiorati nel corteggiamento o straziati in una spaventosa allucinazione bellica, Asja può solo esplodere in un ballo da estasi dionisiaca tra gli adolescenti di Sarajevo: ovvero, quella generazione che non ha vissuto la guerra, e che è destinata a seppellirne gli antichi rancori. Torna in mente la scena finale de Il corsetto dell’imperatrice, con la sua danza di libertà dalle convenzioni e dallo sguardo maschile. Asja balla tra le donne e gli uomini del futuro, mentre cerca di scrollarsi dalle spalle il peso del passato.

Lorenzo Pedrazzi, Screenweek

03 aprile 2023

Innamorata dello spavento: FEDERICA FRACASSI in dialogo con Nicola Arrigoni

Lunedì 3 aprile ale 21.15 tornano i Dialoghi di teatro contemporaneo con protagonista Federica Fracassi: Interprete sensibile alle nuove drammaturgie, votata a scritture visionarie, feroci, poetiche classiche e contemporanee, fin dagli esordi disegna un percorso indipendente nel panorama del teatro di ricerca. Attrice, ma anche lettrice, autrice e curatrice è protagonista di innumerevoli produzioni della compagnia Teatro i, fondata, insieme all’omonimo spazio, con Renzo Martinelli.

In teatro lavora, tra gli altri, con Valerio Binasco, Valter Malosti, Antonio Latella, Motus, Luca Micheletti, Sonia Bergamasco, Andrea Chiodi, Veronica Cruciani, Pier Lorenzo Pisano, Andrea Baracco. E’ protagonista di percorsi scenici articolati in più spettacoli dedicati alla scrittura di Antonio Moresco, Massimo Sgorbani, Giovanni Testori, Henrik Ibsen. Tra le esperienze cinematografiche più significative spicca la sempre rinnovata collaborazione con il maestro Marco Bellocchio. Ha ricevuto numerosi premi tra cui: Menzione d’onore e Premio Eleonora Duse, Premio Ubu, Maschere del Teatro Italiano e Premio Hystrio 2021 all’interpretazione.

Foto di Dirk Vogel