
30 marzo 2023
La maman et la putain è il film più bello del mondo
Uscito per la prima volta nel 1973, il diamante nero di Jean Eustache torna in sala cinquant'anni dopo, come nuovo, in una superba versione restaurata e dentro un abito tagliato su misura per le immagini che lo abitano. Le notti parigine ritrovano la loro profondità e gli appartamenti i loro 'falsi giorni', il loro calore e la loro penombra.
Le nuove generazioni avranno finalmente accesso a un film incredibile, un fantasma le cui incursioni nel nostro mondo erano così rare (la registrazione di un passaggio notturno su un vecchio VHS o la trasmissione su Arte in occasione della morte di Bernadette Lafont), che bisognava essere davvero appassionati o attenti per non mancarlo. E nel tentativo di ricordare dove lo abbiamo visto la prima volta, La maman et la putain ci appare come un altro pianeta in cui abbiamo voglia di abitare. Un mondo che era già straniero ai suoi contemporanei, nel film ascoltiamo Édith Piaf, non gli Stones. Girato ad altezza del suolo, come un film di Ozu, ci inchioda alla poltrona, emotivamente intatto dopo decenni passati nell'ombra, seppellito sotto le macerie dello scandalo, della censura, della mistificazione, della scomparsa di Catherine Garnier e del suicidio di Jean Eustache.
Il titolo, crudezza a parte, potrebbe essere quello di un mélo ma le cose sono più complicate di così, perché la maman (Marie) non ha figli, giusto un amante che nutre e mantiene, e la putain (Veronika) "scopa tutti gli uomini che può" per piacere, non per profitto. Dal titolo restano esclusi l'uomo che crea il legame, Alexandre, e Gilberte, la vecchia fiamma sfumata per sempre. Non si tratta quindi della storia più vecchia del mondo, vecchia quanto il cinema almeno e quanto l'Aurora di Murnau, quella di un uomo indeciso tra due donne e tentato dall'illecito. La questione per Eustache non è sostituire una coppia con un'altra ma fuggire l'idea stessa della coppia per un'utopia sentimentale infinitamente estensibile. Il risultato non cambia, l'impossibilità dell'amore è dietro l'angolo, l'inestricabilità della relazione uomo-donna in un letto posato a terra.
Alla vertigine dell'infedeltà, succede l'ossessione dell'impegno, il film comincia e si chiude con due domande di matrimonio, e il disco (ri)suona un vecchio refrain. Come in Le due inglesi, dove Jean-Pierre Léaud interpretava già il terzo lato del triangolo, i vecchi demoni, i sentimenti vivi e le gelosie sopravvivono e "fanno male". Soprattutto nella Parigi di Eustache, dove uno più uno non si sommano mai. Né per una coppia, né per l'altra. Ci sono solo solitudini nel film che dimorano separate dal montaggio, come se uomo e donna non potessero convivere nella stessa immagine. Quando succede, la camera da letto diventa un campo di battaglia, un teatro di operazioni belliche. Se i café di Saint-Germain sono luoghi di incontro, lo spazio domestico è un luogo di scontro dove la parola, più che altrove regna sovrana. Bisogna ascoltare, ascoltare tutto, bere ogni dialogo con whisky e Pernod.
In La maman et la putain la parola è la forma, la trama, il colpo di scena, lo straripamento che nasconde il vuoto riempito sovente da una canzone suonata per intero da un giradischi. Alexandre, che ha le carte in regola per essere una canaglia, parla come un libro, ogni opinione è una citazione, ogni confessione una negazione per sottrarsi, perché è meno osceno mascherare il cuore che metterlo a nudo. Gli aforismi del dandy, che contrastano il silenzio, rimbalzano sulle parole vere e crude di Veronika, che grida la sua esistenza. In un lungo piano fisso che non lascia scampo e va dritto al cuore, confessa il suo amore o forse chiede aiuto. Françoise Lebrun si abbandona completamente alla camera e a un monologo travolgente sulla mancanza di consistenza della vita, in cui tutto si mescola, sesso e amore, desiderio di maternità e morte, mascara e lacrime.
In questa epopea (deliberatamente autobiografica) del sentimento amoroso, Eustache filma relazioni che non smettono di ramificare, si interroga sulla coppia, la sua necessaria evoluzione, l'amore libero, la parità uomo-donna, il desiderio femminile, il dolore di stare al mondo. Guardiani del fuoco e di quel testo mostruoso, la sceneggiatura conta 300 pagine, i suoi attori aggiungono un accento singolare: la folgoranza Nouvelle Vague di Jean-Pierre Léaud (Alexandre), l'aura bressoniana di Isabelle Weingarten (Gilberte), l'opacità renoiriano di Bernadette Lafont (Marie) e la ieraticità di Françoise Lebrun (Veronika), metà Falconetti, metà Demazis. Praticamente una carta geografica del cinema francese.
Come nessuno, il film fiume di Eustache mette in scena il disincanto degli orfani del '68, spettri che si sfiorano senza scaldarsi, cercando rifugio in un'erranza parigina piena di insolenza o in certe ore pallide della notte, tra le lenzuola sgualcite di Jean-Pierre Léaud o nella fibra letteraria dei loro monologhi. Spalancato sull'amore e sul diritto della donna a condurre la propria vita come desidera, questo triangolo equilatero che "beve, fuma, scopa" e parla, seguendo il desiderio di geometria di Serge Gainsbourg, dispiega la parola femminile e deflagra il nostro piccolo mondo confuso, coi suoi punti di riferimento ancestrali perduti e nessun sentimento per la memoria. In quel flusso infinito di gesti e di parole, anche la crudeltà e il bisogno di ferire hanno il loro posto, perché tutto in Eustache è terribilmente e meravigliosamente umano. A (ri)guardarlo oggi, il suo modello incandescente, che non si comportava bene con le donne e praticava il 'nullismo', non avrebbe potuto insegnare il savoir-vivre alle nuove generazioni, ma che invidia il suo gusto arrogante del caos...
Marzia Gandolfi, Mymovies

21 marzo 2023
Miracle: la potenza dei sogni
Vincitore della24ma edizione del Far East Film Festival e del Gelso d’Oro è il sudcoreano Miracle: Letters to the President di Lee Jang-hoon, una toccante favola moderna tra commedia e dramma che coinvolge e travolge, un po’ come il treno senza stazione del film, con la forza e la perseveranza del giovane protagonista Jun-gyeong (un incredibile Park Jeong-min).
Seppur romanzata, la storia narrata nel film si basa su un episodio reale: la costruzione di una piccola stazione ferroviaria nell’isolata campagna coreana per iniziativa privata. Siamo in un piccolo villaggio della provincia del Gyeongsang del nord, nella Corea centrale, dove non ci sono strade ed il treno non ha fermate; l’unico modo per arrivarci è un lungo cammino lungo le rotaie, tra tunnel bui e ponti sospesi sul fiume, un dantesco girone dei dannati per anime incolpevoli che punisce con la morte ogni minima disattenzione o una semplice sorte avversa. È qui che vive Jun-gyeong, genio in erba della matematica, con il padre (macchinista spesso assente da casa) e la sorella Bo-gyeong; testimone sin da bambino di terribili incidenti, il giovane coltiva il sogno di costruire una stazione ferroviaria per il proprio villaggio, che permetta agli abitanti un viaggio sicuro. [...]
Miracle: Letters to the President è un inno al potere dei sogni; con grazia e delicatezza, Lee Jang-hoon tratteggia la storia ed i suoi protagonisti facendoli vibrare di passione, che sia inespressa o palesata, raccontandola altresì con immagini suggestive ed evocative ma con tocco leggiadro, coinvolgendo empaticamente lo spettatore sia nel dramma che nella commedia; non mancano infatti, nella equilibrata costruzione della narrazione, momenti di commozione intrecciati con altri di candida comicità, di cui memorabile rimarrà il saluto finale di Jun-gyeong e Ra-hee sulle note del Tempo delle Mele, quella Reality di Richard Sanderson che proprio in quegli anni faceva sognare i giovani adolescenti di tutto il mondo.
Michela Aloisi, CineClandestino

09 marzo 2023
Argentina, 1985: la parola alla giustizia
Torture, sparizioni, spari e morte: è un manto funereo, di un nero profondo, quello che ha coperto per cinque, lunghissimi anni, l'Argentina durante il mandato dittatoriale di Jorge Rafael Videla. Una parentesi dolorosa, che brucia come una ferita aperta, ma che il regista Santiago Mitre lascia ai confini del fuori campo. Nessuna riproposizione visiva di quegli anni; a rivivere sullo schermo sono solo i suoi ricordi, lasciando che siano gli spettatori, con la forza della propria immaginazione, a colmare quelle falle narrative. È nella portata mnemonica dei testimoni chiamati a processo, e delle parole impresse su documenti di archivio, a immergere il pubblico nello spazio-tempo di quegli anni, recuperando un senso di violenza e ingiustizia sociale inaudita, eppure costantemente pronto a ripetersi, in parti diverse del Mondo. Seguendo le fasi salienti del maxi-processo con a capo il procuratore Julio Strassera, Mitre riesce a redigere il proprio saggio storico, svestendo la propria opera di tratti finzionali e romanzati, per abbigliarla di un vestito di fattura documentarista. Una scelta sottolineata dall'inserimento di immagini restituite sotto forma di falsi estratti televisivi, tali da elevarne la portata storica, ed esacerbare quella presa in prestito da momenti altri, realmente accaduti, che fanno del proprio film uno sguardo diretto sul passato. Un'apertura dei cassetti mnemonici di carattere nazionale, mai compiuta con fini prettamente didattici, ma semplicemente dimostrativi, affinché il sangue dei padri non venga rigettato su quello dei figli. La nazione come grembo materno, e la famiglia come parte della nazione. È così che l'Argentina viene restituita in senso ideale, tanto dalla propaganda, che dagli scarti di raccordo che uniscono le varie sequenze di Argentina, 1985. Esiste un legame stretto, inossidabile, che unisce ogni cittadino al proprio paese; un rapporto ancor più profondo se a infondere vita all'opera è la figura di un uomo di giustizia come il procuratore Strassera.
Elisa Torsiello, Movieplayer

07 marzo 2023
Perché Disco Boy è un colpo di fulmine
Presentato alla Berlinale, unico film italiano in concorso, ha vinto l’Orso d’Argento per il Miglior Contributo Artistico per la fotografia (meravigliosa) di Hélène Louvart. La domanda d’obbligo quindi adesso è una sola: ma com’è Disco Boy di Giacomo Abbruzzese? Un film potente, potentissimo, figlio del miglior cinema contemporaneo, che mischia le derive digitali di questo storytelling visivo in un calderone di esoterismo, luci al neon, sonorità elettroniche e rimandi alla Nuova Hollywood. [...]
Franz Rogowski è il militare bielorusso Aleksei, un moderno Walter Kurtz in questa versione elettronica di Apocalypse Now. Rogowski è il protagonista assoluto, in fuga da una nazione fascista, salvato da metodi militari poco ortodossi, che si reinventa eroe e risale il Delta del Niger in un viaggio anche (e soprattutto) interiore alla ricerca di un vero scopo, lontano dal suo cuore di tenebra. A fare luce sul suo viaggio ci pensano le soluzioni visive che Abbruzzese adotta, che ai più ricorderanno il cinema di Nicolas Winding Refn (soprattutto nei momenti meditativi e di transizione silenziosa), ma che in realtà sono molto più vicine all’arte contemporanea e digitale: c’è una lotta sul pelo dell’acqua vista attraverso la visione termodinamica che richiede anche un grande sforzo di immedesimazione da parte dello spettatore.
Non è un caso che molta di questa deriva artistica venga poi collegata ai temi più esoterici e tribali di questa corrente, preponderanti anche nella parte centrale del film, che mischia il destino di Aleksei con quelli dei fratelli Jomo e Udoka (Morr Ndiaye e l’artista ivoriana Laëtitia Ky, fantastica), due facce della stessa medaglia: uno cerca il riscatto a partire dalla riconquista della propria territorialità, in lotta col moderno colonialismo; l’altra – più vicina ai sentimenti di Aleksei – è alla ricerca di una rivalsa in un luogo altrove, così da conquistare la propria individualità perché sconfitta da quei contesti che le hanno dato i natali. Questo luogo “altro” è, infine, la pista da ballo: nello specifico quella di un club francese dove Aleksei e Udoka si rincontrano dopo l’estenuante esperienza in Nigeria.
La pista da ballo trascende, diventa metafisica e si fa esperienza spirituale più che carnale. La grande colonna sonora curata da Vitalic accompagna questa unione di destini.[...] Si apre forse così una nuova fase del cinema italiano, finora solo auspicata: quella fatta di intenzioni e della versione più estrema dello show, don’t tell e ci pensa Abbruzzese a guidare questa nuova corrente. E noi? Noi siamo tutti dei disco boy e non vediamo l’ora di continuare a ballare…
Davide Merola, The Hot Corn

21 febbraio 2023
Holy Spider: un thriller politico da non perdere
Presentato in concorso al Festival di Cannes 2022, dove Zar Amir Ebrahimi si è aggiudicata il Prix d’interprétation féminine alla miglior attrice, Holy Spider è il terzo film di Ali Abbasi, regista e sceneggiatore iraniano naturalizzato danese. Girato in Giordania per ovvi motivi di censura, il film tratta argomenti tabù in Iran come la prostituzione e la tossicodipendenza, rendendo rischiosa ma allo stesso tempo necessaria la loro visione sullo schermo come rappresentazione fedele della realtà della vita nella nazione mediorientale. Senza mai perdere l’essenza dell’incertezza e del terrore, Abbasi costruisce il thriller più intelligente dell’anno, che usa il genere per parlare dell’oggi, raffinatissimo nel suo destrutturare le dinamiche tipiche dell’indagine per mettere in primo piano l’azione politica, ciò che avviene dopo che un killer è stato catturato.
www.cinefilos.it

17 febbraio 2023
Wittgenstein di Derek Jarman. Quando la Filosofia arriva sullo schermo
Il regista Derek Jarman ha deciso, nel 1993, di realizzare un’opera cinematografica focalizzata su uno dei mostri sacri del pensiero novecentesco. L’autore in questione è il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein. L’omonimo film, Wittgenstein, si concentra sulla vita e sul pensiero del filosofo viennese. Come un’opera teatrale, la pellicola è caratterizzata da una scenografia minimalista: uno sfondo nero, da cui fuoriescono i rispettivi attori. Wittgenstein non è una ricostruzione minuziosa della vita del filosofo, ma si limita soltanto a riportare parte del suo pensiero tanto controverso quanto importante. Wittgenstein, infatti, è considerato il massimo pensatore del XX secolo, in grado, addirittura, di aver dato vita a una nuova logica. Il suo campo di interesse fu principalmente il linguaggio e il suo contributo fu di vitale importanza. [...]
Il regista ci mostra come sia possibile narrare la vita del filosofo, tanto complessa quanto affascinante. L’elemento originale della pellicola è quella di presentarci una trama su una sequenza logica di episodi, di flash sul pensiero in continua evoluzione. Come a volere uniformare la sua vita alla frammentazione dell’opera principale.Derek Jarman riesce, in fin dei conti, a comporre un biopic inimitabile, dal forte valore artistico. È un film completamente sperimentale e indipendente. Non mancano, tuttavia, immagini da commedia surreale, mettendo in scena immagini davvero strambe, con personaggi bizzarri e dai colori vivaci. Per fare alcuni esempi: il marziano che provoca un Wittgenstein bambino con domande assurde, Russell vestito come se fosse un dandy, e la sua amante, lady Ottoline Morrell, concepita con indumenti accesi ed eccentrici.
Interessante è lo sfondo nero. Da qui escono gli attori che recitano, come se ci trovassimo dinanzi a un teatro. Jarman ritrae l’essenza profonda del pensiero di Wittgenstein, aggiungendo quell’elemento di casualità presente nel mondo. Allora ciò che crea non è un ritratto dell’uomo, ma del suo pensiero. Il regista, in Wittgenstein, riesce a darci un’idea del filosofo. Spesso le immagini tendono ad aggrovigliarsi, ma rispettano il pensiero dell’autore: confusionario e spesso contraddittorio. Jarman, nella sua audacia, rende omaggio a uno dei pensatori più importanti del Novecento. Una delle menti più significative, che ha saputo offrire importanti spiragli su cui riflettere.
Alessandro La Mura, ArteSettima

15 febbraio 2023
Tutta la bellezza e il dolore: il leone d'oro a Venezia e candidato agli Oscar è al carbone
Una narrazione volutamente frammentaria che emana dalla vita di Goldin filtrata dall'occhio di Poitras, che apparentemente scompare ma in realtà sta decidendo l'ordine delle diapositive. E nessuno si addormenta, si stanca o si annoia, come nelle più tragiche serate dai vicini che ti facevano vedere le foto della vacanza. Bisogna guardare e ascoltare, senza appello, come i Sackler a un certo punto saranno costretti a fare. Perché dalla bellezza a volte non nasce niente, mentre dal sangue versato nascono film come questo.
Una lotta che parte da lontano, un attivismo insito nella propria vita, un'esperienza brutale che fa nascere fiori dal sangue versato. Tutta la bellezza e il dolore racconta la vita della fotografa e attivista Nan Goldin, dai suoi esordi fino alla lotta contro la famiglia Sackler, proprietaria di Purdue Pharma, che ha messo sul mercato l'OxyContin, farmaco antidolorifico che negli Stati Uniti ha portato alla dipendenza e alla morte migliaia e migliaia di persone. Una lotta che la regista Laura Poitras mette in scena attraverso l'arte, la fotografia, i musei, portandosi a casa il Leone d'Oro a Venezia e la candidatura all'Oscar. E gli occhi del mondo intero.
Edoardo Ferrarese, Everyeye

07 febbraio 2023
Babylon: un’ambizione sfrenata che si scontra con l’amarezza
Babylon è sinfonia, a tratti pura improvvisazione. Se non ci si ferma in superficie, si scopre che tutto è coerente. Quello che mostra Chazelle non deve avere una logica, rifiuta ogni forma di verità, si stampa la leggenda. Va in scena il mito di Hollywood, non la cronaca. E nei sogni, si sa, tutto è possibile. Fino al risveglio, quando i piedi devono smettere di volare. Chazelle non insegue l’armonia, l’equilibrio. Ancora una volta c’è il desiderio, l’invito a puntare il firmamento, quasi un’ossessione che si faceva tangibile in First Man – Il primo uomo, quando Gosling era Armstrong sulla luna. [...]
Ma in Babylon non c’è giusto o sbagliato, non ci sono eroi, forse solo qualche inconsapevole pioniere. Il regista dà una forma all’insensatezza, prova a renderla arte, accarezzando l’incredibile, amando visceralmente il grande schermo, in ogni sua sfumatura. È un viaggio tra i generi, che sfocia anche nel brivido, che non si smarca dalle influenze felliniane e sceglie di essere estenuante. Ma si candida per essere comunque una delle esperienze cinematografiche dell’anno, nel bene e nel male. È un cinema sfrenato, coraggioso, pura ambizione.
Di sicuro Chazelle non si era mai spinto così in là. In un’epoca omologata, bisogna credere nel delirio. Ed è quello che ci viene chiesto: crederci, pensare che il Rialto può essere eterno, che il cinema vive e può superare ogni crisi, che la sala può rinascere. È un multiverso? Non lo sappiamo. Di sicuro è un duello, come in Whiplash, tra allievo e maestro, ossessione e talento. Anche Babylon è una frustata. Può far male, respingere, per poi attrarre verso di sé con foga. È un gioco al massacro, una bulimia di situazioni ingestibili che si fanno epopea, un’epopea dello sguardo, uno smisurato atto d’amore, la volontà di rendere l’imperfezione l’unico codice esistente. Estremo, ardito, Babylon è feroce, goliardico, disperato, complesso. Prendere o lasciare.
Gian Luca Piscane, Cinematografo

01 febbraio 2023
Le otto montagne: un’ode all’amicizia e ai ricordi
Che "Le otto montagne" sia un film incentrato sulle persone e sui rapporti umani, prima di ogni altra cosa, ce lo dice il più evidente degli elementi formali adottati da Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch. Un elemento macroscopico, che si manifesta chiaramente anche ai meno attenti agli aspetti tecnico-stilistici: la scelta del formato.
Il 4/3 contrasta in maniera quasi eclatante con la connotazione paesaggistica del film, che emerge fin dal titolo e, ovviamente, dalle ambientazioni alpino-himalayane. Contrasta con la possibilità di allargare il campo nelle riprese montane, di restituire panorami (e panoramiche) che sarebbero quasi scontati, vista appunto l’ambientazione prevalente. E invece i registi chiudono letteralmente lo schermo sull’asse orizzontale e decidono che lo spettatore si dovrà concentrare sui due protagonisti, Bruno e Pietro, senza lasciarsi distrarre, senza che l’occhio possa perdersi a contemplare quella natura che lo stesso Bruno, in uno dei dialoghi più significativi del film, ripudia in quanto elemento indefinito e astratto, esaltato dalla gente di città e ridimensionato dai montanari duri e puri, da chi con la natura ci ha quotidianamente a che fare. [...]
L’altra scelta emblematica – e pienamente centrata – dei due registi è quella dell’emancipazione pressoché totale dai campi lunghi e, soprattutto, dalle inquadrature aeree, in un film in cui il richiamo del drone era un canto delle sirene difficile da zittire e da non assecondare. E invece i due registi rimangono con i piedi (e con la macchina da presa) ben ancorati per terra, cimentandosi soltanto in due occasioni con delle carrellate aeree di significato peraltro diametralmente opposto. Due aerial shots quasi inevitabili, anche se soltanto in un caso la scelta è veramente importante dal punto di vista sostanziale: in particolare, nell’oggettiva in allontanamento sulla baita immersa nella neve, che diventa un campo lunghissimo che rende, meglio di ogni altra immagine riprodotta fino a quel momento, l’idea della solitudine e dell’eremitaggio cui si vota Bruno.
E così i due aspetti citati (il formato 4/3 e la scarsità di riprese dall’alto e di campi lunghi, con conseguente privilegio dei piani ravvicinati) sono entrambi rappresentativi di una dedizione al racconto nei suoi aspetti più umani e sensibili, quelli che del resto mette in luce il romanzo di Cognetti da cui il film è tratto.
In tal senso, il lavoro di adattamento (ad opera degli stessi registi) può dirsi pienamente riuscito. In primis perché non era per nulla semplice trarre una sceneggiatura all’altezza, per un film di due ore e mezza di durata, da un romanzo comunque fortemente intimo e intimista. Un romanzo che è stato un caso editoriale capace di attirare su di sé un’attenzione quasi planetaria.
E invece del libro si scelgono i momenti e i dialoghi davvero salienti e anche la voce narrante, quasi inevitabile in un’opera di questo tipo, è centellinata in maniera esemplare. In alcuni casi forse anche troppo, visto che là dove il narratore esterno era pressoché indispensabile (i segmenti dedicati all’infanzia e all’adolescenza di Pietro) la parsimonia nell’utilizzo della voce fuori campo porta all’inevitabile conseguenza di mettere in bocca ai giovani protagonisti frasi e osservazioni che sembrano molto più mature di chi le pronuncia, come quando il Pietro dodicenne esprime un giudizio lapidario sulla città da cui proviene e sulla sua influenza nefasta sulle persone: "Torino lo rovina uno come Bruno". [...]
I due cineasti belgi sono assecondati in maniera convincente da una coppia di attori che rappresentano, ad oggi, il meglio che l’Italia possa esprimere per quella generazione. Alessandro Borghi è forse anche più nella parte del più quotato Marinelli, nonostante qualche piccolo appunto che si potrebbe muovere al suo accento, talvolta più vicino al bergamasco-valtellinese che all’inflessione del patois valdostano. Inezie, in ogni caso, che chiaramente non spostano il giudizio su un’opera che poteva rappresentare un rischioso salto nel buio e che invece si è fatta apprezzare anche a livello internazionale (Premio della giuria a Cannes 2022).
Vincenzo Chieppa, Ondacinema

24 gennaio 2023
Aftersun: l’opera prima dell’anno è un trionfo di regia, delicatezza e memoria
Aftersun, l’acclamato esordio alla regia della cineasta scozzese Charlotte Wells prodotto dal Barry Jenkins di Moonlight e amato anche da Claire Denis, è arrivato in Italia in poche sale selezionate dopo aver fatto la parte del leone in molte autorevoli classifiche di fine anno e aver guadagnato, solo per restare alla stampa britannica più prestigiosa, la prima posizione nelle top dei migliori film del 2022 del Guardian e di Sight & Sound.
Si tratta, senza mezzi termini, dell’opera prima dell’anno appena trascorso, di una delicatezza folgorante: un padre divorziato, che sta per compiere 31 anni, in vacanza in un modesto resort in Turchia popolato da molti britannici come loro con la figlia non ancora adolescente (un elemento fondamentale), che vive invece a Edimburgo con la madre, sono i due nuclei di una messa in scena che fa di praticamente ogni dettaglio una tavolozza da affrescare con tatto lieve, quasi impercettibile, di una purezza lancinante e tutta in sottrazione, senza mai l’ombra di alcun manierismo epidermico (anche quando la macchina da presa si sposta lateralmente per prendere in pieno, come fosse un quadro da posizionare su una parete, la scritta «We know the perfect place»).
Aftersun è una sorta di nuova versione dell’assai bistrattato e sottovalutato Somewhere di Sofia Coppola ancora più scarnificato, frammentato e intermittente, tanto nell’uso di movimenti e punti macchina quanto nella sostanza della resa, nel quale sono la misura e la compostezza nell’usare delle inquadrature ricercate per fuggire dal cuore dei conflitti e dei traumi – riversandoli, idealmente, in un fuori campo assoluto da riempire con empatia e commozione – a fare e addirittura a determinare tutta la differenza del mondo, tra lampi di queerness, dissolvenze carezzevoli e pianti virili simili a latrati consumati di spalle, fino a slabbrare il confine tra passato e presentema anche tra sogno e realtà, sulle note di un utilizzo quantomai memorabile e da brividi del brano Under Pressure di David Bowie e i Queen.
Le immagini degli home movies familiari, invitate a prendersi il loro tempo (magari quello di far sviluppare una polaroid), in un simile contesto sono chiamate a fare da traccia della memoria, da collante tra il presente e il passato delle età della vita, da “doposole” – quello del titolo, anche – per evitare di scottarsi nel contatto ustionante con la luce dei propri ricordi (la radiografia di luci, suoni e sentori degli anni ‘90, da Losing My Religion alla Macarena, è tanto sotterranea e impalpabile quanto sfacciatamente esibita quando non addirittura sensuale).
Aftersun, in tal senso, non è solo un film costruito a misura di found footage ma anche l’opera del nuovo millennio che forse più di ogni altra riesce a fare di questa pratica, subissata da infinite e ormai polverose declinazioni metalinguistiche, un ritrovamento di sommo grado e al cubo, intimo e toccante: l’archeologia malinconica di una memoria liberissima e struggente restituita attraverso la forza docile ma destabilizzante di ciò che, con cocciutaggine forse altrettanto commovente, ci ostiniamo a chiamare ancora cinema.
Davide Stanzione, BestMovie