10 maggio 2022

A Chiara, uno dei film italiani più intensi dell'anno

Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs dell'ultimo Festival di Cannes, A Chiara è la chiusura di un'ideale trilogia che il giovane regista classe 1984 ha ambientato in Calabria, dopo Mediterranea del 2015 e A Ciambra del 2017, film quest'ultimo con cui il nuovo capitolo ha davvero molto in comune. Anche in questo caso siamo di fronte a un racconto di formazione, seppur al femminile, con una ragazza che si trova da un giorno all'altro costretta a cercare di capire quale potrà essere il suo futuro: Chiara è una quindicenne che scopre all'improvviso che il padre tanto amato è un affiliato della ‘ndrangheta e, da quel momento, tutto il suo universo sembra drammaticamente crollare. Come nei suoi lavori precedenti, Carpignano ha dato vita a un film di finzione fortemente mescolato con il linguaggio documentaristico, essendosi anche basato su esperienze delle persone del luogo.

Aperto da una sequenza di grandissima forza estetica, A Chiara è la conferma del grande talento di Carpignano, che si mantiene sui livelli del suo lungometraggio del 2017, riuscendo ancora a dare vita a un prodotto realistico e allo stesso tempo capace di empatizzare con lo spettatore. Il coinvolgimento è dovuto soprattutto all'uso notevole e maturo della macchina da presa, perennemente dinamica ed efficace nel regalare al pubblico una vera e propria esperienza immersiva all'interno del nucleo familiare protagonista.La struttura narrativa è molto semplice e alcuni passaggi non abbastanza incisivi, ma nel complesso il film funziona, riesce a far riflettere e a regalare momenti di grande cinema e di ottima recitazione. Da segnalare che A Chiara ha vinto il premio Europa Cinema Label del Festival di Cannes nella sezione Quinzaine des Réalisateurs.

Andrea Chimento, Il Sole 24 ore

03 maggio 2022

Noi due, l’emozionante road movie sulla paternità di Nir Bergman

È un commovente rapporto padre-figlio quello al centro di Noi due, del regista israeliano Nir Bergman. Selezionato per il Festival di Cannes 2020 e presentato al Toronto International Film Festival il film è un road movie misurato e lineare che riflette con lucida sensibilità sui temi dell’autismo e della paternità. Noi due è un film sul cambiamento necessario e sul dolore della separazione che conquista nella sua sobria tenerezza.

Aharon (Shai Avivi), ex disegnatore talentuoso, vive a Tel Aviv con suo figlio Uri (Noam Imber), un ventenne affetto da disturbi dello spettro autistico. La loro quotidianità, scandita da una serie di imprescindibili abitudini, subisce uno scossone quando Tamara (Smadi Wolfman), madre di Uri ed ex moglie di Aharon, preme affinché il ragazzo si trasferisca in un istituto specializzato che possa aiutarlo a socializzare e ad aprire i suoi orizzonti. La possibilità di un così radicale cambiamento spaventa tanto Uri quanto Aharon che decide, così, di scappare con il ragazzo e mettersi in viaggio verso gli Stati Uniti.

Basta notare lo scintillio negli occhi di Aharon quando guarda Uri per comprendere quanto viscerale sia l’amore di questo padre per suo figlio. Un amore che ha spinto il disegnatore ad abbandonare totalmente la sua carriera perché potesse prendersi cura a tempo pieno del ragazzo. Un amore che rischia di obnubilare la vista di Aharon e far emergere, nonostante le buone intenzioni, il lato più egoista della sua personalità. Perché non è solo Uri ad aver bisogno del padre, ma è soprattutto l’uomo a non riuscire concepire una vita lontano da suo figlio. L’idea della separazione lo terrorizza: da un lato teme che sradicare forzatamente Uri dalle proprie abitudini possa destabilizzare il ragazzo, dall’altro ha paura della solitudine. Noi due riesce a raccontare la paternità con un garbo che coinvolge, loda l’amore e problematizza le ombre di un rapporto che rifugge da qualunque idealizzazione.

Senza patetismi, con una lucidità che non smette mai di sprizzare tenerezza, Noi due celebra l’affetto e, allo stesso tempo, si dimostra un esemplare caso di rappresentazione della disabilità. Fuggendo ogni rischio di sovrabbondanza, Nir Bergman punta tutto su una sobrietà compositiva che permette all’anima dei personaggi di manifestarsi sullo schermo. Anche grazie alle misurate interpretazioni degli attori i personaggini guadagnano in complessità e tridimensionalità: Shai Avivi coglie il terrore esistenziale Aharon e, al tempo stesso, restituisce tutto l’incredibile affetto che questi prova per suo figlio; Noam Imber è eccellente nel mettere in scena le sfumature del suo Uri senza mai scadere nell’overacting. È la chimica tra questi due interpreti in cuore emozionale di una pellicola commovente.

Gabriele Guerrieri, Spettacolo.eu

20 aprile 2022

Licorice Pizza è uno di quei film che vorremmo non finissero mai

Ci sono film che appena usciti dalla sala viene già voglia di rivedere e Licorice Pizza è uno di questi. Opere capaci di portarti indietro nel tempo, farti ridere, intenerire, emozionare. Non basterebbero fiumi di inchiostro a descrivere tutta la potenza visiva, l'adrenalina, l'energia contagiosa di questo film. Un'esplosione di vita che ci riporta ai brividi dei primi amori, quelli goffi e buffi, pieni di errori e incertezze, di tenerezze, brufoli e atti mancati.

Nasce così la storia d'amore per nulla convenzionale al centro del nuovo film di Paul Thomas Anderson, che si dimostra ancora una volta un cineasta in grado di osare, rinnovarsi e sorprendere il suo pubblico come nessun altro, cambiando senza timore genere e stile narrativo. Questa volta ci porta, con un piano sequenza lungo e riuscito dei suoi, nella California degli anni 70, direttamente nella scuola in cui l'intraprendente baby attore 15enne Gary Valentine (Cooper Hoffman) s’invaghisce della 25enne Alana (Alana Haim), aiuto-fotografo per l'annuario degli studenti. Lui è ironico, insistente e logorroico, un Woody Allen in erba. Lei è scettica, acuta e curiosa, finirà per accettare il suo invito a cena e tra i due nasce un sodalizio destinato a durare. 

L'amicizia si consolida negli affari, quando Gary decide di aprire un’azienda di materassi ad acqua, facendosi aiutare da Alana. Tra i clienti c'è un certo Jon Peters, interpretato da un Bradley Cooper istrionico ed esilarante nella sua fissa della conquista (pur frequentando Barbra Streisand…). Con lui, a bordo di un camion guidato da Alana, il divertimento è assicurato. Vale la pena sottolineare che il film, giustamente candidato agli Oscar come miglior film, regia e sceneggiatura originale, vanta dialoghi e direzione degli attori d'eccezione. Se la cantante Alana Haim al suo primo film è uno dei debutti attoriali più notevoli degli ultimi dieci anni, Cooper Hoffman è la prova che buon sangue non mente (il padre era il compianto Philip Seymour Hoffman). Accanto a loro star di spessore si prestano con rara ironia a ruoli parodistici scritti talmente bene da risultare credibili e divertenti, come Sean Penn nei panni del divo macho Jack alias William Holden, con il suo fascino magnetico e la sfrenata (in tutti i sensi) passione per la moto. 

Insomma, Licorice Pizza è uno di quei film che chi guarda vorrebbe non finisse mai. Paul Thomas Anderson sublima il teen-movie portandolo a un livello superiore, firma un film lontano dalla raffinata austerità dell'impeccabile Il filo nascosto, ma vicino alle imperfezioni di cui è fatta la vita, specie nelle prime esperienze. Un delizioso film di formazione sentimentale godibile a tutte le età, traboccante di ironia e goliardica nostalgia, tra flilpper e primi baci, carezze frenate e (rin)corse a perdifiato.

Caludia Catalli, Wired

14 aprile 2022

Una madre, una figlia, un film toccante su un legame sacro (e indissolubile)

“Una madre, una figlia” non è un film facile da raccontare. Porta in scena una realtà cruda, a tratti difficile da digerire. Porta in scena le difficoltà di una madre e una figlia che uniscono le proprie forze per non lasciarsi stritolare da una società patriarcale. Porta in scena i colori e la luminosità del Ciad, ma anche l’oscurità e la povertà di una periferia sconnessa. Porta in scena anche l’amore. Quello di una mamma per una bambina che ha cresciuto da sola, quello di una comunità di donne che, nonostante tutto e tutti, riesce a fare rete, a creare un legame. Del resto, il titolo originale del film è “Lingui”, una parola usata in arabo ciadiano che indica proprio le connessioni o i legami, appunto. È un termine che implica solidarietà, mutuo soccorso, aiuto reciproco a restare a galla. Come spiega bene il regista, “io posso esistere solo se anche gli altri esistono. Questo è il lingui, questo è il filo comune, il legame sacro del nostro tessuto sociale. Essenzialmente, si tratta di una filosofia altruista. La parola simboleggia la resilienza di una società quando deve affrontare problemi e prove terribili. E quando questo lingui viene spezzato, preannuncia l’inizio di un conflitto”.

Chiara Capuani, Today.it

06 aprile 2022

Rinviato l'incontro alla Biblioteca Teresiana

L'evento dedicato ai tesserati di Cultura alle quattro e un quarto intitolato "La raccolta delle stampe della Biblioteca Teresiana", previsto per giovedì 7 aprile alle 16:15, è stato rinviato per indisponibilità della relatrice Chiara Pisani.

L'incontro si svolgerà, sempre nei locali della Biblioteca Teresiana, giovedì 5 maggio alle 16:15.

31 marzo 2022

Un’esperienza visiva che disorienta e stupisce: Lamb

Lamb è un film silenzioso dove le immagini e i suoni raccontano molto più delle parole. [...] Il freddo paesaggio nordico circonda i pochi personaggi del film che tentano di dominare questa natura così selvaggia ed incontaminata. L’essere umano fa parte della natura e l’animalità diventa parte dell’essere umano in una strana quanto inquietante fusione corporea. Gli animali non parlano ma trasmettono tantissimo grazie alla costruzione registica maniacale di Jóhannsson. Lo spettatore è portato a proiettare ansie e paure sugli sguardi ignari di gatti, agnelli e pecore. I campi lunghi si alternano ai dettagli e molto spesso i protagonisti sono inquadrati di spalle, accentuando in questo modo l’oscura sensazione di mistero che pervade l’opera. Il film può essere interpretato con riferimenti religiosi (l’agnello di Dio e la madre Maria), oppure come metafora delle irrimediabili conseguenze di un atto contro natura. In ogni caso Lamb è un esperimento visivo interessante che disorienta ma stupisce, una volta accettato di sospendere la cinica incredulità che ci contraddistingue.

Federico Rizzo, SentieriSelvaggi

30 marzo 2022

Lo spazio in Lunana

Attraverso una storia di sorprese e rivelazioni, in cui il giovane Ugyen è costretto ad accantonare il desiderio di trasferirsi in Australia per insegnare in un villaggio remoto dell’Himalaya, il debuttante Pawo Choyning Dorji adegua il conflitto del protagonista alla spazialità rarefatta dell’ambiente. In Lunana: Il villaggio alla fine del mondo, infatti, è il viaggio tra le montagne a costituire il mezzo, strumento e veicolo unico per la riscoperta della propria soggettività. E nel raggiungere la remota località di Lunana – situata a 4.800 metri d’altitudine – Ugyen intraprende un percorso esistenziale, più che fisico. In un pellegrinaggio dallo statuto conciliatorio, in cui le aspirazioni di alterità geografica (l’Australia) cedono il passo ad una forza centripeta, rivolta adesso verso l’interno (e, dunque, verso il cuore del paese). Un tragitto che Dorji (saggiamente) delinea attraverso l’incontro/scontro di tecnologia digitale e spirito analogico. Vivendo nella capitale occidentalizzata, Ugyen non ha alcuna possibilità di scoprire se stesso, con l’ultra-digitalizzazione dell’ambiente metropolitano a cannibalizzarne i rapporti emotivi. L’unico modo che ha per evadere dal senso di smarrimento, e di ritrovare nel contempo le coordinate esistenziali, è sostituire l’assuefazione tecnologica con l’essenzialità della natura. Una transizione ontologica destabilizzante, che il cineasta filtra attraverso un senso fenomenologico dello spazio, per condurre il protagonista all’accettazione (definitiva) della cultura originaria della propria terra. E per quanto la distanza (geografica, umana, identitaria) tra Ugyen e gli abitanti di Lunana sembri (in apparenza) incolmabile, il disvelamento delle radici culturali ne rivela una connessione naturale. È solo specchiandosi nei volti dei suoi studenti/bambini, sullo sfondo di un’autoctonia ritrovata, che il protagonista può arrivare a comprendere (e a formare) la propria identità, iscritta adesso in una spazialità pacificatrice.

Daniele D'Orsi, SentieriSelvaggi

24 marzo 2022

Morricone, storia di una rivoluzione

Venticinque sono gli anni che legano Giuseppe Tornatore a Ennio Morricone, quasi tre decenni di collaborazione da Nuovo Cinema Paradiso a La corrispondenza; adesso con Ennio il regista "realizza un sogno" restituendo al pubblico il "suo" Ennio e strutturando l'operazione come una grande partitura musicale. Un lavoro raffinato che, sorretto dallo sforzo titanico di Massimo Quaglia e Annalisa Schillaci al montaggio, alterna momenti aneddotici, materiale di archivio, frammenti di film e note alle parole di chi lo ha conosciuto e a quelle dello stesso Morricone che si mette letteralmente a nudo. Un viaggio epifanico tra i ricordi di un uomo che al pubblico è sempre apparso schivo e di poche parole, ma che qui si commuove in più di un'occasione: quando ricorda il padre trombettista che con quel lavoro manteneva l'intera famiglia, "usare la tromba per mangiare era un'umiliazione" dice; quando rievoca il giorno in cui lui e Petrassi si salutarono fuori dal conservatorio dopo il suo esame di diploma; o per quello strisciante senso di colpa che per anni lo avrebbe perseguitato, frutto del pregiudizio con cui gli ambienti accademici guardarono al suo essersi prestato al cinema. Un peccato originale che lo segnò per moltissimo tempo, "scrivere per il cinema equivaleva a prostituirsi", racconta e da cui cercò sempre una rivincita. Che alla fine ebbe, eccome.

Elisabetta Bartucca, Movieplayer

16 marzo 2022

In anteprima, Reflection: la storia di un padre e di un'umanità persa, sperata, ritrovata.

Il germe di fantasia in Reflection, l’opera di Valentyn Vasyanovych presentata in concorso durante la 78ma edizione della Mostra, è autenticamente tratto dalla vita dello stesso regista: ispirato da un piccione, schiantatosi ad alta velocità contro la finestra della sua casa, Vasyanovych ha tradotto il presagio funesto in un dramma narrativo, condensando in immagini prolisse e realisticamente algide l’orrore della guerra, la brutalità del conflitto orientale e, in parallelo, il dramma familiare del protagonista. L’avvenimento ha scosso la figlia del regista al punto da indurre entrambi a riflettere (da questo, Reflection) sul senso della vita, sulla sua caducità, l’irreversibilità degli eventi e l’attesa di una flebile resurrezione. La morte, attraverso gli occhi di una bambina di dieci anni, ha spinto il regista ad interrogarsi sulla relazione tra un padre e la figlia, racchiusi – complici – nel dolore per la perdita di una persona amata.

Ucraina orientale. Il chirurgo Serhiy (Roman Lutskyi) è ostaggio delle forze militari russe durante la guerra. Costretto a sopportare torture, umiliazioni e violenza, una volta rilasciato torna nel suo appartamento nella speranza di ritrovare un obiettivo di vita. Ad orientare le forze di Serhiy, il rapporto compromesso con l’ex moglie e la figlia, con cui cerca disperatamente e con fatica di recuperare il tempo trascorso a distanza. Come antidoto alla brutale disumanità cui ha assistito in zona di guerra, il chirurgo cura gli affetti familiari, ritrova l’umanità perduta attraverso l’amore ed il sostegno di chi è pronto a condividere i suoi silenzi.

  La guerra, la morte, l’infanzia: dagli occhi di una bambina, il significato universale della perdita

La regia di Valentyn Vasyanovych agisce in sottrazione: inquadrature fisse, flemmatici piano-sequenza, movimenti di macchina dosati e impercettibili restituiscono all’opera una fisionomia statica che raramente attecchisce nelle profondità emotive dello spettatore. Il cineasta ucraino talvolta si lascia domare dalla necessità di dinamismo, ponendo la camera all’interno di un veicolo in movimento o intenta a seguire il protagonista attraverso le stanze della tortura. Un paradosso, se si parte dall’assunto che a muovere l’intera trama del dramma sia il confronto con la morte attraverso gli occhi di una bambina: nella cornice di un contrasto tra l’agiatezza della quotidianità in un quartiere residenziale borghese e gli orrori della guerra sul fronte orientale della Crimea, la giovane si trova coinvolta in un percorso di elaborazione del lutto nel quale ad aiutarla c’è solo un adulto, un padre lontano che torna per consolidare il rapporto con la figlia. In Reflection Serhiy è inquadrato sempre da lontano, all’interno di una cornice che ne sottolinea il vuoto esistenziale contrapposto al grigiore di una quotidianità vissuta retrospettivamente: il film di Vasyanovych vive di contrasti, riscattandosi nell’atto finale con una regia più inclusiva fatta di primi piani caldi, esplicitazione di una resurrezione in via di definizione.

Se l’intento di Vasyanovych era quello di rappresentare la fissità della vita, tradurlo con un sostanziale immobilismo di camera è stata una scelta sensata e vincente. Il cineasta opta per una traduzione in immagini senza veli né filtri, rincuorando lo spettatore a distanza di sicurezza con uno sguardo indagatore riflessivo e artico. Per evitare di influenzare l’occhio di chi guarda, il regista opta per la totale assenza di sonoro, un meccanismo strategico atto a marcare – nei passaggi stranianti – il naturalismo del dramma in atto.

Giulia Calvani, Cinematographe.it

14 marzo 2022

Da martedì 15 marzo l'arte fa tappa al carbone

Ogni nuovo movimento artistico nasce dall’esigenza di una frattura radicale con ciò che lo ha preceduto. L’imperativo è mutare le forme, riconcepire lo spazio, ridefinire il colore, cambiare il modo di guardare il (e al) mondo. Cinearte 2022 torna finalmente in sala prendendo slancio dall’istinto rivoluzionario di alcuni significativi artisti del Novecento.
La rassegna di quest’anno segue Man Ray alla macchina fotografica in una vacanza d’eccezione con Picasso ed Eluard, assiste alle lezioni di László Moholy-Nagy al New Bauhahus di Chicago, rivive l’arrivo in Italia di Joseph Beuys, Herman Nitsch e Marina Abramović tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.
Con Cinearte prosegue l’ormai quasi ventennale collaborazione tra il cinema del carbone e l'Associazione degli Amici di Palazzo Te e dei Musei Mantovani nell’indagine delle relazione tra cinema e arti visive, attraverso la proposta di film su vite d’artisti, sperimentazioni di videoarte, crito-film, riflessioni sulle nuove estetiche e sulle produzioni artistiche contemporanee.

Abbonamento 3 film: 10 euro. Biglietto singolo: intero 7 euro | soci cinema del carbone e amici palazzo te 5 euro.