27 aprile 2023

Il debutto alla regia del premio Oscar Bong Joon-ho: Cane che abbaia non morde

Bong all’esordio convoca alcuni archetipi: il condominio ballardiano, quel microcosmo osservato alla lente che brulica di figure stralunate, deformate o grottesche; il gusto per il racconto che si traduce in puro piacere dell’affabulazioine, come dimostra la lunga storia della leggenda metropolitana esposta nelle cantine; il personaggio dell’uccisore di cani che, come insegna la dottrina di John Douglas, primo profiler dei serial killer, potrebbe essere uno psicotico in erba perché si inizia sempre dall’ammazzare piccoli animali. E poi, come detto, c’è la società coreana che già vent’anni fa è molto lontana dall’immagine idilliaca che vuole trasmettere, o che vorrebbe silenziare non parlandone. Se l’ambiente universitario del protagonista è di base corrotto, come metonimia del mondo del lavoro che stronca ogni merito, d’altra parte anche il palazzo è un condensato del divario di classe, e qui sta la vera anticipazione di Parasite. La divisione radicale tra ricchi e poveri, tra piani alti e bassi, con un essere che vive sottoterra tra cunicoli e tubi, suona oggi da presagio per il film che vincerà l’Oscar. Così come l’indagine fatta in casa per scoprire il responsabile è il neonato della vasta detection impossibile di Memories of Murder, per molti il capolavoro del regista. D’altronde è normale che, come spesso avviene, un trentenne ponga i semi nel debutto a basso budget per poi farli germogliare in ampie volute nelle opere successive. Giusto così. Cane che abbaia non morde è quindi una commedia grottesca, con punte nel thriller e nell’horror, a dimostrazione che il cinema di Bong nella sua giovane mente era già un melange, un’unione di generi tutti mediamente scuri e crepuscolari.

Emanuele Di Nicola, Nocturno

18 aprile 2023

Vera, ritratto tra il vero e il falso di un personaggio sopra le righe

Nonostante le apparenze, Vera è una donna che rispecchia il suo nome: non sa fingere, non vuole farlo, si racconta candidamente tra fantasia e realtà nei suoi problemi di figlia di un uomo famoso e idolatrato, con la convinzione di non essere mai all'altezza, coi problemi con gli uomini derivanti da un complesso di Elettra schiacciante, la consapevolezza di non essere riconosciuta per le proprie qualità ma spesso considerata solo come riflesso della gloria altrui. Tutto questo è comune a molti figli d'arte, soprattutto donne, che non si sono sentite accettate perché messe sempre di fronte a un paragone impossibile. Le più fragili (e noi ne conosciamo un paio) si sono fatte del male, altre, come Vera, si sono trasformate fisicamente. In risposta a una famiglia in cui essere brutti era considerato un peccato mortale, lei ha cercato in ogni modo di somigliare a un trans, che considera un ideale di bellezza, un femminile costruito ad arte che con l'esasperazione delle sue caratteristiche (il seno, le labbra, gli zigomi) cancella spesso le tracce originali del volto, i supposti difetti fisici (fa tenerezza che a un certo punto Vera e la sorella Giuliana vedendosi bambine in vecchi film casalinghi si chiedano perché si siano rifatte il naso, che andava bene com'era). [...]

E poi ci sono gli altri, la gente del popolo, i borgatari, quelli nel cui mondo Vera entra camminando - prendiamo in prestito il titolo dell'autobiografia di Holly Woodlawn, la superstar di Andy Warhol - “coi tacchi alti nei bassifondi”, un po' Candide, un po' Pinocchio, colma di amore e ingenuità, destinata a essere ferita ma felice, finché può fare del bene a una piccola famiglia di San Basilio (dove avevano già ambientato La pivellina, luogo dai lontani richiami pasoliniani). Sono molto belle e credibili le sue interazioni col ragazzino orfano, Manuel, con suo padre e con la nonna. Persone con vite ai margini, alla cui semplicità, Vera, che non rinuncia mai agli stivali, al cappello, alle pellicce e alle lunghe extension biondo platino, si adatta di buon grado. Non le costa nessuna fatica passare dalle boutique di lusso dove acquista scarpe glamour ai supermercati di quartiere, per comprare gli addobbi per festeggiare il compleanno della nonna o sedersi a tavola con loro a mangiare pasta e fagioli, perché è intrinsecamente convinta della bontà degli uomini. Capisce la sofferenza perché l'ha provata, sia pure nella sua vita di privilegiata, cerca l'amore e l'affetto che viene frainteso e spesso tradito da gente troppo disperata per non approfittare di un'occasione tanto ghiotta.

Eppure, Vera è molto intelligente, sensibile e colta. Dietro i suoi occhi bistrati si cela un mondo, una malinconia profonda e la consapevolezza che probabilmente verrà ferita ancora una volta e nessuno la aiuterà. E' straordinaria nell'interpretare questa versione di se stessa, Vera Gemma, ed è più che giustificato il premio che ha ottenuto per il ruolo, alla Mostra del cinema di Venezia nella sezione Orizzonti. Ancora una volta, Covi e Frimmel sono riusciti a mostrarci l'umanità autentica di un personaggio che loro stessi, inizialmente, avevano guardato con sospetto, ma di cui hanno poi conosciuto e ci hanno fatto scoprire la profonda bellezza interiore.

  Daniela Catelli, ComingSoon  

18 aprile 2023

Mixed By Erry: Sydney Sibilia, tre fratelli e la nostalgia di un sogno a tutto volume

Mixed by Erry, nel raccontare del più (im)perfetto sogno italiano, vede Sibilia vestire e colorare Napoli di una luce nuova, diversa – e come dovrebbe essere sempre – lasciando la camorra lì, sullo sfondo, come fosse una presenza muta e discreta, appena percettibile, per dare via libera ad una storia di passione e speranza, di voglia di lasciare un segno nel mondo, in bilico tra sogni a occhi aperti e dura realtà, tra I Love Radio Rock, i film di John Carney come Sing Street e anche qualcosa dell’ascesa di Blow. Sempre con il volume al massimo, ovviamente, ma non per fare soldi o diventare miliardari, ma per vivere quello che si ha nel cuore: «Perché per noi questa storia è una storia di fratellanza, un’avventura di ragazzi che si vogliono bene, una storia di famiglia che si sostiene e che non è avida, non campa per i soldi, ma solo per vivere…».

Mixed by Erry parte così da una digressione temporale per poi riavvolgere il nastro raccontando di ascesa e caduta di un’impresa impossibile, un po’ leggenda metropolitana un po’ storia vera. Al centro del racconto, un atto creativo illegale ma legittimato dal contesto, tutto avvolto da una narrazione vivace e giocosa, di buon ritmo, resa da un Sibilia ispirato tra una ricostruzione storica accurata e colorata e dialoghi incalzanti che ci ricorda – o fa scoprire, dipende dall’età – la magia delle compilation/mixtape, o delle musica capace di dire parole impossibili da pronunciare. Molto prima di Spotify, molto prima di TikTok e dei social. E a tal proposito, accanto alla canzone di Liberato che chiude il film, Mixed By Erry propone (ovviamente) una compilation degna del miglior Guardiani della Galassia. Qualche esempio? I Want You Back dei Jackson 5, Relax dei Frankie Goes to Hollywood, It’s Tricky dei Run-DMC, E Mo e Mo di Peppino di Capri, Quello che le donne non dicono di Fiorella Mannoia, Sweet Dreams degli Eurythmics, Dog Eat Dog dei Adam & The Ants e nientemeno che Fade to Grey di Visage, a conferma di come: «I DJ possono nascere pure a Forcella».

Non ultimo il comparto attoriale, perché se è vero che il trio dei fratelli Frattasio (D’Oriano, Arena e Palumbo) è sorprendente e dall’avvenire promettente, oltre ai genitori Cristiana Dell’Anna e Adriano Pantale (e attenzione al divertente cameo di Raiz degli Almamegretta), è quando le cose si fanno difficili per Mixed by Erry che entrano in scena anche due pesi massimi: Francesco Di Leva e Fabrizio Gifuni, che si mettono in gioco e alzano irrimediabilmente la posta per la gioia dello spettatore, tra ristoranti di pesce di Milano, festival di Sanremo e scudetti del Napoli. In altre parole? Un’opera sopraffina, un film da non perdere e di cui godere al cinema, e poi in streaming, insomma, basta che non sia piratato. Anche se a riguardo forse Erry avrebbe qualcosa da dire…

Francesco Parrino, Hotcorn

12 aprile 2023

RINVIO VISITA GUIDATA AI GIARDINI DUCALI - NUOVA DATA 27 APRILE

!!! ATTENZIONE !!! La visita guidata ai Giardini Ducali (evento di Cultura alle quattro e un quarto) a cura di Alkémica Cooperativa Sociale onlus prevista per giovedì 13 aprile è RINVIATA A GIOVEDI' 27 APRILE, sempre alle 16.15 (con ritrovo in Piazza Pallone alle ore 16).

05 aprile 2023

L’appuntamento di Teona Strugar Mitevska è un film da non perdere

Forse è vero che talvolta sarebbe meglio dimenticare, come suggeriva provocatoriamente Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri. Quando un conflitto è ancora fresco – e trent’anni durano un soffio, inutile negarlo – a sopravvivere non sono soltanto i reduci militari e civili, ma tutto il livore che la guerra porta con sé. In molti casi, chi ha combattuto le guerre jugoslave degli anni Novanta è ancora giovane, e lo stesso vale per chi ha perso la famiglia, vedendo distrutta la propria casa e la propria città. Il rancore personale per quanto successo, ben più intenso di qualunque attrito ideologico, sussiste tutt’oggi anche fra concittadini, persino fra vicini di casa: una realtà piuttosto comune a Sarajevo, melting pot etnico-religioso fra i più eterogenei d’Europa.

Non è la città di Teona Strugar Mitevska, nativa invece di Skopje, ma la regista macedone vede la capitale bosniaca come una sintesi di tutti i conflitti socio-culturali dei Balcani, e quindi come teatro ideale per la sua storia (peraltro ispirata a una vicenda realmente accaduta). La protagonista de L’appuntamento è Asja (Jelena Kordić Kuret), quarantacinquenne che partecipa a uno speed date per accontentare le richieste di sua madre, o almeno così dice. Accoppiata con il quasi coetaneo Zoran (Adnan Omerović), la donna ne resta piacevolmente intrigata, ma durante la prima attività succede qualcosa di strano: mentre rispondono a una serie di domande per conoscersi meglio, diviene sempre più chiaro che Zoran nasconde un segreto, e più che l’amore sta cercando il perdono.

Accade allora che lo speed date si trasformi in una grande elaborazione del lutto, tanto personale quanto collettiva. L’appuntamento – in originale The Happiest Man in the World, titolo che restituisce meglio la natura paradossale del film – compatta un processo estremamente complesso tra le quattro mura di un hotel brutalista, eredità del passato jugoslavo, intersecandolo con i riti surreali dell’evento romantico: una trovata davvero brillante, estranea a qualunque retorica melodrammatica, che trasfigura una circostanza “frivola” in un passaggio cruciale nelle vite dei personaggi.

Teona Strugar Mitevska lo gestisce quasi come se fosse una pièce teatrale, con atti ben distinti che corrispondono alle varie attività dello speed date, e momenti che si avvicinano alle dinamiche del teatro-danza. Anche l’apice drammatico della storia funziona come una messa in scena, un rito catartico di purificazione. Se la cineasta individua la chiave di questo processo nel rapporto tra i corpi, sfiorati nel corteggiamento o straziati in una spaventosa allucinazione bellica, Asja può solo esplodere in un ballo da estasi dionisiaca tra gli adolescenti di Sarajevo: ovvero, quella generazione che non ha vissuto la guerra, e che è destinata a seppellirne gli antichi rancori. Torna in mente la scena finale de Il corsetto dell’imperatrice, con la sua danza di libertà dalle convenzioni e dallo sguardo maschile. Asja balla tra le donne e gli uomini del futuro, mentre cerca di scrollarsi dalle spalle il peso del passato.

Lorenzo Pedrazzi, Screenweek

03 aprile 2023

Innamorata dello spavento: FEDERICA FRACASSI in dialogo con Nicola Arrigoni

Lunedì 3 aprile ale 21.15 tornano i Dialoghi di teatro contemporaneo con protagonista Federica Fracassi: Interprete sensibile alle nuove drammaturgie, votata a scritture visionarie, feroci, poetiche classiche e contemporanee, fin dagli esordi disegna un percorso indipendente nel panorama del teatro di ricerca. Attrice, ma anche lettrice, autrice e curatrice è protagonista di innumerevoli produzioni della compagnia Teatro i, fondata, insieme all’omonimo spazio, con Renzo Martinelli.

In teatro lavora, tra gli altri, con Valerio Binasco, Valter Malosti, Antonio Latella, Motus, Luca Micheletti, Sonia Bergamasco, Andrea Chiodi, Veronica Cruciani, Pier Lorenzo Pisano, Andrea Baracco. E’ protagonista di percorsi scenici articolati in più spettacoli dedicati alla scrittura di Antonio Moresco, Massimo Sgorbani, Giovanni Testori, Henrik Ibsen. Tra le esperienze cinematografiche più significative spicca la sempre rinnovata collaborazione con il maestro Marco Bellocchio. Ha ricevuto numerosi premi tra cui: Menzione d’onore e Premio Eleonora Duse, Premio Ubu, Maschere del Teatro Italiano e Premio Hystrio 2021 all’interpretazione.

Foto di Dirk Vogel

30 marzo 2023

La maman et la putain è il film più bello del mondo

Uscito per la prima volta nel 1973, il diamante nero di Jean Eustache torna in sala cinquant'anni dopo, come nuovo, in una superba versione restaurata e dentro un abito tagliato su misura per le immagini che lo abitano. Le notti parigine ritrovano la loro profondità e gli appartamenti i loro 'falsi giorni', il loro calore e la loro penombra.
Le nuove generazioni avranno finalmente accesso a un film incredibile, un fantasma le cui incursioni nel nostro mondo erano così rare (la registrazione di un passaggio notturno su un vecchio VHS o la trasmissione su Arte in occasione della morte di Bernadette Lafont), che bisognava essere davvero appassionati o attenti per non mancarlo. E nel tentativo di ricordare dove lo abbiamo visto la prima volta, La maman et la putain ci appare come un altro pianeta in cui abbiamo voglia di abitare. Un mondo che era già straniero ai suoi contemporanei, nel film ascoltiamo Édith Piaf, non gli Stones. Girato ad altezza del suolo, come un film di Ozu, ci inchioda alla poltrona, emotivamente intatto dopo decenni passati nell'ombra, seppellito sotto le macerie dello scandalo, della censura, della mistificazione, della scomparsa di Catherine Garnier e del suicidio di Jean Eustache.
Il titolo, crudezza a parte, potrebbe essere quello di un mélo ma le cose sono più complicate di così, perché la maman (Marie) non ha figli, giusto un amante che nutre e mantiene, e la putain (Veronika) "scopa tutti gli uomini che può" per piacere, non per profitto. Dal titolo restano esclusi l'uomo che crea il legame, Alexandre, e Gilberte, la vecchia fiamma sfumata per sempre. Non si tratta quindi della storia più vecchia del mondo, vecchia quanto il cinema almeno e quanto l'Aurora di Murnau, quella di un uomo indeciso tra due donne e tentato dall'illecito. La questione per Eustache non è sostituire una coppia con un'altra ma fuggire l'idea stessa della coppia per un'utopia sentimentale infinitamente estensibile. Il risultato non cambia, l'impossibilità dell'amore è dietro l'angolo, l'inestricabilità della relazione uomo-donna in un letto posato a terra.

Alla vertigine dell'infedeltà, succede l'ossessione dell'impegno, il film comincia e si chiude con due domande di matrimonio, e il disco (ri)suona un vecchio refrain. Come in Le due inglesi, dove Jean-Pierre Léaud interpretava già il terzo lato del triangolo, i vecchi demoni, i sentimenti vivi e le gelosie sopravvivono e "fanno male". Soprattutto nella Parigi di Eustache, dove uno più uno non si sommano mai. Né per una coppia, né per l'altra. Ci sono solo solitudini nel film che dimorano separate dal montaggio, come se uomo e donna non potessero convivere nella stessa immagine. Quando succede, la camera da letto diventa un campo di battaglia, un teatro di operazioni belliche. Se i café di Saint-Germain sono luoghi di incontro, lo spazio domestico è un luogo di scontro dove la parola, più che altrove regna sovrana. Bisogna ascoltare, ascoltare tutto, bere ogni dialogo con whisky e Pernod.
In La maman et la putain la parola è la forma, la trama, il colpo di scena, lo straripamento che nasconde il vuoto riempito sovente da una canzone suonata per intero da un giradischi. Alexandre, che ha le carte in regola per essere una canaglia, parla come un libro, ogni opinione è una citazione, ogni confessione una negazione per sottrarsi, perché è meno osceno mascherare il cuore che metterlo a nudo. Gli aforismi del dandy, che contrastano il silenzio, rimbalzano sulle parole vere e crude di Veronika, che grida la sua esistenza. In un lungo piano fisso che non lascia scampo e va dritto al cuore, confessa il suo amore o forse chiede aiuto. Françoise Lebrun si abbandona completamente alla camera e a un monologo travolgente sulla mancanza di consistenza della vita, in cui tutto si mescola, sesso e amore, desiderio di maternità e morte, mascara e lacrime.
In questa epopea (deliberatamente autobiografica) del sentimento amoroso, Eustache filma relazioni che non smettono di ramificare, si interroga sulla coppia, la sua necessaria evoluzione, l'amore libero, la parità uomo-donna, il desiderio femminile, il dolore di stare al mondo. Guardiani del fuoco e di quel testo mostruoso, la sceneggiatura conta 300 pagine, i suoi attori aggiungono un accento singolare: la folgoranza Nouvelle Vague di Jean-Pierre Léaud (Alexandre), l'aura bressoniana di Isabelle Weingarten (Gilberte), l'opacità renoiriano di Bernadette Lafont (Marie) e la ieraticità di Françoise Lebrun (Veronika), metà Falconetti, metà Demazis. Praticamente una carta geografica del cinema francese.
Come nessuno, il film fiume di Eustache mette in scena il disincanto degli orfani del '68, spettri che si sfiorano senza scaldarsi, cercando rifugio in un'erranza parigina piena di insolenza o in certe ore pallide della notte, tra le lenzuola sgualcite di Jean-Pierre Léaud o nella fibra letteraria dei loro monologhi. Spalancato sull'amore e sul diritto della donna a condurre la propria vita come desidera, questo triangolo equilatero che "beve, fuma, scopa" e parla, seguendo il desiderio di geometria di Serge Gainsbourg, dispiega la parola femminile e deflagra il nostro piccolo mondo confuso, coi suoi punti di riferimento ancestrali perduti e nessun sentimento per la memoria. In quel flusso infinito di gesti e di parole, anche la crudeltà e il bisogno di ferire hanno il loro posto, perché tutto in Eustache è terribilmente e meravigliosamente umano. A (ri)guardarlo oggi, il suo modello incandescente, che non si comportava bene con le donne e praticava il 'nullismo', non avrebbe potuto insegnare il savoir-vivre alle nuove generazioni, ma che invidia il suo gusto arrogante del caos...

Marzia Gandolfi, Mymovies

21 marzo 2023

Miracle: la potenza dei sogni

Vincitore della24ma edizione del Far East Film Festival e del Gelso d’Oro è il sudcoreano Miracle: Letters to the President di Lee Jang-hoon, una toccante favola moderna tra commedia e dramma che coinvolge e travolge, un po’ come il treno senza stazione del film, con la forza e la perseveranza del giovane protagonista Jun-gyeong (un incredibile Park Jeong-min).

Seppur romanzata, la storia narrata nel film si basa su un episodio reale: la costruzione di una piccola stazione ferroviaria nell’isolata campagna coreana per iniziativa privata. Siamo in un piccolo villaggio della provincia del Gyeongsang del nord, nella Corea centrale, dove non ci sono strade ed il treno non ha fermate; l’unico modo per arrivarci è un lungo cammino lungo le rotaie, tra tunnel bui e ponti sospesi sul fiume, un dantesco girone dei dannati per anime incolpevoli che punisce con la morte ogni minima disattenzione o una semplice sorte avversa. È qui che vive Jun-gyeong, genio in erba della matematica, con il padre (macchinista spesso assente da casa) e la sorella Bo-gyeong; testimone sin da bambino di terribili incidenti, il giovane coltiva il sogno di costruire una stazione ferroviaria per il proprio villaggio, che permetta agli abitanti un viaggio sicuro. [...]

Miracle: Letters to the President è un inno al potere dei sogni; con grazia e delicatezza, Lee Jang-hoon tratteggia la storia ed i suoi protagonisti facendoli vibrare di passione, che sia inespressa o palesata, raccontandola altresì con immagini suggestive ed evocative ma con tocco leggiadro, coinvolgendo empaticamente lo spettatore sia nel dramma che nella commedia; non mancano infatti, nella equilibrata costruzione della narrazione, momenti di commozione intrecciati con altri di candida comicità, di cui memorabile rimarrà il saluto finale di Jun-gyeong e Ra-hee sulle note del Tempo delle Mele, quella Reality di Richard Sanderson che proprio in quegli anni faceva sognare i giovani adolescenti di tutto il mondo.

Michela Aloisi, CineClandestino

09 marzo 2023

Argentina, 1985: la parola alla giustizia

Torture, sparizioni, spari e morte: è un manto funereo, di un nero profondo, quello che ha coperto per cinque, lunghissimi anni, l'Argentina durante il mandato dittatoriale di Jorge Rafael Videla. Una parentesi dolorosa, che brucia come una ferita aperta, ma che il regista Santiago Mitre lascia ai confini del fuori campo. Nessuna riproposizione visiva di quegli anni; a rivivere sullo schermo sono solo i suoi ricordi, lasciando che siano gli spettatori, con la forza della propria immaginazione, a colmare quelle falle narrative. È nella portata mnemonica dei testimoni chiamati a processo, e delle parole impresse su documenti di archivio, a immergere il pubblico nello spazio-tempo di quegli anni, recuperando un senso di violenza e ingiustizia sociale inaudita, eppure costantemente pronto a ripetersi, in parti diverse del Mondo. Seguendo le fasi salienti del maxi-processo con a capo il procuratore Julio Strassera, Mitre riesce a redigere il proprio saggio storico, svestendo la propria opera di tratti finzionali e romanzati, per abbigliarla di un vestito di fattura documentarista. Una scelta sottolineata dall'inserimento di immagini restituite sotto forma di falsi estratti televisivi, tali da elevarne la portata storica, ed esacerbare quella presa in prestito da momenti altri, realmente accaduti, che fanno del proprio film uno sguardo diretto sul passato. Un'apertura dei cassetti mnemonici di carattere nazionale, mai compiuta con fini prettamente didattici, ma semplicemente dimostrativi, affinché il sangue dei padri non venga rigettato su quello dei figli. La nazione come grembo materno, e la famiglia come parte della nazione. È così che l'Argentina viene restituita in senso ideale, tanto dalla propaganda, che dagli scarti di raccordo che uniscono le varie sequenze di Argentina, 1985. Esiste un legame stretto, inossidabile, che unisce ogni cittadino al proprio paese; un rapporto ancor più profondo se a infondere vita all'opera è la figura di un uomo di giustizia come il procuratore Strassera.

Elisa Torsiello, Movieplayer

07 marzo 2023

Perché Disco Boy è un colpo di fulmine

Presentato alla Berlinale, unico film italiano in concorso, ha vinto l’Orso d’Argento per il Miglior Contributo Artistico per la fotografia (meravigliosa) di Hélène Louvart. La domanda d’obbligo quindi adesso è una sola: ma com’è Disco Boy di Giacomo Abbruzzese? Un film potente, potentissimo, figlio del miglior cinema contemporaneo, che mischia le derive digitali di questo storytelling visivo in un calderone di esoterismo, luci al neon, sonorità elettroniche e rimandi alla Nuova Hollywood. [...]

Franz Rogowski è il militare bielorusso Aleksei, un moderno Walter Kurtz in questa versione elettronica di Apocalypse Now. Rogowski è il protagonista assoluto, in fuga da una nazione fascista, salvato da metodi militari poco ortodossi, che si reinventa eroe e risale il Delta del Niger in un viaggio anche (e soprattutto) interiore alla ricerca di un vero scopo, lontano dal suo cuore di tenebra. A fare luce sul suo viaggio ci pensano le soluzioni visive che Abbruzzese adotta, che ai più ricorderanno il cinema di Nicolas Winding Refn (soprattutto nei momenti meditativi e di transizione silenziosa), ma che in realtà sono molto più vicine all’arte contemporanea e digitale: c’è una lotta sul pelo dell’acqua vista attraverso la visione termodinamica che richiede anche un grande sforzo di immedesimazione da parte dello spettatore.

Non è un caso che molta di questa deriva artistica venga poi collegata ai temi più esoterici e tribali di questa corrente, preponderanti anche nella parte centrale del film, che mischia il destino di Aleksei con quelli dei fratelli Jomo e Udoka (Morr Ndiaye e l’artista ivoriana Laëtitia Ky, fantastica), due facce della stessa medaglia: uno cerca il riscatto a partire dalla riconquista della propria territorialità, in lotta col moderno colonialismo; l’altra – più vicina ai sentimenti di Aleksei – è alla ricerca di una rivalsa in un luogo altrove, così da conquistare la propria individualità perché sconfitta da quei contesti che le hanno dato i natali. Questo luogo “altro” è, infine, la pista da ballo: nello specifico quella di un club francese dove Aleksei e Udoka si rincontrano dopo l’estenuante esperienza in Nigeria.

La pista da ballo trascende, diventa metafisica e si fa esperienza spirituale più che carnale. La grande colonna sonora curata da Vitalic accompagna questa unione di destini.[...] Si apre forse così una nuova fase del cinema italiano, finora solo auspicata: quella fatta di intenzioni e della versione più estrema dello show, don’t tell e ci pensa Abbruzzese a guidare questa nuova corrente. E noi? Noi siamo tutti dei disco boy e non vediamo l’ora di continuare a ballare…

Davide Merola, The Hot Corn