17 febbraio 2023

Wittgenstein di Derek Jarman. Quando la Filosofia arriva sullo schermo

Il regista Derek Jarman ha deciso, nel 1993, di realizzare un’opera cinematografica focalizzata su uno dei mostri sacri del pensiero novecentesco. L’autore in questione è il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein. L’omonimo film, Wittgenstein, si concentra sulla vita e sul pensiero del filosofo viennese. Come un’opera teatrale, la pellicola è caratterizzata da una scenografia minimalista: uno sfondo nero, da cui fuoriescono i rispettivi attori. Wittgenstein non è una ricostruzione minuziosa della vita del filosofo, ma si limita soltanto a riportare parte del suo pensiero tanto controverso quanto importante. Wittgenstein, infatti, è considerato il massimo pensatore del XX secolo, in grado, addirittura, di aver dato vita a una nuova logica. Il suo campo di interesse fu principalmente il linguaggio e il suo contributo fu di vitale importanza. [...]

Il regista ci mostra come sia possibile narrare la vita del filosofo, tanto complessa quanto affascinante. L’elemento originale della pellicola è quella di presentarci una trama su una sequenza logica di episodi, di flash sul pensiero in continua evoluzione. Come a volere uniformare la sua vita alla frammentazione dell’opera principale.Derek Jarman riesce, in fin dei conti, a comporre un biopic inimitabile, dal forte valore artistico. È un film completamente sperimentale e indipendente. Non mancano, tuttavia, immagini da commedia surreale, mettendo in scena immagini davvero strambe, con personaggi bizzarri e dai colori vivaci. Per fare alcuni esempi: il marziano che provoca un Wittgenstein bambino con domande assurde, Russell vestito come se fosse un dandy, e la sua amante, lady Ottoline Morrell, concepita con indumenti accesi ed eccentrici.

Interessante è lo sfondo nero. Da qui escono gli attori che recitano, come se ci trovassimo dinanzi a un teatro. Jarman ritrae l’essenza profonda del pensiero di Wittgenstein, aggiungendo quell’elemento di casualità presente nel mondo. Allora ciò che crea non è un ritratto dell’uomo, ma del suo pensiero. Il regista, in Wittgenstein, riesce a darci un’idea del filosofo. Spesso le immagini tendono ad aggrovigliarsi, ma rispettano il pensiero dell’autore: confusionario e spesso contraddittorio. Jarman, nella sua audacia, rende omaggio a uno dei pensatori più importanti del Novecento. Una delle menti più significative, che ha saputo offrire importanti spiragli su cui riflettere.

Alessandro La Mura, ArteSettima

15 febbraio 2023

Tutta la bellezza e il dolore: il leone d'oro a Venezia e candidato agli Oscar è al carbone

Una narrazione volutamente frammentaria che emana dalla vita di Goldin filtrata dall'occhio di Poitras, che apparentemente scompare ma in realtà sta decidendo l'ordine delle diapositive. E nessuno si addormenta, si stanca o si annoia, come nelle più tragiche serate dai vicini che ti facevano vedere le foto della vacanza. Bisogna guardare e ascoltare, senza appello, come i Sackler a un certo punto saranno costretti a fare. Perché dalla bellezza a volte non nasce niente, mentre dal sangue versato nascono film come questo.

Una lotta che parte da lontano, un attivismo insito nella propria vita, un'esperienza brutale che fa nascere fiori dal sangue versato. Tutta la bellezza e il dolore racconta la vita della fotografa e attivista Nan Goldin, dai suoi esordi fino alla lotta contro la famiglia Sackler, proprietaria di Purdue Pharma, che ha messo sul mercato l'OxyContin, farmaco antidolorifico che negli Stati Uniti ha portato alla dipendenza e alla morte migliaia e migliaia di persone. Una lotta che la regista Laura Poitras mette in scena attraverso l'arte, la fotografia, i musei, portandosi a casa il Leone d'Oro a Venezia e la candidatura all'Oscar. E gli occhi del mondo intero.

Edoardo Ferrarese, Everyeye

07 febbraio 2023

Babylon: un’ambizione sfrenata che si scontra con l’amarezza

Babylon è sinfonia, a tratti pura improvvisazione. Se non ci si ferma in superficie, si scopre che tutto è coerente. Quello che mostra Chazelle non deve avere una logica, rifiuta ogni forma di verità, si stampa la leggenda. Va in scena il mito di Hollywood, non la cronaca. E nei sogni, si sa, tutto è possibile. Fino al risveglio, quando i piedi devono smettere di volare. Chazelle non insegue l’armonia, l’equilibrio. Ancora una volta c’è il desiderio, l’invito a puntare il firmamento, quasi un’ossessione che si faceva tangibile in First Man – Il primo uomo, quando Gosling era Armstrong sulla luna. [...]

Ma in Babylon non c’è giusto o sbagliato, non ci sono eroi, forse solo qualche inconsapevole pioniere. Il regista dà una forma all’insensatezza, prova a renderla arte, accarezzando l’incredibile, amando visceralmente il grande schermo, in ogni sua sfumatura. È un viaggio tra i generi, che sfocia anche nel brivido, che non si smarca dalle influenze felliniane e sceglie di essere estenuante. Ma si candida per essere comunque una delle esperienze cinematografiche dell’anno, nel bene e nel male. È un cinema sfrenato, coraggioso, pura ambizione.

Di sicuro Chazelle non si era mai spinto così in là. In un’epoca omologata, bisogna credere nel delirio. Ed è quello che ci viene chiesto: crederci, pensare che il Rialto può essere eterno, che il cinema vive e può superare ogni crisi, che la sala può rinascere. È un multiverso? Non lo sappiamo. Di sicuro è un duello, come in Whiplash, tra allievo e maestro, ossessione e talento. Anche Babylon è una frustata. Può far male, respingere, per poi attrarre verso di sé con foga. È un gioco al massacro, una bulimia di situazioni ingestibili che si fanno epopea, un’epopea dello sguardo, uno smisurato atto d’amore, la volontà di rendere l’imperfezione l’unico codice esistente. Estremo, ardito, Babylon è feroce, goliardico, disperato, complesso. Prendere o lasciare.

Gian Luca Piscane, Cinematografo

01 febbraio 2023

Le otto montagne: un’ode all’amicizia e ai ricordi

Che "Le otto montagne" sia un film incentrato sulle persone e sui rapporti umani, prima di ogni altra cosa, ce lo dice il più evidente degli elementi formali adottati da Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch. Un elemento macroscopico, che si manifesta chiaramente anche ai meno attenti agli aspetti tecnico-stilistici: la scelta del formato.
Il 4/3 contrasta in maniera quasi eclatante con la connotazione paesaggistica del film, che emerge fin dal titolo e, ovviamente, dalle ambientazioni alpino-himalayane. Contrasta con la possibilità di allargare il campo nelle riprese montane, di restituire panorami (e panoramiche) che sarebbero quasi scontati, vista appunto l’ambientazione prevalente. E invece i registi chiudono letteralmente lo schermo sull’asse orizzontale e decidono che lo spettatore si dovrà concentrare sui due protagonisti, Bruno e Pietro, senza lasciarsi distrarre, senza che l’occhio possa perdersi a contemplare quella natura che lo stesso Bruno, in uno dei dialoghi più significativi del film, ripudia in quanto elemento indefinito e astratto, esaltato dalla gente di città e ridimensionato dai montanari duri e puri, da chi con la natura ci ha quotidianamente a che fare. [...]
L’altra scelta emblematica – e pienamente centrata – dei due registi è quella dell’emancipazione pressoché totale dai campi lunghi e, soprattutto, dalle inquadrature aeree, in un film in cui il richiamo del drone era un canto delle sirene difficile da zittire e da non assecondare. E invece i due registi rimangono con i piedi (e con la macchina da presa) ben ancorati per terra, cimentandosi soltanto in due occasioni con delle carrellate aeree di significato peraltro diametralmente opposto. Due aerial shots quasi inevitabili, anche se soltanto in un caso la scelta è veramente importante dal punto di vista sostanziale: in particolare, nell’oggettiva in allontanamento sulla baita immersa nella neve, che diventa un campo lunghissimo che rende, meglio di ogni altra immagine riprodotta fino a quel momento, l’idea della solitudine e dell’eremitaggio cui si vota Bruno.

E così i due aspetti citati (il formato 4/3 e la scarsità di riprese dall’alto e di campi lunghi, con conseguente privilegio dei piani ravvicinati) sono entrambi rappresentativi di una dedizione al racconto nei suoi aspetti più umani e sensibili, quelli che del resto mette in luce il romanzo di Cognetti da cui il film è tratto.
In tal senso, il lavoro di adattamento (ad opera degli stessi registi) può dirsi pienamente riuscito. In primis perché non era per nulla semplice trarre una sceneggiatura all’altezza, per un film di due ore e mezza di durata, da un romanzo comunque fortemente intimo e intimista. Un romanzo che è stato un caso editoriale capace di attirare su di sé un’attenzione quasi planetaria.
E invece del libro si scelgono i momenti e i dialoghi davvero salienti e anche la voce narrante, quasi inevitabile in un’opera di questo tipo, è centellinata in maniera esemplare. In alcuni casi forse anche troppo, visto che là dove il narratore esterno era pressoché indispensabile (i segmenti dedicati all’infanzia e all’adolescenza di Pietro) la parsimonia nell’utilizzo della voce fuori campo porta all’inevitabile conseguenza di mettere in bocca ai giovani protagonisti frasi e osservazioni che sembrano molto più mature di chi le pronuncia, come quando il Pietro dodicenne esprime un giudizio lapidario sulla città da cui proviene e sulla sua influenza nefasta sulle persone: "Torino lo rovina uno come Bruno". [...]
I due cineasti belgi sono assecondati in maniera convincente da una coppia di attori che rappresentano, ad oggi, il meglio che l’Italia possa esprimere per quella generazione. Alessandro Borghi è forse anche più nella parte del più quotato Marinelli, nonostante qualche piccolo appunto che si potrebbe muovere al suo accento, talvolta più vicino al bergamasco-valtellinese che all’inflessione del patois valdostano. Inezie, in ogni caso, che chiaramente non spostano il giudizio su un’opera che poteva rappresentare un rischioso salto nel buio e che invece si è fatta apprezzare anche a livello internazionale (Premio della giuria a Cannes 2022).

Vincenzo Chieppa, Ondacinema

24 gennaio 2023

Aftersun: l’opera prima dell’anno è un trionfo di regia, delicatezza e memoria

Aftersun, l’acclamato esordio alla regia della cineasta scozzese Charlotte Wells prodotto dal Barry Jenkins di Moonlight e amato anche da Claire Denis, è arrivato in Italia in poche sale selezionate dopo aver fatto la parte del leone in molte autorevoli classifiche di fine anno e aver guadagnato, solo per restare alla stampa britannica più prestigiosa, la prima posizione nelle top dei migliori film del 2022 del Guardian e di Sight & Sound. 

Si tratta, senza mezzi termini, dell’opera prima dell’anno appena trascorso, di una delicatezza folgorante: un padre divorziato, che sta per compiere 31 anni, in vacanza in un modesto resort in Turchia popolato da molti britannici come loro con la figlia non ancora adolescente (un elemento fondamentale), che vive invece a Edimburgo con la madre, sono i due nuclei di una messa in scena che fa di praticamente ogni dettaglio una tavolozza da affrescare con tatto lieve, quasi impercettibile, di una purezza lancinante e tutta in sottrazione, senza mai l’ombra di alcun manierismo epidermico (anche quando la macchina da presa si sposta lateralmente per prendere in pieno, come fosse un quadro da posizionare su una parete, la scritta «We know the perfect place»). 

Aftersun è una sorta di nuova versione dell’assai bistrattato e sottovalutato Somewhere di Sofia Coppola ancora più scarnificato, frammentato e intermittente, tanto nell’uso di movimenti e punti macchina quanto nella sostanza della resa, nel quale sono la misura e la compostezza nell’usare delle inquadrature ricercate per fuggire dal cuore dei conflitti e dei traumi – riversandoli, idealmente, in un fuori campo assoluto da riempire con empatia e commozione – a fare e addirittura a determinare tutta la differenza del mondo, tra lampi di queerness, dissolvenze carezzevoli e pianti virili simili a latrati consumati di spalle, fino a slabbrare il confine tra passato e presentema anche tra sogno e realtà, sulle note di un utilizzo quantomai memorabile e da brividi del brano Under Pressure di David Bowie e i Queen. 

Le immagini degli home movies familiari, invitate a prendersi il loro tempo (magari quello di far sviluppare una polaroid), in un simile contesto sono chiamate a fare da traccia della memoria, da collante tra il presente e il passato delle età della vita, da “doposole” – quello del titolo, anche – per evitare di scottarsi nel contatto ustionante con la luce dei propri ricordi (la radiografia di luci, suoni e sentori degli anni ‘90, da Losing My Religion alla Macarena, è tanto sotterranea e impalpabile quanto sfacciatamente esibita quando non addirittura sensuale).

Aftersun, in tal senso, non è solo un film costruito a misura di found footage ma anche l’opera del nuovo millennio che forse più di ogni altra riesce a fare di questa pratica, subissata da infinite e ormai polverose declinazioni metalinguistiche, un ritrovamento di sommo grado e al cubo, intimo e toccante: l’archeologia malinconica di una memoria liberissima e struggente restituita attraverso la forza docile ma destabilizzante di ciò che, con cocciutaggine forse altrettanto commovente, ci ostiniamo a chiamare ancora cinema.

Davide Stanzione, BestMovie

19 gennaio 2023

Il film che ha rivelato al mondo il talento di Takeshi Miike: AUDITION

Uscito nel 1999, quando il nome di Takashi Miike non è ancora divenuto sinonimo di culto per nerd cinefili e amanti delle forme estreme di genere, Audition è il film che rivela al mondo occidentale il talento del prolifico regista giapponese. Pur rappresentando per molti versi un oggetto a sé nella smisurata filmografia di Miike, Audition rimane fondamentale per comprendere il senso del suo cinema e l'evoluzione del cosiddetto J-Horror, che prende forma in quegli anni partendo principalmente dagli spunti di Miike, Hideo Nakata e Kiyoshi Kurosawa.

Se in genere Miike è solito sconvolgere da subito e mettere in chiaro che con lui lo spettatore intraprenderà un viaggio condotto da regole estreme e spesso surreali, il primo segmento di Audition ha l'ingannevole aspetto - e le musiche di Koji Endo assecondano abilmente l'atmosfera - di un mélo nipponico convenzionale, su un padre che si strugge nel ricordo della moglie, un figlio che lo spinge ad aprire un nuovo capitolo nella sua vita e un contesto generale che sfugge alla sua comprensione. Le situazioni in cui incappa Aoyama evocano la medesima riflessione ricorrente sulla solitudine e sull'infelicità che accomunano diverse generazioni del Giappone. Uno stato di perenne malinconia che alcuni sfogano in un concerto punk e altri nella pornografia. Aoyama sceglierà un dispositivo più socialmente accettabile ma non meno ipocrita: quello di una pantomima di audizione, inscenata per scegliere una potenziale compagna, molto più giovane di lui, remissiva e avvenente. Ossia la perfetta incarnazione del ruolo della donna come inteso e voluto da una società neo-confuciana, che Asami finge di interpretare in una sorta di provino nel provino, indossando un bianco virginale e i panni dimessi della ragazza sola e indifesa. L'ultimo segmento rivelerà la realtà celata sotto la percezione, ma nonostante la deriva thriller e grandguignolesca Miike sembra mettere in scena, in forma estrema, una dualità uomo-donna dai contorni sadomasochistici, costruita sull'inevitabilità della menzogna reciproca. I ruoli di dominante e dominato, attivo e passivo, possono ribaltarsi, ma né l'elemento mascolino né il femminino sono esenti da colpe.

Con lo sguardo retrospettivo, e figlio dello spirito del tempo del secondo decennio del terzo millennio, è inevitabile osservare Audition in chiave femminista e constatare come l'atavico patriarcato della società giapponese e l'adeguamento a uno status quo sottilmente oppressivo non lascino vie di uscita a una ragazza sola. Al di là degli eccessi a cui conduce la visione di Miike, è un fatto che la scena di sesso tra Aoyama e Asami sia disturbante e innaturale almeno quanto le degenerazioni orrorifiche del segmento conclusivo. Quel che Miike sembra suggerire è che tanto il lato più evidentemente grottesco e cruento che quel che avviene nella "normalità" sotto le lenzuola domestiche sono rovesci della medesima medaglia, volti simmetrici di una società piagata da mali antichi. La sceneggiatura di Daisuke Tengan - figlio del grande regista Shoei Imamura - è tratta da un racconto di Ryu Murakami, non nuovo a tematiche scabrose da un punto di vista sessuale. Ma l'adattamento di Miike, che aggiunge una sfumatura hitchcockiana al personaggio di Aoyama, è libero e originale, come d'abitudine per uno spirito libero, intento, soprattutto negli anni migliori della sua carriera, a reinventare costantemente fonti eterogenee con un linguaggio unico e personale.

Emanuele Sacchi, Mymovies

11 gennaio 2023

Un bel mattino: come drammi attesi e amori inaspettati convivono nella quotidianità

Ormai quasi un habitué del Festival, Mia Hansen-Løve torna a Cannes in occasione della 75esima edizione della rassegna con Un bel mattino, presentato nella Quinzaine des Réalisateurs, la sezione nella quale esordì nel 2007. Trascinato dalla protagonista interpretata da Léa Seydoux, il nuovo film offre uno sguardo semplice ma mai banale sull’intrecciarsi di drammi familiari inevitabili e rinascite sentimentali nella vita di tutti i giorni. [...]

Un bel mattino è infatti un film sulla quotidianità del dolore, ma anche sulla semplicità con cui nascono nuovi sentimenti, che fanno quasi da contrappeso emotivo. Dolori e passioni colpiscono tutti e tutti i giorni; il grande pregio di Un beau matin è forse proprio quello di non trattare la sua protagonista – una Léa Seydoux sempre più convincente e “coinvolgente” – come un’eroina. Non c’è affatto bisogno di eroismo per affrontare la vita e tutto ciò che si presenta: si tratta di grandi ostacoli che colpiscono persone normali. La forza di Sandra sta piuttosto nell’accettare – non senza lacrime, ma sempre a testa alta – che i rapporti umani vanno e vengono. A un padre che si dimentica di lei corrisponde, quasi casualmente, una nuova energia vitale: un uomo se ne va e un altro arriva, e in queste montagne russe emotive la donna non alza mai bandiera bianca, accettando la vita.

Pietro Guerrini, Today.it

21 dicembre 2022

Bones and all : un viaggio on the road alla scoperta di se stessi

Luca Guadagnino torna a trasformare in immagini una storia d’amore quasi impossibile, ancora una volta adattando un romanzo, Bones and All (Fino all’osso) di Camille DeAngelis. Un coming of age che sarebbe molto riduttivo definire di genere, perché il regista di Chiamami col tuo nome e Suspiria va molto oltre le definizioni cinematografiche, realizzando un’opera potente e profonda che scava in un’America anni ’80 nascosta e pericolosa, e nelle anime dei due protagonisti, Maren (Taylor Russell) e Lee (Timothée Chalamet), perfetti e struggenti outsiders alla ricerca di un posto nel mondo. Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2022 (dove ha vinto due premi, Miglior Regia a Luca Guadagnino e Miglior Interprete esordiente a Taylor Russell) il film mescola violenza estrema e amore assoluto in un on the road fisico ma anche mentale, compiuto da personaggi che sono alla ricerca costante di qualcosa che non credono di avere dentro di loro.

“È la storia di due giovani che scoprono che, per loro, non esiste un posto da poter chiamare casa, per cui devono reinventarselo. Maren e Lee vanno alla ricerca della loro identità in situazioni estreme, ma le domande che si pongono sono universali: chi sono, cosa voglio? Come posso sfuggire a questo senso di ineluttabilità che mi trascino dietro? Come possono entrare in sintonia con qualcun altro? In questo passo Guadagnino spiega come lui e lo sceneggiatore Dave Kajganich affrontano il tema del cannibalismo, nel modo più universale possibile, ovvero affrontando il tema della diversità, proprio come se fosse una patologia, una malattia mentale più che fisica, sottolineando come nella nostra società quando soffri di un disturbo della mente finisci per essere emarginato, non compreso, isolato: il cannibalismo dunque in questo film non è altro che una metafora, viene rappresentato come una vera e propria “disfunzione”, che esattamente come la depressione, o il disturbo borderline della personalità, implica il provare paura, vergogna, impulso, porta a isolarsi o nella migliore delle ipotesi ad andare alla ricerca di qualcuno di simile a noi con cui condividere questa solitudine.

Maren è una protagonista forte, un personaggio femminile sfaccettato, molto reale (nel film Guadagnino non inserisce alcun elemento fantasy perché non ce n’è bisogno): coraggiosamente accetta il suo destino, mai non in modo passivo, si mette alla ricerca di qualcosa basandosi solo su se stessa e sulle sue risorse. Il suo viaggio è una vera e propria scoperta: non si vergogna della sua natura, non si fa agire dal suo “complesso” ma decide di venire allo scoperto e vivere la sua vita nel modo più autentico possibile. È proprio quando decide di cercarsi che trova l’amore. Innamorarsi è l’elisir che fa parte del percorso perché solo entrando in contatto con la propria natura e autenticità è possibile condividere davvero qualcosa con qualcuno e innamorarsi, affidandosi all’altro ritrovando finalmente fiducia in se stessi, dopo anni di fuga da se stessi (e dagli altri). Maren, proprio come Lee, è costretta ad “arrendersi” alla sua malattia, solo così potrà essere se stessa e riuscire a trasformare quello che potrebbe essere visto come un punto debole, in una forza: Maren non è solo la sua malattia, non è solo cannibalismo, ma è tutti gli aspetti della sua personalità e del suo carattere che la contraddistinguono. È la lotta per superare l’isolamento a unire Maren e Lee. Uno di fronte all’altra si mettono in discussione, si destabilizzano a vicenda, Lee con la sua finta corazza e Maren con i suoi dubbi morali. Innamorarsi è come guardarsi allo specchio: fa paura, ma nessuno dei due si tira indietro, fino alla fine, fino alle ossa.

La colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross è l’elemento che dallo schermo porta le immagini e le emozioni direttamente alla nostra anima, inevitabilmente tramortita dopo la visione del film.

Margherita Giusti Hazon, Masedomani.com

21 dicembre 2022

Eo: una versione amara e umanistica di un “road movie”

L’asino non si chiama più Balthazar. Di più, non ha praticamente più nome: tutti lo chiamano EO, che altro non è se non l’onomatopea del raglio, quel verso straziante e straziato che contribuisce a donare al ciuchino l’aria di fragilità che lo rende così dolce, carezzevole, spaurito. Non si chiama più Balthazar, per quanto sia evidente e dichiarata la filiazione del nuovo film di Jerzy Skolimowski, che con coraggio – qualcuno oserebbe definirla sventatezza – rimette mano al capolavoro di Robert Bresson, universalmente riconosciuto come uno dei film “irripetibili” della storia del cinema.  [...]

A ottantaquattro anni, al diciottesimo lungometraggio di una carriera quasi sessantennale (l’esordio fu con Rysopis nel 1964), Skolimowski osa guardare negli occhi l’asino, la sua immutabile dolcezza, e fissarne la vita/martirio. Non lo chiama per nome perché non è più tempo di personalizzazioni: EO è un asino, probabilmente solo chi lo conosce bene potrebbe distinguerlo da altri della sua stessa specie. Basta il raglio a definirlo, basta quel suono che non possiede la classe del cavallo e lo relega a un ruolo subalterno: il cavallo è trattato con cura, lavato con grande attenzione, mentre EO trascina carretti per lui evidentemente troppo pesanti, mentre macchinari costruiti dall’uomo lo sovrastano, sfiorandolo e minacciandone in continuazione l’esistenza. [...]

Il girovagare senza meta dell’asino, che attraversa l’Europa Unita nella sua noncuranza di tutto ciò che non la riguarda personalmente (la vicenda inizia in Polonia e termina in Italia), non è incosciente: nell’ottica di Skolimowski lui vorrebbe ricongiungersi alla ragazza, al punto da scappare da una fattoria in cui potrebbe condurre una vita tranquilla fino alla vecchiaia solo perché lei è andato a trovarlo. In questa scelta EO trova la sua collocazione: non un racconto morale, ma un road movie avventuroso verso l’ineluttabile. Per questo Skolimowski abbandona qualsiasi riferimento all’ascetismo biblico e al nitore dell’opera bressoniana per condurre il film in territori assai più ibridi, dove il dramma si lega al grottesco, e la violenza può esplodere nei modi più impensati – la gola tagliata di netto al camionista che sta cercando di rimorchiare una morta di fame, l’irruzione degli ultras per distruggere la festa dei tifosi della squadra avversa, che ha vinto solo perché EO, facendo rumore, ha distratto il calciatore al momento di tirare il rigore. In questo modo può deflagrare anche lo strapotere visivo di Skolimowski, in cui l’immagine domina non attraverso la forza visionaria, che pure il rosso incandescente della prima sequenza può suggerire, ma per via di un controllo assoluto della macchina digitale: il naturale può essere glorificato, pare dire il regista, solo attraverso il digitale, perché può essere squadernato nei suoi dettagli solo all’apparenza insignificanti ma in realtà gloriosi, come una raganella che si getta nell’acqua del fiume, o un ragno che sta tessendo la tela.

Raffaele Meale, Quinlan.it

20 dicembre 2022

Fairytale: il nuovo, affascinante e complesso film di Sokurov

Era il film più atteso del Festival di Locarno ed è diventato molto presto uno dei più discussi, chiacchierati e interpretati al termine delle prime proiezioni: “Fairytale” di Aleksandr Sokurov è arrivato come un ufo all'interno del cartellone svizzero, creando ampi dibattiti e riflessioni. Non poteva che essere altrimenti di fronte alla nuova opera di uno degli autori più significativi degli ultimi decenni, regista di capolavori come “Madre e figlio” del 1997 o “Arca Russa” del 2002, oltreché Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2011 per un altro film meraviglioso come “Faust”.

Si apre con immagini dal sapore sublime e allo stesso tempo inquietanti, questo lungometraggio in cui l'autore fa rivivere personaggi del ventesimo secolo come Winston Churchill, Adolf Hitler, Iosif Stalin e Benito Mussolini. Queste figure principali della narrazione si trovano all'interno di una sorta di inferno monocromatico, con riferimenti alla Divina Commedia e alle relative illustrazioni di Gustave Doré.Ci sono anche apparizioni di altri personaggi come Napoleone e Gesù in quest'opera profondamente politica, che usa il passato per parlare del presente, in cui Sokurov torna a trattare il tema del potere e delle dittature dopo aver già dedicato a questi argomenti diversi lungometraggi (tra cui si può citare “Moloch”, un agghiacciante e potentissimo ritratto, sempre su Hitler, datato 1999).

Se la narrazione è indubbiamente ostica e può dare adito a qualche perplessità, priva di sbavature è invece un'estetica semplicemente meravigliosa, tanto per gli effetti visivi quanto per le scelte fotografiche. Alla base c'è una scelta a dir poco complessa da realizzare, in cui le vere immagini dei dittatori e dei leader politici i sono state “ritagliate” e inserite all'interno di un contesto scenografico dal taglio profondamente originale e persino sperimentale. Sokurov ha sempre presenti numerosi riferimenti pittorici (Caspar Friedrich è uno dei nomi principali di “Madre e figlio”) e anche qui non mancano possibili ispirazioni che spaziano da Goya all'arte sacra. La “fairytale” di Sokurov ha un finale ben poco fiabesco e incantato, ma è l'ennesima pellicola di un mosaico di film semplicemente unici e sempre capaci di sorprendere.

Andrea Chimento, Il sole24ore