08 giugno 2023

As Bestas: il nuovo straordinario film di Sorogoyen e la sua etica spietata

In As Bestas il carattere pericolosamente soggettivo della giustizia naturale e il principio plautino dell’homo homini lupus vengono portati all’estremo e – come già nella filmografia passata di Sorogoyen – la convinzione più o meno lecita del sopruso trasforma la ‘vittima’ in carnefice. Saranno solo i fattori ambientali e i fortuiti casi della vita che decideranno chi con la morale saprà frenare l’istinto, e sarà la caoticità degli eventi a sentenziare chi, tra intelletto e bestialità, avrà la meglio.

Il casting del film, nel costruire questa dicotomia, è brillante: i volti, la fisicità e le interpretazioni degli attori (tutte eccellenti, nessuna esclusa) amplificano questa opposizione quasi esistenziale, senza però scadere nella bidimensionalità e anzi insistendo sulle ambiguità e le sfumature di ogni maschera. Il regista ci cala in una fanghiglia dell’anima, ma pur senza cedere al politicamente corretto non manca di suggerire una flebile luce in fondo al tunnel. Parliamo dei personaggi femminili, gli unici capaci di bilanciare la ferale vendicatività degli uomini.

As Bestas, lavoro eccellente cui veramente pochissimo può essere rimproverato, è la definitiva consacrazione di un regista e sceneggiatore il cui vivido talento meriterebbe una fama ben più importante. Autori come Rodrigo Sorogoyen, che riescono a mantenere intatto il loro stile e il livello qualitativo delle proprie opere pur cambiando continuamente genere, sono merce estremamente rara. Nell’omologazione che sempre più piaga il cinema contemporaneo e nella debolezza di un cinema europeo troppo spesso ripiegato su se stesso, i film di questo impeccabile regista spagnolo sono un patrimonio da difendere con le unghie e con i denti.

Giuseppe Sallustio, Anonima Cinefili

07 giugno 2023

Animal House di John Landis: Toga! Toga! Toga!

Animal House, dietro il paravento di mille sconcezze quasi infantili, è in realtà un film scopertamente politico: il ventisettenne Landis guida una ciurma di pirati assai numerosa (c’è anche il quasi esordiente Tom Hulce) tra i quali spicca il bucaniere per eccellenza, John Belushi. “Quando il gioco si fa duro i duri iniziano a giocare”, eccola la summa del pensiero dei Delta. Distruggere tutto, perché tutto è in realtà già distrutto, e solo imbellettato come i cadaveri decomposti che devono arrivare comunque decorosi al funerale. Spassoso come pochi film a lui coevi, radicalizzazione dell’idea primigenia di M*A*S*H, Animal House è una furibonda orgia rabelaisiana nel cuore ancora “puro” dell’America. Landis, che non ama la fiera delle crudeltà fine a se stessa, contribuisce a costruire personaggi a tutto tondo che sulla carta hanno in realtà il tratto iconoclasta della vignetta satirica (si pensi anche solo ai nomi dei personaggi “cattivi”: Wormer, DePasto, Marmalard, Neidermeyer). In questo modo dona una complessità psicologica e narrativa a un materiale che rischiava di essere a uso e consumo della battuta grezza, o dell’escatologia, territori in cui si limiteranno a muoversi molti epigoni del film. Qui invece il corpo putrescente dei peggiori studenti del Paese si ritrovano a combattere, a colpi di brufoli esplosi e sconcezze d’ogni tipo, il perbenismo della Camelot di Kennedy. Inno anarchico come pochi, Animal House testimonia la libertà espressiva di Landis, il suo amore per il cinema classico, la sua erudizione, la passione per la distruzione (la sarabanda finale è imperdibile e lascia sempre a occhi spalancati per la perfetta geometria dello spazio e del tempo delle inquadrature) e per la cultura e la musica nera, che proromperà nell’immediatamente successivo The Blues Brothers. Se parte della critica restò fredda, forse spaventata da un furore così ludico e belluino a un tempo, il pubblico comprese da subito il potere rivoluzionario del film, e affrontava le proiezioni pronto a lanciare per aria il cibo e a rispondere al grido di battaglia più improbabile di tutti i tempi: Toga! Toga! Toga!

Raffaele Meale, Quinlan

30 maggio 2023

RIAPRIAMO CON UN FILM SPLENDIDO!

Dopo uno stop forzato di 3 giorni per motivi tecnici, stasera riapriamo!

Siamo contentissimi.

Riapriamo con un film speciale: Il respiro della foresta.

Un maestoso viaggio, con immagini di grande impatto visivo, che racconta l’annuale ritiro di migliaia di monache. Anziane e giovani, nei giorni più freddi dell’anno si auto-confinano in piccole abitazioni in legno su un altopiano battuto dal vento. È un film che ci avvicina al tema della fede in modo profondamente spirituale e al tempo stesso ci fa scoprire uno dei luoghi più affascinanti e remoti nel mondo.

28 maggio 2023

CHIUSURA TEMPORANEA DEL CINEMA

Purtroppo, ieri sabato 26 maggio, per motivi tecnici abbiamo dovuto annullare le proiezioni.
Oggi, domenica 27 maggio, la situazione è rientrata ma dobbiamo fare verifiche . Oggi e domani le proiezioni sono annullate.
Non preoccupatevi, i film li riprendiamo il prossimo weekend.
Guardate il sito per gli aggiornamenti.

25 maggio 2023

Il respiro della foresta, una rappresentazione visivamente potente della realtà vissuta sotto il regime totalitario

Il respiro della foresta esplora il concetto buddista per cui tutte le cose fisiche e mentali nascono, crescono, si sviluppano, decadono e muoiono, così come succedeva per Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera (2013), l’apologo morale sulla ciclicità di Kim Ki-Duk, anche se ad avvicinarsi maggiormente è Baraka (1992), un film documentario diretto da Ron Fricke, che fu direttore della fotografia in Koyaanisqatsi, il primo film della trilogia qatsi di Godfrey Reggio.

Il documentario, visivamente accattivante, offre una prospettiva stupefacente sul rigido clima tibetano e segue circa 7.000 monache buddiste tibetane che si rifugiano in capanne di legno di fortuna per un ritiro di 100 giorni che si svolge durante la parte più fredda dell’anno. La prima parte è molto evocativa e pone l’accento su dettagli fondamentali della vita monastica: le monache durante le assemblee religiose, la preparazione dei pasti, le visite mediche, l’interazione con i loro guru o la pratica della meditazione. Il pubblico viene coinvolto in una serie di scene che illustrano le varie attività delle monache, da una che disegna un’immagine di Buddha durante un sermone a un’altra che lecca una ciotola dopo il pranzo. Queste e molte altre scene formano una sequenza visiva di eventi eterogenei, che ritraggono le monache in un’immagine di semplicità, docilità e ingenuità. Agli spettatori de Il respiro della foresta non resta che ammirare lo spettacolo delle immagini che Jin Huaqing mette in scena raccontando un tratto profondo della Cina, vero ieri come oggi.

Matteo Di Maria, SentieriSelvaggi

19 maggio 2023

Toto le héros: uno sguardo sulla leggerezza dell'infanzia

Non abbiamo che una vita e questa affermazione ci definisce e ci spinge alla ricerca di un'esistenza perfetta. A ribadirlo è Jaco Van Dormael che ci parla sovente di Mr. Nobody, esplorando film dopo film le potenzialità di un destino.

La molteplicità dei percorsi che potremmo seguire, la vertigine filosofica del vivere, i rimpianti di un'intera vita o la rinuncia a viverne una, si trovano già tutti nel suo primo film, Toto le héros, storia di un uomo convinto di essere passato a lato della sua esistenza. Sospeso tra passato e presente, il racconto è strutturato come un mosaico temporale che svolge senza sosta i ricordi dell'eroico Thomas. La sua memoria è un puzzle i cui pezzi si ricompongono per formare il tableau finale, uno sguardo sull'infanzia, sulla leggerezza di quell'età e sui suoi conflitti in faccia all'incomprensione degli adulti.
Un'indagine su un uomo che si è 'fatto un film' da quando era bambino (Thomas si sognava agente segreto), assecondato da genitori che vivevano a loro volta una vita parallela. Il padre lo incantava con trucchi di magia, la madre lo faceva volteggiare su canzoni per l'infanzia rivisitate. Meraviglia e realismo si mescolano allora in una narrazione che 'vive' una vita per procura. Generato da un incendio, il protagonista si convince di vivere un'esistenza qualunque di cui incassa i colpi inventandone una alternativa dall'altra parte del giardino o da qualche parte dentro di sé. E in quella dimensione immaginata coltiva un nemico, Alfred, la sua nemesi[...] 

E dire che qualche volta la felicità è una cosa "da nulla". Una cosa che fa "boum" come il cuore in una canzone di Trenet.

Marzia Gandolfi, Mymovies

18 maggio 2023

Peter Von Kant: François Ozon omaggia il cinema e la Petra di Rainer Fassbinder

A più di vent’anni di distanza da Gocce d’acqua su pietre roventi Ozon torna a omaggiare il cinema di Rainer Fassbinder, questa volta in maniera più esplicita ribaltando al maschile le dinamiche e i ruoli de Le lacrime amare di Petra Von Kant grazie ad un’intensa prova di Denis Ménochet.[...]

Che Peter Von Kant sia un omaggio diretto al film di Fassbinder del 1972 è dichiaratamente comprensibile sia dal titolo che dalla storia, qui riletta da una prospettiva maschile e non più femminile. Ozon però non ha deciso di rendere omaggio soltanto a Le lacrime amare di Petra Von Kant, ma la sua è una celebrazione a tutto tondo dell’opera e del cinema fassbinderiano, più ancora che in Gocce d’acqua su pietre roventi. Each man kills the things he loves (qui cantata nella sua versione tedesca) da Querelle del 1982, ultimo film del regista tedesco prima della morte prematura, diventa così una canzone manifesto di Peter Von Kant che racchiude perfettamente in sé la struggente contraddizione del personaggio omonimo interpretato da Denis Ménochet. Rispetto a Fassbinder però Ozon lascia sullo sfondo l’ironia dai tratti tragici, e viceversa, della pellicola originale preferendo invece giocare sui tic e sulle idiosincrasie del protagonista e caricandoli allo stremo. [...]

Ma nonostante alcuni cambiamenti formali e strutturali Peter Von Kant è cinema di Ozon allo stato puro; le ossessioni di Ozon per il corpo, il sesso, il tradimento (amoroso e intellettuale) e il passare impietoso del tempo rimangono salde, saldissime. Tanto più che qui, ancora più che nei film passati, la carica erotica del giovane Amir e quella decadente di peter sono centrali in un certo senso all’interno del racconto, perché alla fin fine ciò che interessa a Ozon è filmare la decadenza e il sacrificio. [...]

Denis Ménochet diventa Peter Von Kant, gli dà forma e stazza, lo riempie di dolore e di non detti e si fa carico delle sue mille contraddizioni, dei suoi difetti e delle sue fragilità. La parabola diegetica e tematica dell’intero lungometraggio non potrebbe però svilupparsi senza un comprimario all’altezza, qui quasi un antagonista, ovvero l’Amir interpretato dall’altrettanto convincente Khalil Gharbia. È però la meravigliosa Isabelle Adjani a prendersi completamente la scena, sia nel primo che nel terzo atto del film, perché la sua Sidonie è esattamente il tipo di personaggio a cui Ozon può dare colore e profondità senza risultare troppo caricaturale e artefatto.

Daniele Luciani, Spettacolo.eu

15 maggio 2023

Lynch/Oz, un imprescindibile documentario per meglio comprendere l'opera lynchiana

Lynch/Oz sorprende e appassiona. Il regista Alexandre O. Philippe, che apre il sipario sul film come un mago lynchiano, annunciando il titolo, affida infatti il compito di indagare sul rapporto tra Il Mago di Oz e il cinema di David Lynch a sei cineasti, che in molti casi hanno scritto e diretto cinema di genere, in ogni caso non mainstream: Rodney Ascher (autore del documentario Room 237 su Shining), John Waters, Karyn Kusama, il duo Justin Benson-Aaron Moorhead (V/H/S: Viral) e David Lowery. Sono loro a esporre, nei sei capitoli - Vento, Membrane, (spiriti) Affini, Moltitudini, Judy, Scavare - di quello che appare come un saggio critico visuale, l'influenza del Mago di Oz non solo sull'opera del regista, ma anche sul cinema americano dei suoi coetanei, che hanno visto più volte il capolavoro di Fleming da bambini ogni volta che veniva riproposto in tv, cogliendone inizialmente solo il lato di fiaba colorata e ottimista, e man mano che crescevano il lato oscuro, quello che la cortina delle tende colorate cela allo sguardo umano e che è la porta su un altro mondo, i mostri, le streghe e il male che Dorothy è costretta ad affrontare per tornare a casa.

Lynch/Oz si espande attraverso le parole di questi autori fino a diventare una disamina del cinema tutto e della società americana, e di un periodo simbolico come gli anni Cinquanta, un'epoca scintillante nell'immaginario come il mondo di Oz che registi come David Lynch e John Waters rielaborano in modo originale, rappresentando la nostalgia come il bel tappeto sotto il quale si nascondono la polvere, gli insetti e anche qualcosa di peggio, il cuore nero del sogno americano. Non tutti i contributi sono di pari livello, ma aprono nuovi sguardi su opere mostrate spesso in split screen nella loro originale bellezza, facendo nascere nello spettatore dipendente da quel mondo alieno il desiderio di rivederle, ancora e ancora. Nessun film di David Lynch resta fuori da questa analisi, nemmeno il vituperato Dune, perché la fiamma accesa dal Mago di Oz e lo stesso destino della sua interprete, l'infelice Judy Garland, ha fatto divampare la fiamma creativa, vero e proprio imprinting artistico, in un uomo tanto sensibile e profondo, dotato del dono della necessaria leggerezza e dello sguardo puro in grado di contrastare il male.

Daniela Catelli, Comingsoon

03 maggio 2023

Creature di Dio, quando l'omertà diventa orrore

L’Irlanda delle contraddizioni ritorna dopo L’isola degli spiriti di Martin McDonagh, con una storia rurale esile ma efficace, fatta di sguardi e silenzi, che increspa l’anima e fa riflettere come le onde del mare riflettono la realtà alterandone le forme. Nel film, Brian (Paul Mescal) fa ritorno a casa dopo diversi anni di permanenza in un luogo imprecisato dell’Australia, destabilizzando gli equilibri familiari, soprattutto quelli della “mamma chioccia” Aileen (Emily Watson) che dovrà mentire per salvaguardare l'incolumità del figlio.

Sebbene si capisca dalle prime battute la traiettoria tracciata dalla sceneggiatura, la regia prende strade non convenzionali. Saela Davis e Anna Rose Holmer dimostrano di possedere la giusta sensibilità per mettere in scena il contesto socio/culturale di un piccolo e sperduto villaggio di pescatori che - qui sta il primo di una lunga serie di paradossi - non hanno mai voluto imparare a nuotare. Per gli uomini del villaggio il mare rappresenta tanto la vita quanto la morte e i cui pericoli non intendono approfondire, né fare tesoro delle risorse messe a disposizione dalla natura. Tradizione che diventa allegoria.
Il villaggio fa da sfondo alla vicenda ma è così importante da diventare esso stesso un personaggio, con le sue zone d'ombra e i panorami spettrali, fotografato come se fosse un luogo dell'orrore e del mistero. In effetti, il film scava a fondo nell'animo umano e nella morale di una mamma, costretta a scegliere tra integrità e amore, tra verità e menzogna senza soluzione di continuità.

Vuti Sugameli

28 aprile 2023

L'ultima notte di Amore: Pierfrancesco Favino e l'aspirazione all'onestà

È così difficile essere onesti nel mondo di oggi? Se lo chiede Andrea Di Stefano nel suo ultimo film L'ultima notte di Amore, presentato nella sezione Berlinale Special Gala del festival tedesco. Un ragionamento che poggia sulle spalle interpretative solide di Pierfrancesco Favino e prende la forma di un film di genere, quasi un omaggio a un certo cinema italiano degli anni '70, per raccontare un momento preciso della vita e carriera del poliziotto Franco Amore, in procinto di andare in pensione.

Pierfrancesco Favino conferma la solita bravura nel mettere in scena la lotta interiore del personaggio, i suoi dubbi, il suo dolore nell'affrontare le difficoltà che gli si parano davanti. Intenso e solido come sempre, capace di elevare la dimensione narrativa di un film che è costruito attorno alla sua figura importante e centrale. [...]

A fare da sfondo e grande tentazione per L'ultima notte di Amore c'è una Milano che non è quella "da bere" della movida e degli aperitivi, ma un labirinto di opulenza e tentazioni, un'icona di una vita che molti dei suoi abitanti non possono raggiungere. Andrea Di Stefano ce ne mostra le luci sfavillanti in riprese notturne di grande impatto, valorizzate dalla splendida fotografia e il valore aggiunto di aver girato in pellicola. Una scelta produttiva importante che viene valorizzata dalla visione su grande schermo e rappresenta una ulteriore motivazione per prediligere la visione in sala.

Antonio Cuomo, Movieplayer