20 febbraio 2024

Appuntamento a Land’s End: un commovente viaggio attraverso la Gran Bretagna

Il regista inglese Gillies MacKinnon, già vincitore del Festival di Berlino nel 2003 per Pure, con Appuntamento a Land’s End e grazie all’interpretazione di Timothy Spall compone una meditazione sul senso della vita, degli affetti e sull’importanza di onorare le promesse fatte alle persone care in un viaggio che attraversa la Gran Bretagna dalla Scozia alla Cornovaglia.

Sul finire degli anni ’40 in Inghilterra, in un posto chiamato Land’s End, nella penisola di Penwith, due giovani, Tom e Mary, si innamorano, si sposano, hanno un bambino. Sono felici, ma qualcosa di grave accade e Tom decide di trasferirsi lontano con Mary a nord, molto a nord, a John o’ Groats in Scozia. Molti anni dopo Tom è un uomo anziano e solo, ma sa di avere ancora qualcosa di molto importante da fare. Deve tornare a Land’s End e vuole fare questo viaggio di ritorno esattamente come fece quello di andata decenni prima: solo prendendo una serie di bus.

Quella di Tom e Mary è una piccola storia, eppure il viaggio di lui da un capo all’altro della Gran Bretagna con una semplice, ma preziosa valigetta diventa un racconto epico, simbolico, intimo e universale. Non a caso il titolo originale del film è The Last Bus e lascia intendere il senso di questo ultimo viaggio, mentre quello italiano, Appuntamento a Land’s End, richiama quel momento finale imprescindibile della vita a cui il nostro protagonista intende arrivare puntuale e preparato. Avanti e indietro nel tempo, nei ricordi, tra passato e presente, Tom ripercorre la strada che tanti anni prima lo avevano portato lontano dal luogo in cui lui e Mary erano stati più felici al mondo, raccogliendo, lungo quelle centinaia di miglia passando da un bus all’altro, quanto di più prezioso c’è stato nella sua vita. Come a voler rimettere insieme ciò che più conta nell’esistenza di un essere umano, Tom si prepara all’ultimo vero grande viaggio finale e il mondo intorno a lui piano piano si accorge che la sua piccola storia comune in realtà non ha nulla di semplice.

Timothy Spall interpreta Tom con straordinario talento, il suo volto, così naturalmente corrucciato che si apre improvvisamente a sguardi intensi ed espressivi, e il suo incedere affaticato, incerto, ma tenace incarnano anche fisicamente il senso del viaggio folle ed emozionante del protagonista. Intorno a lui si dispiegano paesaggi naturali e umani a volte straordinari a volte miseri e fatiscenti, in un altro realistico contrasto che simbolicamente ricorda il cammino stesso della vita. Al fianco di Spall è degna di nota anche la presenza di Phyllis Logan, conosciuta per aver interpretato la signorina Hughes, indimenticabile governante delle 6 stagioni di Downton Abbey, nei panni di Mary.

Vania Amitrano, Ciak

18 febbraio 2024

i laboratori del carbone dei piccoli al via!

Mentre si avvia a chiudere ai tempi supplementari la rassegna di film della domenica pomeriggio per bambini e famiglie, ecco che il carbone dei piccoli rilancia con una doppia programmazione di attività laboratoriali all’Oberdan e - per la prima volta - al Centro Famiglie Insieme di Valletta Valsecchi.

L’ormai tradizionale ciclo di laboratori con merenda parte già sabato 24 febbraio con Giovani clown per grandi avventure, un workshop per apprendere la giocosa arte della clownerie tenuto da Manuela Ara, attrice e formatrice teatrale. Tenendo fede alla sua vocazione multiesperienziale, il carbone dei piccoli lab porterà i suoi partecipanti a improvvisarsi piccoli chef con Gianfranco Allari (sabato 23 marzo), creature marine o d’alta quota grazie a Essere animale condotto da Delfina Stella (6 aprile), per arrivare a creare un piccolo e antico film d’animazione grazie alle meraviglie del precinema spiegate da Pietro Grandi (20 aprile).

Un corso intensivo di tecniche e trucchi del cinema è quello che il cinema del carbone proporrà in tre sabati di marzo al Centro Famiglie Insieme. Sabato 2 marzo (Un viaggio nella luna) Rosanna Lama inizierà bambini e bambini alla cut-out e alla collage animation, ovvero al cinema fatto con carta, forbici e colla. Grazie ai due laboratori tenuti da Avisco, i piccoli aspiranti cineasti scopriranno invece le immense potenzialità della tecnica del green screen (Effetti molto speciali - 9 marzo) e dell’animazione in stop motion applicata all’uso della plastilina (Telepongo - 16 marzo).

Tutti i laboratori avranno inizio alle 16.15. Per le attività previste all’Oberdan il costo di iscrizione è di 5 euro; i laboratori al Centro Famiglie Insieme sono a ingresso libero. In entrambi i casi è richiesta la prenotazione attraverso il form online disponibile alla pagina della rassegna.

I laboratori del carbone dei piccoli rientrano nel progetto Welfare cinema sostenuto dal Comune di Mantova. La rassegna all'Oberdan è realizzata anche grazie al contributo di Coop Alleanza 3.0 e di Levoni.

13 febbraio 2024

Un melodramma al tempo raffinato e sguaiato: La natura dell'amore di Monia Chokri

In passato attrice per Xavier Dolan (in Gli amori immaginari e Laurence Anyways), nei lavori da regista Chokri, québécoise anche lei, ha scelto uno stile simile a quello dell'amico e collega: un cinema dallo stile formalista ed esibito, in cui immagini curate al limite dell'estetizzante riproducono la superficialità delle trame e i toni tra l'eccessivo e il grottesco.
La natura dell'amore è un melodramma, e come tale parla soprattutto in termini visivi, affidando alla caratterizzazione dei personaggi - gli abiti, l'ambiente in cui si muovono, le parole che usano, i gesti che compiono, anche le urla che emettono - il compito di esprimere le loro emozioni e i loro desideri.
Sophia (interpretata da Magalie Lépine Blondeau, un vulcano sul punto d'esplodere) è bella, elegante, composta, veste tailleur color beige, così come suo marito Xavier (Francis-William Rhéaume) indossa colori spenti e parole monotone (in una discussione arriva a sostenere che una vita tranquilla e senza sesso è preferibile a una ansiosa). L'altro vertice del triangolo, che in breve tempo diventerà un semplice gioco a due, è il rude Sylvain (Pierre-Yves Cardinal, che aveva un simile ruolo da oggetto del desiderio in Tom à la ferme di Dolan), definito invece da un look da hipster anni Duemila, barba folta, camicia da boscaiolo, cappello da baseball, scarponi e bicipiti gonfi... Tre maschere, dunque, tre stereotipi che affermano al primo sguardo frustrazione sessuale, assopimento e irruenza. Il film gioca con i modelli figurativi e narrativi che si diverte a squadernare, compresa ovviamente l'attrazione degli opposti che unisce Sophia e Sylvain, e con un tono tipicamente "dolaniano", cioè sguaiato e liberatorio, prova a scardinare entro le regole di una tipica storia d'amore impedita.

Il punto di vista è quello di Sophia, la sua voglia di sesso, il suo godimento, la sua scelta distruttiva, come suggerisce il titolo originale del film, Simple comme Sylvain, semplice come Sylvain. Agli occhi della donna colta ma irretita da anni di frustrazione, l'uomo brutale e dai modi spicci appare il viatico semplice per un amore liberatorio, il contraltare di tutte le sovrastrutture della vita borghese. Se non fosse, ovviamente, che anche l'amore passionale ha le sue, di sovrastrutture, e pure i sempliciotti sanno mettere due pensieri in fila.

Roberto Manassero, Mymovies

07 febbraio 2024

Divertente, struggente, vitale, agrodolce, cinefilo, poetico: Foglie al vento di Aki Kaurismäki

Di lei si sa solo il nome, Ansa. Di lui solo il cognome, Holappa. Le loro vite sono meno che mediocri, a uno sguardo superficiale; la periferia di Helsinki è dura, respingente, per chi cerca e perde lavoro, per chi è sola e si tiene stretta l'unica fortuna di un monolocale ereditato dalla zia. Eppure, i due diventano protagonisti di una storia unica, raccontata con acutezza e ironia dal genio di Aki Kaurismäki, il regista finlandese che da decenni ci invita a guardare oltre le apparenze, rivelandoci che la verità non è quella che si vede, ma che si nasconde sotto la coltre delle consuetudini e delle convenienze sociali.
Così è per l'ultimo Foglie al vento, ideale prosecuzione della Trilogia del proletariato, tre film girati nei decenni, Ombre nel paradiso, Ariel e La fiammiferaia, ma, se possibile, ancora più riuscito, nel delineare sentimenti e sfumare personalità, proiettandoli in una dimensione poetica e profonda.
Un'umanità minore, emarginata, deprivata della propria identità sociale, che però - ed è questa la tesi del regista - conserva sentimenti, dignità, desiderio di riscatto, di amicizia, di amore. Quell'amore che i due intravvedono una sera, e inseguono caparbiamente, cadendo e rialzandosi, tra lunghi silenzi e battute fulminanti, attese e pentimenti.
Una storia comune, che viene trasformata dalla visionarietà dell'autore, nobilitata da una fotografia brillante, del maestro Timo Salminen, che si avvicina ai quadri di Hopper, e dall'espressività disincantata e apparentemente impassibile, sul filo del nichilismo, delle maschere nude dei suoi personaggi. Il tutto rappresentato in una Finlandia paranoica e alcolica, sintetizzata dalla figura di Holappa, che ha perso il proprio nome di battesimo e si consuma fra wodka, sigarette e rimpianti, senza perdere il proprio aplomb, ma che è pronto a riscattarsi e ricominciare da (meno di) zero.
Che Kaurismäki sapesse come farci sorridere e riflettere insieme era risaputo; che la tragicommedia fosse la dimensione a lui più congeniale, anche; ma la vera sorpresa del film sta nell'aver messo insieme una storia d'amore, con finale che rievoca, e non a caso, Tempi moderni, e un potente ritratto di una postmodernità industriale, nella quale occorre un'immensa forza d'animo per credere ancora nella solidarietà e nell'amore. Indimenticabile.

Laura Bianchi, Mescalina.it

30 gennaio 2024

How to Have Sex: un ritratto della giovinezza di cui ci si ricorderà a lungo

How to Have Sex, opera prima di Molly Manning Walker che ha vinto il Prix Un certain regard al 76° Festival di Cannes, sembra avere inizialmente uno sguardo asettico e poi gradualmente scende sempre più in profondità nelle viscere di una storia che mostra il vuoto dopo l’estasi, la noia dopo il desiderio, la voglia istintiva improvvisa di trovarsi in un altro posto. Il tempo è come dilatato. Eterno ma anche velocissimo. Non c’è spazio per una confidenza se non passeggera, per un abbraccio se non respinto come quello sul letto di Paddy nei confronti di Tara, resa così vera e autentica dall’interpretazione di Mia McKenna-Bruce, che si era già fatta conoscere con le serie Get Even e Vampire Academy. La macchina a mano cerca di intrappolare tutti quei momenti: le reazioni dopo i risultati della scuola, gli sguardi, l’apatia del giorno con l’euforia della notte. Cattura i colori come il cinema di Korine (in particolare Spring Breakers) ma sembra accumulare anche le istantanee di un ricordo come Aftersun. Per questo, nella sua straripante fisicità, travolge e inebria, mostra con un istinto animalesco la ricerca del consenso e regala dei ritratti della giovinezza di cui ci si ricorderà a lungo. How to Have Sex è un film ispiratissimo, che sa filmare con incredibile spontaneità ogni pensiero, anche quelli mentre il divertimento è al massimo. Senza bisogno di dialoghi verbosi (non ce ne sta neanche uno) e di voci-off. Dei protagonisti ci ricordiamo soprattutto della loro voce. E dei loro volti. Ogni inquadratura, come quella di Tara che cammina all’alba nella strada deserta, fa prima di tutto parte di un personale monologo interiore prima di diventare traccia di una memoria (forse) da condividere.

Simone Emiliani, SentieriSelvaggi

24 gennaio 2024

La quercia e i suoi abitanti: la meraviglia nascosta in un albero secolare

Alba di una mattina di fine estate. Lungo un fiume che costeggia un grande bosco, spicca un’imponente quercia. Le sue radici si espandono saldamente nel terreno circostante, creando quasi un’arena che separa il grande albero dagli altri. D’un tratto, uno scoiattolo rosso fa capolino dal suo nido di rami e, dopo essersi guardato attorno, comincia a perlustrare vivacemente il territorio, controllando pazientemente la maturazione delle ghiande della quercia. Dopo di lui, tanti altri personaggi si rivelano: una colorata coppia di ghiandaie che si rincorre sui rami dell’albero; diversi balanini, piccoli insetti coleotteri, che si arrampicano lungo la corteccia; caprioli e cervi che pascolano ai piedi del grande albero; una numerosa famiglia di topolini selvatici sbuca da una tana all’altra, in cerca di cibo. La quercia è la casa di tutti questi animali. [...]

La forza del film risiede proprio nel saper offrire una visione così ravvicinata del mondo animale, che si tratti di immagini macrofotografiche del mondo invisibile o di riprese acrobatiche, come gli inseguimenti aerei, le riprese notturne e le sequenze in slow motion. L’effetto è quello di riuscire a meravigliare tutto il pubblico, anche quello avvezzo al genere, grazie all’intervento di tecnologie sempre più performanti. Sono diverse le sequenze in cui ci si vien da chiedere:  «ma come diavolo hanno fatto?». La meraviglia è il fulcro del film.

Carlo Mariano, DasCinemag

09 gennaio 2024

Viaggio in Giappone: Isabelle Huppert, il dolore di Élise Girard e i fantasmi del passato

Un film apparentemente piccolo, ma pensato, scritto e girato così bene, da ricordare non tanto Lost in Translation di Sofia Coppola dalla trama similare, quanto invece il cinema di François Truffaut, sia nei toni che nei sapori. È vero infatti che Sidonie, portata in scena da Isabelle Huppert, si trova simpaticamente a disagio con la cultura e con le persone giapponesi, come il personaggio di Antoine Doinel nel quarto film del suo ciclo (Non drammatizziamo…è solo questione di corna) in cui ha una relazione con una donna giapponese. Ma il confronto si fonda soprattutto su come la regista Élise Girard gira il suo film e su come girava Truffaut. Entrambi bene, anzi, benissimo, sempre accompagnati da musiche straordinarie, posizionate nei momenti giusti. [...]

Viaggio in Giappone racconta di una scrittrice di successo che arriva a Tokyo, dove l’editore nipponico l’ha invitata per un giro di conferenze in occasione della ristampa di uno dei suoi romanzi. Il viaggio cullerà i due personaggi alla ricerca di un nuovo inizio, che faccia dimenticare per sempre le proprie ferite. Quelle di lei, in particolare, legate allo straziante lutto del marito (August Diehl) dalla presenza fissa come fantasma di dolore durante il viaggio. La montagna, il mare, i giardini, gli auditorium per le conferenze, gli hotel, i grattaceli, tutto è descritto dalla macchina da presa della Girard come se fosse una penna, o meglio, una matita dal tratto leggero ed elegante. Delicatezza, dolcezza, lieve ironia sono le migliori qualità di un film delizioso, ma anche i suoi interpreti sono perfetti, sempre in scena, sempre che incuriosiscono: Huppert e Ihara, dall’alchimia contagiosa. Viaggio in Giappone cattura l’essenza della solitudine e della speranza, e quindi della bellezza.

Alessandro Ricci, TheHotCorn

02 gennaio 2024

Il male non esiste, decide tutto la natura: la recensione del nuovo film di Ryusuke Hamaguchi

Ryusuke Hamaguchi si conferma un poeta della normalità. Dopo aver conquistato pubblico e critica mondiali con Drive My Car, ha portato alla scorsa 80esima Mostra del Cinema di Venezia una nuova storia molto piccola ma che affonda le mani nel reale: Aku wa sonzai shinai, reso in italiano con Il male non esiste.

E sembrerebbe proprio così nel villaggio di Mizubiki, località montana vicino a Tokyo nella quale si seguono i ritmi della natura e il bene più prezioso è l’acqua, che dalle montagne scorre verso valle. Qui vivono il taciturno tuttofare Takumi e la figlia Hana, la cui vita viene per modo di dire turbata dalla prospettiva della costruzione di un glamping (campeggio glamour) nei pressi del paese. Dietro al progetto non ci sono multinazionali malvagie e senza scrupoli, ma un’agenzia di spettacolo i cui due funzionari cercano anzi di trovare punti di incontro con gli abitanti locali, districandosi tra necessità burocratiche, economiche e la bonaria predisposizione a non indisporre nessuno.

Inizialmente pensato come filmato di accompagnamento per l’esibizione della compositrice di Drive My Car, Eiko Ishibashi, Hamaguchi si è fatto talmente coinvolgere dal progetto e dal materiale da ripensarlo e completare il lavoro come un unico film. A convincerlo è stata in particolare la libertà di questo modo di fare cinema e l’idea di aver catturato appieno le interazione delle persone nella natura.

Il male non esiste, effettivamente, è un film che procede secondo il ritmo del mondo rappresentato. Poco viene omesso, ancora meno viene eliso: il suo cinema vive di piccoli gesti in grado di trasmettere se non emozioni quantomeno una naturale sensazione di calma, di tranquillità familiare. Nel caso di Hamaguchi è la semplicità e completezza del suo sguardo a essere irresistibile. Il regista sembra essere poco interessato al fittizio, quanto piuttosto al calarsi il più possibile in un contesto di indisputabile realtà quotidiana. A beneficiarne sono soprattutto i dialoghi, sempre squisitamente credibili e onesti.

Rispetto al film che gli ha consentito di portare a casa il Prix du scénario al Festival di Cannes e il premio Oscar come Miglior film internazionale (su quattro candidature, tra cui quella principale, prima volta per un giapponese), Hamaguchi qui, oltre a rivendicare il proprio tempo del racconto, si lascia andare anche ad un finale di stampo più lirico [...]

Un’idea che si presta bene all’intenzione primaria del film di Hamaguchi, ovvero catturare l’essenza comunitaria tra uomo e natura in quel particolare contesto lontano dal caos cittadino. Una natura non selvaggia e inospitale, ma nondimeno in pericolo e a suo modo pericolosa, in grado di dettare tempi e talvolta anche la morale. Il male non esiste si presta quindi ad una lettura da dramma ecologista, espresso in maniera così sottile da essere lontanissimo da qualsiasi facile retorica – alla Don’t Look Up, giusto per citare un titolo recente che si è concentrato su questa tematica.

Cristiano Bolla, BestMovie

21 dicembre 2023

Tutti a parte mio marito: una commedia provocatoria sul desiderio e la (ri)scoperta del piacere

Maestri indiscussi della commedia i francesi riescono a produrre un film leggero e garbato anche su un argomento tabù come quello della riscoperta del piacere e della ritrovata sessualità di una quasi cinquantenne. La regista Caroline Vignal scrive (insieme a Noémie de Lapparent) e dirige Tutti a parte mio marito, ma il titolo francese, Iris et les hommes, rende meglio il tenore della storia raccontata. Senza false ipocrisie la commedia arriva dritta al punto: Iris ha bisogno di passione, quella che suo marito sembra non più interessato a darle, il suo è un bisogno fisico, e mentre all’inizio del film la vediamo dall’osteopata completamente bloccata e in tensione, presto il suo corpo riavrà il piacere sopito da tempo. [...]

Il film di Caroline Vignal affronta un tema così intimo e poco esplorato senza scadere nella volgarità o nella morbosità ma raccontando con grazia e comicità l’istinto naturale di una donna, soddisfare il sacrosanto piacere fisico, finendo per tradire il marito solo con il corpo per ritrovare sé stessa. Sicuramente una provocazione ma che sottolinea come il benessere di una persona, e di conseguenza di una coppia, passi anche da una sessualità sana e soddisfatta. “Non cederò più riguardo al mio desiderio”, dice tra sé e sé Iris dopo una discussione con il marito che la vede cambiata, che non riconosce più la moglie che da giovane era stata l’ultima vergine del suo gruppo di amiche. Un tempo repressa quindi, anche a causa di un certo tipo di famiglia, Iris a quasi 50 anni sceglie di “stare dalla parte della vita”, come suggerisce di fare anche alla figlia adolescente. Iris è una sorta di Séverine di Bella di giorno (film del 1967 di Luis Buñuel che racconta le vicende di una donna sposata e frigida che trae piacere prostituendosi) ma solare e meno misteriosa che abbraccia con entusiasmo il nuovo corso della sua vita.

Una commedia godibile che racconta il lato più intimo, e poco esplorato, di una donna matura e in crisi con sé stessa prima che con il suo partner, che spinge a riflettere su quanto poco a volte ascoltiamo noi stessi, il nostro corpo, e i nostri bisogni schiacciati dalla routine e dalle responsabilità. Con una sempre straordinaria e trascinante Laure Calamy.

Caterina Sabato, Cinematographe

21 dicembre 2023

La Chimera: l'ineffabile bellezza del film di Alice Rohrwacher

Basta qualche immagine de La chimera per essere dolcemente trascinati nell'immaginario filmico di Alice Rohrwacher, un realismo picchiettato di magico che ti si infila sottopelle inquadratura dopo inquadratura, come pennellate impressioniste all'aria aperta di una grotta antica. È un cinema di suggestioni, quello de La chimera, di sguardi rubati a oggetti che non sono fatti per gli esseri viventi, di passioni fortissime e imprescindibili, di rimpianti che zoppicano e di scontro continuo fra sacro e profano, con tutta la bellezza e il dolore di un Paese che non c'è più e che è terribilmente vivo. Ed è la storia dell'impossibilità a negare chi siamo, nel bene e nel male [...]

Con La chimera Alice Rohrwacher crea un film di ineffabile sensibilità, mescolando i contrasti e rendendo il protagonista Arthur, interpretato da un perfetto Josh O'Connor, un ossimoro vivente. Tombarolo ma in realtà archeologo mancato, incapace di amare ancora e di vivere veramente, tra arte e realtà, sprazzi di felicità e un dolore sotterraneo che lo permea ovunque. Un film denso di umanità piena, che straborda dalle inquadrature di Rohrwacher, capaci di un realismo magico che ti sfiora gli occhi e ti lascia un non detto che risuona nella mente in continuazione.

Edoardo Ferrarese, Everyeye