19 novembre 2024

Do Not Expect Too Much From the End of the World: una grande riflessione sul mondo di oggi

Do Not Expect Too Much From the End of the World di Radu Jude è un vero e proprio gioiello semplicemente imperdibile per ogni cinefilo che si rispetti; il regista rumeno – già vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 2021 con Sesso sfortunato o follie porno – è oggi uno dei nomi più significativi del cinema europeo contemporaneo.

Protagonista è Angela, una ragazza che attraversa Bucarest in auto per filmare il casting di un video commissionato da una multinazionale relativo al tema della sicurezza sul lavoro. Oberata di impegni e sottopagata, gira anche moltissimi video per i suoi profili social, utilizzando un filtro che la trasforma in un alter ego carico di rabbia e portatore di messaggi estremamente populisti.

Diviso in due parti (separate da un intermezzo di croci simboleggianti diverse vittime di incidenti automobilistici), Do Not Expect Too Much From the End of the World alterna nella sua prima sezione la storia di Angela, rappresentata da un bianco e nero sporco e di estremo realismo, con le immagini di un film realizzato nel 1982, dal titolo Angela merge mai departe, valorizzato da colori sgargianti e dalla pellicola in 35mm.

Attraverso una struttura simile a quella del suo lungometraggio precedente, Jude dà vita a uno spietato spaccato sulla società contemporanea, mettendo a confronto la Romania di oggi con quella ai tempi della dittatura di Ceaușescu. Il mondo di oggi è rappresentato in maniera quasi fantascientifica, attraverso un’estetica e una sperimentazione formale fortemente originali, con la finalità costante di rappresentare però la realtà: l’universo mediatico è mostrato come un luogo di ipocrisia e menzogne, caratterizzato da un bombardamento audiovisivo talmente aggressivo da trasformarsi in una simbolica Apocalisse dove a sopravvivere rimangono soltanto le immagini.

Si mescolano riferimenti alti (come Jean-Luc Godard) e bassi in questo lungometraggio tanto sarcastico quanto profondo, capace di regalare una delle esperienze audiovisive più intense dell’intera stagione. Barocco, esasperato e sovrabbondante: Do Not Expect Too Much From the End of the World è uno di quei film che non ci lasciano al termine dei titoli di coda.

Andrea Chimento, Il sole 24 ore

06 novembre 2024

Flow - Un mondo da salvare: il magistrale film animato di Gints Zilbalodis

Flow - Un mondo da salvare, opera seconda dell'eclettico artista lettone Gints Zilbalodis e del suo Dream Well Studio, è uno stupefacente miracolo di equilibrio, un passo avanti rispetto al già particolarissimo Away (2019), che Gints aveva realizzato letteralmente da solo. In una coproduzione indipendente con più fondi europei, Zilbalodis si dimostra capace di coordinare anche studi di animazione diversi intorno alla sua visione del racconto e dell'immagine, espandendo lo slancio del lavoro precedente, ma limandolo lì dove serviva. Per arrivare oltre.
Se il mutismo dell'umano protagonista di Away era alienante e totalmente onirico, gli animali di Flow non hanno per legge naturale il dono della parola: tutto l'impianto narrativo fa a meno di dialoghi, eppure per questa ragione risulta del tutto spontaneo. Bastano pochi minuti per essere risucchiati nella piccola, grande epopea del gatto protagonista, che a suo modo vorrebbe pure comunicare con i suoi compagni di viaggio, che però emettono suoni propri e differenti, da interpretare. Eppure bisogna trovare un punto di incontro, perché questi animali sono appunto proverbialmente "tutti sulla stessa barca".

E qui scatta l'intenzione didattica della favola di Esopo nel senso più pieno: Away abbracciava una cripticità tipica del panorama del videogioco indipendente più visionario e metaforico. Ogni "carattere" di Flow potrebbe invece tranquillamente rappresentare una personalità diversa in un racconto post-apocalittico più classico, con sopravvissuti umani: Zilbalodis e il cosceneggiatore Matīss Kaža alleggeriscono il discorso con qualche gag visiva, legata a comportamenti tipici di ciascun animale e perciò non forzata, né didascalica. Anzi, persino funzionale al discorso ecologico di fondo: la misteriosa catastrofe alla quale assistiamo è un problema per gli esseri umani, di fatto scomparsi, ma gli animali vanno avanti, con spirito di adattamento, come hanno sempre fatto. Flow è un racconto ottimista, ma la sua positività arriva solo se accetteremo di metterci alla prova come il resto del creato ha sempre fatto, quel giorno in cui vivremo una delle eventuali apocalissi che quotidianamente qualcuno ci prefigura. Magari pronti a rinunciare al nostro comodo ego: quando viene sorpreso dall'apocalisse, il gatto è chiaramente oggetto di culto da parte degli esseri umani, circondato in un cottage da opere d'arte che lo ritraggono. Dopo, è solo un animale come gli altri. Bagno d'umiltà... di fatto!

 

Flow però nemmeno perde un livello di lettura più sfuggente, filosofico e immaginifico, cerebrale. Al di là delle vicende spicciole raccontate, c'è sullo sfondo, nell'aria, qualcosa di "altro", di più grande e insondabile: il curioso e semplice gatto è sì meno ingenuo del cane, ma è anche sprovveduto di fronte alla superiorità dell'elusivo uccello timoniere, che pare avere un contatto mistico con il creato, conoscendo il senso della vita e della morte. Sembra un mentore protettivo, ma con uno scopo ultimo che come il nostro eroico micio dobbiamo accettare di non sapere e di non capire del tutto: già fare del nostro meglio per onorare almeno la vita concreta, la nostra necessità di sopravvivenza, è forse di per sé un miracolo. Il raggiungimento di questa consapevolezza è l'anima religiosa di Flow.

Domenico Misciagna, ComingSoon

29 ottobre 2024

L’amore secondo Kafka: la storia dello scrittore con Dora Diamant, per riscoprire il genio nel centesimo anniversario dalla scomparsa

Una storia vorace nella durata, boccheggiante, ma intensa e assoluta. Niente a che spartire con le precedenti relazioni rinchiuse tra le righe di lunghi scambi epistolari contraddistinti dall’ardente rassegnazione; solo consapevolezza di esserci, qui e ora, per forza. Legame così penetrante da spingere Kafka a trasferirsi a Berlino e a rompere i difficili legami familiari soprattutto con l’autoritario padre “avvolto dall’enigma di molti tiranni” e di fronte cui aveva conseguito “in cambio uno sconfinato senso di colpa”. Insieme vissero il suo ultimo anno di vita, tragico nell’epilogo, pieno di aspirazioni nello scorrere. Ed è questo lasso di tempo, dalla gravosa portata, ad essere preso in considerazione dai registi Kaufmann e Mass (sceneggiatori insieme a Michael Kumpfmuller, autore del libro da cui è tratto), i quali decidono di abbracciare l’aurea mortifera della biografia sapendo però renderla non patetica e penosa, anzi.

Tutto quello raccontato incarna invece la celebrazione dell’imprevedibile: la bellezza e la felicità possono prorompere all’improvviso anche quando serpeggia l’ineluttabile. Frammenti del quotidiano che contribuiscono a regalare un’immagine benevola ed inedita del letterato, celebre per essere il cantore della lacerazione, della solitudine senza memoria e di universi orrorifici popolati da antropomorfe figure.

Il passeggiare, lo scrivere di notte, l'amicizia fraterna con Max Brod, custode dell'intera produzione kafkiana (il quale per fortuna non assecondò la volontà di quest'ultimo di bruciare tutti i manoscritti), offrono la possibilità di scoprire un'anima in pace e consapevole che senza la morte non esisterebbe la vita. Storicamente attendibile e grazioso, il film [...] ha il pregio di stimolare la curiosità a conoscere Kafka, nel centesimo anniversario dalla scomparsa, e quando ciò avviene è sempre un buon segno.

Una storia vorace nella durata, boccheggiante, ma intensa e assoluta. Niente a che spartire con le precedenti relazioni rinchiuse tra le righe di lunghi scambi epistolari contraddistinti dall’ardente rassegnazione; solo consapevolezza di esserci, qui e ora, per forza. Legame così penetrante da spingere Kafka a trasferirsi a Berlino e a rompere i difficili legami familiari soprattutto con l’autoritario padre “avvolto dall’enigma di molti tiranni” e di fronte cui aveva conseguito “in cambio uno sconfinato senso di colpa”. Insieme vissero il suo ultimo anno di vita, tragico nell’epilogo, pieno di aspirazioni nello scorrere. Ed è questo lasso di tempo, dalla gravosa portata, ad essere preso in considerazione dai registi Kaufmann e Mass (sceneggiatori insieme a Michael Kumpfmuller, autore del libro da cui è tratto), i quali decidono di abbracciare l’aurea mortifera della biografia sapendo però renderla non patetica e penosa, anzi.

Tutto quello raccontato incarna invece la celebrazione dell’imprevedibile: la bellezza e la felicità possono prorompere all’improvviso anche quando serpeggia l’ineluttabile. Frammenti del quotidiano che contribuiscono a regalare un’immagine benevola ed inedita del letterato, celebre per essere il cantore della lacerazione, della solitudine senza memoria e di universi orrorifici popolati da antropomorfe figure.

Il passeggiare, lo scrivere di notte, l'amicizia fraterna con Max Brod, custode dell'intera produzione kafkiana (il quale per fortuna non assecondò la volontà di quest'ultimo di bruciare tutti i manoscritti), offrono la possibilità di scoprire un'anima in pace e consapevole che senza la morte non esisterebbe la vita. Storicamente attendibile e grazioso, il film ha però una linearità scolastica che lo rende poco incisivo. Dalla sua tuttavia ha il pregio di stimolare la curiosità a conoscere Kafka, nel centesimo anniversario dalla scomparsa, e quando ciò avviene è sempre un buon segno.

Una storia vorace nella durata, boccheggiante, ma intensa e assoluta. Niente a che spartire con le precedenti relazioni rinchiuse tra le righe di lunghi scambi epistolari contraddistinti dall’ardente rassegnazione; solo consapevolezza di esserci, qui e ora, per forza. Legame così penetrante da spingere Kafka a trasferirsi a Berlino e a rompere i difficili legami familiari soprattutto con l’autoritario padre “avvolto dall’enigma di molti tiranni” e di fronte cui aveva conseguito “in cambio uno sconfinato senso di colpa”. Insieme vissero il suo ultimo anno di vita, tragico nell’epilogo, pieno di aspirazioni nello scorrere. Ed è questo lasso di tempo, dalla gravosa portata, ad essere preso in considerazione dai registi Kaufmann e Mass (sceneggiatori insieme a Michael Kumpfmuller, autore del libro da cui è tratto), i quali decidono di abbracciare l’aurea mortifera della biografia sapendo però renderla non patetica e penosa, anzi.

Tutto quello raccontato incarna invece la celebrazione dell’imprevedibile: la bellezza e la felicità possono prorompere all’improvviso anche quando serpeggia l’ineluttabile. Frammenti del quotidiano che contribuiscono a regalare un’immagine benevola ed inedita del letterato, celebre per essere il cantore della lacerazione, della solitudine senza memoria e di universi orrorifici popolati da antropomorfe figure.

Il passeggiare, lo scrivere di notte, l'amicizia fraterna con Max Brod, custode dell'intera produzione kafkiana (il quale per fortuna non assecondò la volontà di quest'ultimo di bruciare tutti i manoscritti), offrono la possibilità di scoprire un'anima in pace e consapevole che senza la morte non esisterebbe la vita. Storicamente attendibile e grazioso, il film ha però una linearità scolastica che lo rende poco incisivo. Dalla sua tuttavia ha il pregio di stimolare la curiosità a conoscere Kafka, nel centesimo anniversario dalla scomparsa, e quando ciò avviene è sempre un buon segno.

Miriam Raccosta, Cinematografo

23 ottobre 2024

Juniper – Un bicchiere di Gin: un'opera prima in felice equilibro tra dramma e tono scanzonato

Dalle dichiarazioni del regista Matthew Saville, Juniper – Un bicchiere di Gin sarebbe basato dalle sue esperienze adolescenziali. Anche sua nonna alcolizzata, come Ruth, che non poteva assolutamente fare a meno del suo Gin, era una fotografa di guerra, vivendo una vita ricca di esperienze al limite, con un carattere fuori dai canoni e lontana dai cliché. Burbera, scorbutica e disincantata, ma di grande arguzia, sensibilità e fascino. L’autore non avrebbe inventato nulla nella caratterizzazione dei protagonisti, mettendoli comunque di fronte ad alcuni temi fondamentali dell’esistenza: la vita, la morte, l’amore, il dolore.

L’esordio alla regia del noto attore neozelandese sembrerebbe essere a volte un po’ frenato ed eccessivamente controllato. Invece, in realtà sa tenere a bada quell’esubero di sentimentalismo che avrebbe annacquato l’ebbrezza del racconto, capace di perdersi in paesaggi mozzafiato ed emozionanti dinamiche relazionali. Una parabola ben calibrata che dall’alba giunge al tramonto, o meglio, dal tramonto riparte dall’alba, sempre felicemente in equilibro tra dramma e il tono scanzonato. Nonostante si percorrano stereotipi narrativi e visivi ben evidenti, il sentiero tracciato da Sam e Ruth, coadiuvati dalla fedele ultracattolica infermiera Sarah (Edith Poor) e dal vulnerabile e ferito papà di lui, in fondo ci si lascia toccare ed affondare dalla profonda leggerezza della vicenda, sicuramente ben scritta e orchestrata.

Leonardo LArdieri, Sentieri Selvaggi

18 ottobre 2024

Cultura alle quattro e un quarto

Ritorna Cultura alle 16:15: un ricco programma di cinema, arte, musica e itinerari in città dedicato agli over 60, venti appuntamenti da novembre ad aprile, in cui la cultura diventa occasione per stare insieme e vivere la città, organizzati in collaborazione con numerose realtà culturali cittadine.

Da lunedì 21 ottobre sarà possibile acquistare gli abbonamenti alla rassegna, che prenderà il via giovedì 7 e venerdì 8 novembre.

Trovate tutte le info qui >>https://ilcinemadelcarbone.it/.../cultura-alle-quattro-e...

08 ottobre 2024

La storia di Souleymane: un film umanista emozionante, commovente ed edificante

Oltre al ritmo incalzante, alla dimensione molto fisica e molto empatica, con la macchina da presa incollata a un personaggio in continuo movimento, La storia di Souleymane riesce a trattare molto bene (la sceneggiatura è scritta dal regista e da Delphine Agut) tutte le sfaccettature della situazione psicologicamente provante dell'esule (dalle telefonate a casa su Facetime alla madre malata e alla sua ex riluttante a sposare un altro uomo), i dubbi (“Non so perché sono venuto in Francia”), l'istinto di sopravvivenza in un ambiente urbano dove tutto non è necessariamente ostile ma dove nulla è facile, e il confronto finale con le autorità che decidono sulla richiesta di asilo. È un'opera folgorante, toccante e affascinante, con una forza documentaria che Boris Lojkine trasforma in una fiction umanista che si muove a 100 km all'ora e che merita un plauso.

Fabien Lemercier, Cineuropa

27 settembre 2024

Cuori liberi: una passionale inchiesta animalista

Prodotto da LAV, LNDC (Lega Nazionale Difesa del Cane), We All Animals e altre associazioni, Cuori liberi è un reportage indipendente che sostiene le ragioni dei gruppi animalisti, denuncia le violenze delle forze dell'ordine, l'assenza di trasparenza da parte dell'ASL pavese, il paradosso tra la repressione del dissenso con la forza e la deroga alle norme previste per i proprietari di allevamenti, luoghi di sofferenza e morte per gli animali.
Ospite d'onore del film è la giornalista Giulia Innocenzi - animalista dichiarata e autrice, con Paolo D'Ambrosi, dell'assonante documentario Food for Profit - che in pochi mirati interventi individua i fatti salienti della vicenda (a monte, una sostanziale mancanza di un allevatore nell'applicare le norme di legge) e metodi e obiettivi della campagna per l'antispecismo. Accanto a lei, anche il presidente di LAV Gianluca Felicetti e la deputata Eleonora Evi, impegnati nella causa.
Mentre a Roberto Manelli dal regista Alessio Schiazza viene affidato il ruolo di protagonista e "capopopolo della resistenza", a lui si affiancano i fondatori di vari santuari sparsi sulla penisola (senza nessun dettaglio sul loro modello di autosostentamento economico), disposti a lottare "fino all'ultimo respiro" per la liberazione degli animali. Il termine "santuario" infatti afferma la sacralità di ogni forma di vita e in ogni caso la non inferiorità dell'animale all'umano e il suo diritto a un'esistenza dignitosa e non coatta.

Il tono del film, che alterna interviste a riprese amatoriali degli atti dimostrativi, è quello di un'emotività partecipe, un'enfasi sul lato sentimentale della relazione tra uomini e animali, con una costante nominazione dei secondi, ricordati individualmente anche con fotografie, durante una manifestazione tenuta a Roma, e il ricorso al termine "famiglia" che sancisce una indistinta continuità tra specie.
Si mutua lo stile giornalistico di programmi come Report (c'è anche la ripresa in diretta della telefonata di richiesta di intervista alla referente dell'ATS di Pavia), alternando grafiche informative e sovrapponendo didascalie pop alle immagini.
Film militante, manifesto corale, voce di una comunità che reclama giustizia e condanna l'industria di sfruttamento.

Raffaella Giancristofaro, Mymovies

In programmazione martedì 1° ottobre alle 21 e mercoledì 2 ottobre alle 18:30. Presenta il film Paola Lazzarini, presidente dell’associazione Mantova 4 Animals APS. Biglietto intero: 7 euro. Biglietto ridotto per under 26, soci cinema del carbone, soci LAV e LNDC Animal Protection: 5 euro.

27 settembre 2024

Commedie e proverbi - Il cinema di Éric Rohmer

Dal 30 settembre torna in sala, in versione restaurata, il ciclo "Commedie e proverbi" di Éric Rohmer, uno degli autori più iconici del Cinema francese.
A comporre la Rassegna Rohmer, sei titoli che saranno in programmazione per sei settimane. Il primo film, al cinema il 30 settembre e 1° ottobre, è La moglie dell’aviatore, storia di un amore che ritorna dal passato. Ad ottobre, il 7 e l'8, Il bel matrimonio con Béatrice Romand e André Dussollier, il 14 e 15, Pauline alla spiaggia, in cui la protagonista è una ragazza di quindici anni alle prese con i primi amori. Il 21 e 22 ottobre, Le notti della luna piena, interpretato da un giovanissimo Fabrice Luchini e il 28 e 29, il film forse più noto di Rohmer, Il raggio verde, Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia. Conclude la Rassegna Rohmer, il 5 e 6 novembre, L’amico della mia amica, una storia sull'amore e l'amicizia.

18 settembre 2024

Tra L’attimo fuggente e la guerra civile spagnola, un’incredibile storia vera: Il maestro che promise il mare di Patricia Font

Una storia di coraggio, dedizione e resistenza che rischiava di rimanere avvolta nelle ombre del regime franchista. Ma soprattutto vera la storia al centro del racconto de Il maestro che promise il mare. Quella di Antoni Benaiges, nato da una famiglia rurale ma con l’insegnamento che gli scorreva nelle vene. La madre di Benaiges, infatti, era la nipote di Agustí Sardà Llaberia, illustre educatore e politico repubblicano, e cugino di primo grado dell’educatore Mercè Sardà Uribarri. Quindi Benaiges che scelse di entrare in contatto con il mondo dell’insegnamento avvalendosi del cosiddetto Metodo Freinet. Un approccio educativo ideato da Célestin Freinet alla fine dell’Ottocento che proponeva una nuova concezione del bambino. Non più soggetto passivo da indottrinare, ma attivo e da stimolare attraverso il contatto con la realtà esterna. [...]

Non è solo il mare, però, ciò che promise il maestro Benaiges quel giorno ai suoi alunni. Promise loro una vita diversa, nuova, lontana dall’ignoranza e dall’ipocrisia del piccolo centro. Promise di allargare i loro orizzonti, di avere pensiero libero e cuore puro, o più semplicemente di provare a vedere la vita di tutti i giorni sotto una nuova luce. Un po’ come fece il John Keating de L’attimo fuggente con gli alunni del collegio di Welton. Ecco, è in quel terreno narrativo che si muove Il maestro che promise il mare, quello in cui gli insegnanti cercano di far entrare i propri studenti in sintonia con sogni, desideri e paure. In esso cresce il racconto della Font tra passato e presente, storia e memoria, alternati da transizioni poetiche di montaggio che danno forma e colore agli archi narrativi di Antonio e Ariadna e del sottile filo conduttore che li unisce.[...]

Il maestro che promise il mare, un film commuovente, doloroso ed emozionante che esattamente come un buon libro vorresti non finisse mai.

Francesco Parrino, TheHotCorn

10 settembre 2024

The well: il njuovo fenomeno horror firmato da Federico Zampaglione

The Well è il nuovo cimento registico di Federico Zampaglione, al sesto lungometraggio e per la terza volta, dopo Shadow e Tulpa, di nuovo faccia a faccia con quel genere horror da lui prediletto in quanto «parla all’animo umano, indaga le nostre paure sconosciute e si perde nell’oscurità profonda, aggrappandosi a un filo di luce». Presentandolo come “il più cupo, inquietante e feroce” dei film da lui concepiti, Zampaglione aggiunge che stavolta la storia «spinge alle emozioni più estreme, distruggendo il confine tra realtà e fantasia, tra Bene e Male, Vita e Morte». Sceneggiato dal regista stesso insieme a Stefano Masi, The Wellsegueuna giovane restauratrice americana, Lisa, in trasferta nel nostro Paese per lavorare al recupero di un dipinto medievale devastato da un incendio. Mano a mano che le tracce offuscate dell’opera riemergono, eventi non solo sinistri ma incredibilmente sanguinari si manifestano intorno alla protagonista e alle altre figure che gravitano nel palazzo rurale sede del dipinto. Una maledizione è stata di nuovo scatenata, una soglia si è di nuovo dischiusa, vomitando nell’aldiqua orrore e sterminio. Tema, in qualche misura, ancestrale, nel genere, quello del quadro che cela un doppiofondo esoterico ed esiziale (da La casa dalle finestre che ridono a Il medaglione insanguinato) che Zampaglione sviluppa portandolo a conseguenze davvero “estreme”.

Nocturno.it