30 gennaio 2024

How to Have Sex: un ritratto della giovinezza di cui ci si ricorderà a lungo

How to Have Sex, opera prima di Molly Manning Walker che ha vinto il Prix Un certain regard al 76° Festival di Cannes, sembra avere inizialmente uno sguardo asettico e poi gradualmente scende sempre più in profondità nelle viscere di una storia che mostra il vuoto dopo l’estasi, la noia dopo il desiderio, la voglia istintiva improvvisa di trovarsi in un altro posto. Il tempo è come dilatato. Eterno ma anche velocissimo. Non c’è spazio per una confidenza se non passeggera, per un abbraccio se non respinto come quello sul letto di Paddy nei confronti di Tara, resa così vera e autentica dall’interpretazione di Mia McKenna-Bruce, che si era già fatta conoscere con le serie Get Even e Vampire Academy. La macchina a mano cerca di intrappolare tutti quei momenti: le reazioni dopo i risultati della scuola, gli sguardi, l’apatia del giorno con l’euforia della notte. Cattura i colori come il cinema di Korine (in particolare Spring Breakers) ma sembra accumulare anche le istantanee di un ricordo come Aftersun. Per questo, nella sua straripante fisicità, travolge e inebria, mostra con un istinto animalesco la ricerca del consenso e regala dei ritratti della giovinezza di cui ci si ricorderà a lungo. How to Have Sex è un film ispiratissimo, che sa filmare con incredibile spontaneità ogni pensiero, anche quelli mentre il divertimento è al massimo. Senza bisogno di dialoghi verbosi (non ce ne sta neanche uno) e di voci-off. Dei protagonisti ci ricordiamo soprattutto della loro voce. E dei loro volti. Ogni inquadratura, come quella di Tara che cammina all’alba nella strada deserta, fa prima di tutto parte di un personale monologo interiore prima di diventare traccia di una memoria (forse) da condividere.

Simone Emiliani, SentieriSelvaggi

24 gennaio 2024

La quercia e i suoi abitanti: la meraviglia nascosta in un albero secolare

Alba di una mattina di fine estate. Lungo un fiume che costeggia un grande bosco, spicca un’imponente quercia. Le sue radici si espandono saldamente nel terreno circostante, creando quasi un’arena che separa il grande albero dagli altri. D’un tratto, uno scoiattolo rosso fa capolino dal suo nido di rami e, dopo essersi guardato attorno, comincia a perlustrare vivacemente il territorio, controllando pazientemente la maturazione delle ghiande della quercia. Dopo di lui, tanti altri personaggi si rivelano: una colorata coppia di ghiandaie che si rincorre sui rami dell’albero; diversi balanini, piccoli insetti coleotteri, che si arrampicano lungo la corteccia; caprioli e cervi che pascolano ai piedi del grande albero; una numerosa famiglia di topolini selvatici sbuca da una tana all’altra, in cerca di cibo. La quercia è la casa di tutti questi animali. [...]

La forza del film risiede proprio nel saper offrire una visione così ravvicinata del mondo animale, che si tratti di immagini macrofotografiche del mondo invisibile o di riprese acrobatiche, come gli inseguimenti aerei, le riprese notturne e le sequenze in slow motion. L’effetto è quello di riuscire a meravigliare tutto il pubblico, anche quello avvezzo al genere, grazie all’intervento di tecnologie sempre più performanti. Sono diverse le sequenze in cui ci si vien da chiedere:  «ma come diavolo hanno fatto?». La meraviglia è il fulcro del film.

Carlo Mariano, DasCinemag

09 gennaio 2024

Viaggio in Giappone: Isabelle Huppert, il dolore di Élise Girard e i fantasmi del passato

Un film apparentemente piccolo, ma pensato, scritto e girato così bene, da ricordare non tanto Lost in Translation di Sofia Coppola dalla trama similare, quanto invece il cinema di François Truffaut, sia nei toni che nei sapori. È vero infatti che Sidonie, portata in scena da Isabelle Huppert, si trova simpaticamente a disagio con la cultura e con le persone giapponesi, come il personaggio di Antoine Doinel nel quarto film del suo ciclo (Non drammatizziamo…è solo questione di corna) in cui ha una relazione con una donna giapponese. Ma il confronto si fonda soprattutto su come la regista Élise Girard gira il suo film e su come girava Truffaut. Entrambi bene, anzi, benissimo, sempre accompagnati da musiche straordinarie, posizionate nei momenti giusti. [...]

Viaggio in Giappone racconta di una scrittrice di successo che arriva a Tokyo, dove l’editore nipponico l’ha invitata per un giro di conferenze in occasione della ristampa di uno dei suoi romanzi. Il viaggio cullerà i due personaggi alla ricerca di un nuovo inizio, che faccia dimenticare per sempre le proprie ferite. Quelle di lei, in particolare, legate allo straziante lutto del marito (August Diehl) dalla presenza fissa come fantasma di dolore durante il viaggio. La montagna, il mare, i giardini, gli auditorium per le conferenze, gli hotel, i grattaceli, tutto è descritto dalla macchina da presa della Girard come se fosse una penna, o meglio, una matita dal tratto leggero ed elegante. Delicatezza, dolcezza, lieve ironia sono le migliori qualità di un film delizioso, ma anche i suoi interpreti sono perfetti, sempre in scena, sempre che incuriosiscono: Huppert e Ihara, dall’alchimia contagiosa. Viaggio in Giappone cattura l’essenza della solitudine e della speranza, e quindi della bellezza.

Alessandro Ricci, TheHotCorn

02 gennaio 2024

Il male non esiste, decide tutto la natura: la recensione del nuovo film di Ryusuke Hamaguchi

Ryusuke Hamaguchi si conferma un poeta della normalità. Dopo aver conquistato pubblico e critica mondiali con Drive My Car, ha portato alla scorsa 80esima Mostra del Cinema di Venezia una nuova storia molto piccola ma che affonda le mani nel reale: Aku wa sonzai shinai, reso in italiano con Il male non esiste.

E sembrerebbe proprio così nel villaggio di Mizubiki, località montana vicino a Tokyo nella quale si seguono i ritmi della natura e il bene più prezioso è l’acqua, che dalle montagne scorre verso valle. Qui vivono il taciturno tuttofare Takumi e la figlia Hana, la cui vita viene per modo di dire turbata dalla prospettiva della costruzione di un glamping (campeggio glamour) nei pressi del paese. Dietro al progetto non ci sono multinazionali malvagie e senza scrupoli, ma un’agenzia di spettacolo i cui due funzionari cercano anzi di trovare punti di incontro con gli abitanti locali, districandosi tra necessità burocratiche, economiche e la bonaria predisposizione a non indisporre nessuno.

Inizialmente pensato come filmato di accompagnamento per l’esibizione della compositrice di Drive My Car, Eiko Ishibashi, Hamaguchi si è fatto talmente coinvolgere dal progetto e dal materiale da ripensarlo e completare il lavoro come un unico film. A convincerlo è stata in particolare la libertà di questo modo di fare cinema e l’idea di aver catturato appieno le interazione delle persone nella natura.

Il male non esiste, effettivamente, è un film che procede secondo il ritmo del mondo rappresentato. Poco viene omesso, ancora meno viene eliso: il suo cinema vive di piccoli gesti in grado di trasmettere se non emozioni quantomeno una naturale sensazione di calma, di tranquillità familiare. Nel caso di Hamaguchi è la semplicità e completezza del suo sguardo a essere irresistibile. Il regista sembra essere poco interessato al fittizio, quanto piuttosto al calarsi il più possibile in un contesto di indisputabile realtà quotidiana. A beneficiarne sono soprattutto i dialoghi, sempre squisitamente credibili e onesti.

Rispetto al film che gli ha consentito di portare a casa il Prix du scénario al Festival di Cannes e il premio Oscar come Miglior film internazionale (su quattro candidature, tra cui quella principale, prima volta per un giapponese), Hamaguchi qui, oltre a rivendicare il proprio tempo del racconto, si lascia andare anche ad un finale di stampo più lirico [...]

Un’idea che si presta bene all’intenzione primaria del film di Hamaguchi, ovvero catturare l’essenza comunitaria tra uomo e natura in quel particolare contesto lontano dal caos cittadino. Una natura non selvaggia e inospitale, ma nondimeno in pericolo e a suo modo pericolosa, in grado di dettare tempi e talvolta anche la morale. Il male non esiste si presta quindi ad una lettura da dramma ecologista, espresso in maniera così sottile da essere lontanissimo da qualsiasi facile retorica – alla Don’t Look Up, giusto per citare un titolo recente che si è concentrato su questa tematica.

Cristiano Bolla, BestMovie

21 dicembre 2023

Tutti a parte mio marito: una commedia provocatoria sul desiderio e la (ri)scoperta del piacere

Maestri indiscussi della commedia i francesi riescono a produrre un film leggero e garbato anche su un argomento tabù come quello della riscoperta del piacere e della ritrovata sessualità di una quasi cinquantenne. La regista Caroline Vignal scrive (insieme a Noémie de Lapparent) e dirige Tutti a parte mio marito, ma il titolo francese, Iris et les hommes, rende meglio il tenore della storia raccontata. Senza false ipocrisie la commedia arriva dritta al punto: Iris ha bisogno di passione, quella che suo marito sembra non più interessato a darle, il suo è un bisogno fisico, e mentre all’inizio del film la vediamo dall’osteopata completamente bloccata e in tensione, presto il suo corpo riavrà il piacere sopito da tempo. [...]

Il film di Caroline Vignal affronta un tema così intimo e poco esplorato senza scadere nella volgarità o nella morbosità ma raccontando con grazia e comicità l’istinto naturale di una donna, soddisfare il sacrosanto piacere fisico, finendo per tradire il marito solo con il corpo per ritrovare sé stessa. Sicuramente una provocazione ma che sottolinea come il benessere di una persona, e di conseguenza di una coppia, passi anche da una sessualità sana e soddisfatta. “Non cederò più riguardo al mio desiderio”, dice tra sé e sé Iris dopo una discussione con il marito che la vede cambiata, che non riconosce più la moglie che da giovane era stata l’ultima vergine del suo gruppo di amiche. Un tempo repressa quindi, anche a causa di un certo tipo di famiglia, Iris a quasi 50 anni sceglie di “stare dalla parte della vita”, come suggerisce di fare anche alla figlia adolescente. Iris è una sorta di Séverine di Bella di giorno (film del 1967 di Luis Buñuel che racconta le vicende di una donna sposata e frigida che trae piacere prostituendosi) ma solare e meno misteriosa che abbraccia con entusiasmo il nuovo corso della sua vita.

Una commedia godibile che racconta il lato più intimo, e poco esplorato, di una donna matura e in crisi con sé stessa prima che con il suo partner, che spinge a riflettere su quanto poco a volte ascoltiamo noi stessi, il nostro corpo, e i nostri bisogni schiacciati dalla routine e dalle responsabilità. Con una sempre straordinaria e trascinante Laure Calamy.

Caterina Sabato, Cinematographe

21 dicembre 2023

La Chimera: l'ineffabile bellezza del film di Alice Rohrwacher

Basta qualche immagine de La chimera per essere dolcemente trascinati nell'immaginario filmico di Alice Rohrwacher, un realismo picchiettato di magico che ti si infila sottopelle inquadratura dopo inquadratura, come pennellate impressioniste all'aria aperta di una grotta antica. È un cinema di suggestioni, quello de La chimera, di sguardi rubati a oggetti che non sono fatti per gli esseri viventi, di passioni fortissime e imprescindibili, di rimpianti che zoppicano e di scontro continuo fra sacro e profano, con tutta la bellezza e il dolore di un Paese che non c'è più e che è terribilmente vivo. Ed è la storia dell'impossibilità a negare chi siamo, nel bene e nel male [...]

Con La chimera Alice Rohrwacher crea un film di ineffabile sensibilità, mescolando i contrasti e rendendo il protagonista Arthur, interpretato da un perfetto Josh O'Connor, un ossimoro vivente. Tombarolo ma in realtà archeologo mancato, incapace di amare ancora e di vivere veramente, tra arte e realtà, sprazzi di felicità e un dolore sotterraneo che lo permea ovunque. Un film denso di umanità piena, che straborda dalle inquadrature di Rohrwacher, capaci di un realismo magico che ti sfiora gli occhi e ti lascia un non detto che risuona nella mente in continuazione.

Edoardo Ferrarese, Everyeye

21 dicembre 2023

Anatomia di una caduta è l’opera di una grande regista

Un film sorprendente, appassionante e femminista, ma anche sfaccettato e pieno di colpi di scena come un thriller hitchcockiano, di cui in qualche modo porta con sé la precisione di regia e l’eleganza formale. Anatomia di una caduta della francese Justine Triet, Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes e campione d’incassi in patria, è allo stesso tempo un film giallo, intimista e processuale. Un’opera di alto livello sull’ambiguità del reale, intrisa però di uno sguardo e di un vero sentire umano.[...]

Riesce perfino a dire qualcosa di nuovo e profondo sul solito tema della finzione che si fonde con il reale. La protagonista è infatti una nota scrittrice che sbandiera il suo lavoro incentrato sull’autofiction. L’intreccio si fa qui a tal punto inestricabile da diventare non solo una sorta di specchio del reale e della finzione, ma una moltiplicazione di specchi più piccoli tra quelli principali, la madre e il figlio, dove una pallina – cioè la quasi inafferrabile interpretazione corretta del reale – rimbalza, svelando in modo continuo e misterioso nuove sfaccettature, quasi infinite.

Reinventando il film processuale, la regista ne fa anche un’opera di metacinema, facendo ascoltare o riascoltare da punti di vista diversi momenti di vita, tutti intimi, che corrispondono sempre, in questo film che comincia con una morte fuori campo, a quello che era fuori campo, visivo o audio che sia. In questo modo il cinema intimista, tipico della Francia, è destrutturato, così com’è destrutturata, vivisezionata, l’esistenza della protagonista. E quella di suo figlio, Daniel. Amplificata dai mezzi di informazione, la lettura univoca dell’accusa è a sua volta destrutturata e vivisezionata.

Così, quel che (ap)pare acquisito e difficilmente confutabile è rimesso continuamente in discussione, in un senso o nell’altro, in un vortice, una girandola caleidoscopica che sorprende sempre lo spettatore. La pallina rimbalza, incessantemente, quasi fino alla conclusione. A quel punto non solo ci si accorge di aver assistito, sia in diretta sia in differita, a un grande film sull’infanzia rubata, violentata, traumatizzata (più volte), ma anche alla lotta estrema di un adolescente per riappropriarsi il più possibile di quanto stanno cercando di sottrargli. Un ragazzo cieco, ma che sarà determinante nell’aiutare tutti a vedere meglio, a vedere oltre. Lo sguardo esterno di Triet, non a caso, si concentra sui volti di madre e figlio.

Francesco Boille, Internazionale

18 dicembre 2023

Alla ricerca di un futuro migliore attraverso l’istruzione: We Have a Dream

Pascal Plisson, regista del premiato Vado a scuola nel 2013, dove 4 ragazzini dai 4 angoli del mondo dovevano affrontare un lungo cammino per raggiungere le loro scuole, s’impegna, nel suo ultimo documentario We Have a Dream, a sfidare gli stereotipi, illustrando come la convivenza con una disabilità non sia un ostacolo alla realizzazione dei sogni più ambiziosi. Il regista francese continua il suo viaggio di iniziazione intriso di sogni, speranze e aspirazioni, e il comune denominatore con la sua opera d’esordio è certamente la speranza di raggiungere un futuro migliore attraverso l’istruzione. Il film arriva al cinema in occasione della Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità.

We Have a Dream è la storia di sei bambini: Maud (Francia), Charles (Kenya), Nirmala e Khendo (Nepal), Xavier (Ruanda) e Antonio (Brasile). Ognuno di loro è determinato a realizzare i propri sogni, superando le sfide delle proprie disabilità e mostrando una forza paragonabile a quella del fisico Stephen Hawking in The Theory of Everything combinata alla pura innocenza di Auggie in Wonder. Pascal Plisson, realizza un documentario che naviga tra un realismo empatico e una struttura narrativa tipica dei romanzi di formazione.

Matteo Di Maria, SentieriSelvaggi

15 dicembre 2023

20000 Specie di Api: un viaggio luminoso di formazione e scoperta di sé

La regista cuce nel tessuto che è il film persone e luogo e la sensazione è che ogni cosa accada con naturalezza e delicatezza, l’evoluzione è organica come è organico il viaggio della protagonista. Cocó ha una grande famiglia, ci sono il papà e la mamma, ha anche un fratello e una sorella, zii, zie, cugine e cugini, ciascuno ha una propria idea su quelle che vengono intese come stranezze, particolarità, cose di cui sorridere, invece la bambina sta compiendo un viaggio intenso dentro di sé. La storia è immersa in un piccolo mondo dove dialogano, si incontrano e si scontrano donne di diverse età, la presenza di una bambina transessuale diventa motivo inspiegabile di paura. Il cambiamento rispetto al corso delle cose terrorizza soprattutto quando la persona consapevole è una bambina e non un’adulta – qui i grandi sono pieni di dubbi, incertezze, paure, nascondono segreti, tradiscono e feriscono gli altri per rimanere a galla e poi c’è Cocó un’ape regina convinta e conscia, nonostante i passi titubanti, di ciò che è o almeno di ciò che desidera. [...]

20.000 Specie di Api affronta con sapienza la questione dell’identità ampliandone la visione, provando a capire come le relazioni familiari possano influenzare il viaggio verso l’autodeterminazione, è un piccolo grande film, un delicato e riuscito esordio, una commovente cronaca della graduale transizione di colui che è nato Aitor ma si sente ed è Lucia. Si tratta di una narrazione di cui si sente il bisogno perché film come questi fanno entrare le persone dentro storie ancora poco conosciute (il transgenderismo nell’infanzia e pubertà) in modo da rendere evidente quanto certe chiusure insensate e prive di fondamento siano espressione di una mentalità politicizzata non calata nel mondo. Quello di Cocó è un dolcissimo ritratto attuale e senza tempo che segue “il ciclo” della vita in cui si perde e si rinasce, e mentre si trasforma la protagonista, si trasforma anche lo sguardo di chi le sta intorno.

Eleonora Degrassi, Cinematographe

13 dicembre 2023

The Old Oak è l’ennesimo capolavoro di Ken Loach

Guardare l’ennesimo capolavoro di Ken Loach ha l’effetto consolante conferma che c’è ancora qualcuno che guarda dove è più urgente guardare e non ha paura di raccontare la realtà per quella che è, anche quando è scomoda e anche quando la propria visione parte da posizioni e valori ormai ampiamente fuori moda. Questo film parla alla nostra coscienza, alla coscienza dell’Europa. Ken Loach, a 87 anni nel suo The Old Oak  affronta lo stesso tema che qualche mese fa ha raccontato con altri strumenti ZeroCalcare, che di anni ne ha una trentina, con il suo Questo mondo non mi renderà cattivo: l’estrema periferia dei paesi più ricchi del continente, dove quella ricchezza non arriva, dove il deserto di prospettive materiali diventa perdita di identità e di coscienza collettiva. Quella periferia dove c’è ben poco e dove immancabilmente vengono riversati gli ultimi della terra in cerca di rifugio, quella periferia che quando arriva qualcuno da fuori, lo “straniero”, spesso si chiude a riccio per paura di perdere anche quel nulla che c’è. L’incontro tra TJ e Yara è basato sulle diverse e comuni disgrazie, ma anche su quel sentire affine, su quell’istinto di resistenza che li ha tenuti a galla tra i marosi e le tante ingiustizie dell’esistenza, subite a diverse latitudini. E sulla comune coscienza che da soli non c’è salvezza, insieme invece,  faticando, impegnandosi, fronteggiando prevaricazioni e ingiustizie, ci si può dare l’opportunità di immaginare prima e di fare poi una società migliore.

Valentina Di Nino, Today