
07 ottobre 2022
Gli orsi non esistono: un manifesto universale contro ogni cultura dittatoriale
Il coraggio e l’ostinazione del regista iraniano Jafar Panahi andrebbero, come del resto il suo cinema, insegnati a scuola. Gli orsi non esistono – dal 6 ottobre nelle sale italiane dopo il Premio Speciale all’ultima Venezia (si poteva dare di più…)– è un manifesto universale contro ogni cultura dittatoriale istituzionalizzata liberticida e oppressiva. L’Iran sì, teatro proprio in questi giorni di estese e tragiche proteste di emancipazione della donna, ma anche ogni angolo del pianeta in cui una qualunque intoccabile e inamovibile autorità ha costruito una gabbia sempre più stretta, implacabile, fatta di leggi, norme, e consuetudini indiscutibili.
Panahi è subito in scena come voce fuori campo dietro l’occhio di una cinecamera che riprende il lento e nascosto piano (sequenza) di fuga oltreconfine di una coppia iraniana di mezza età. Occhio registico che diventa corpo fisico inquadrato, con una carrellata magica all’indietro che sfonda lo schermo di un pc, da cui Panahi stesso sta dirigendo da una stanzetta sgarrupata in pietra il suo film sulla fuga. Una traiettoria da myse en abime che certifica più piani di osservazione di un reale che mescola solo finzione come fosse amara, dolorosa verità. Già, perché Panahi regista, protagonista de Gli orsi non esistono, è il Panahi reale condannato da quasi due lustri agli arresti domiciliari, allentati e allargati nel giro di alcuni anni delle autorità iraniane (oggi Panahi è in carcere e nulla si sa di cosa gli stia accadendo ndr): a sua volta in fuga da Teheran per “stare vicino alla sua troupe” che gira il film sulla fuga, ma lui stesso tentato dall’ipotesi drammatica di valicare il confine di notte che dista pochi chilometri.
Solo che l’accoglienza degli abitanti del villaggio per il “signor Panahi” dapprima reverente e genuflessa si trasforma in un assurdo incubo kafkiano che sconfina nelle minacce e nella violenza. Nell’essere regista, nell’attivare la propria naturale curiosità artistica, Panahi si guarda attorno e fotografa/riprende abitanti e spazi che lo circondano. Probabilmente in uno di questi casuali scatti ha fotografato una coppia di ragazzi clandestina, perché la ragazza della (im)possibile foto è stata promessa sposa ad un altro ragazzo del villaggio, ora molto infuriato con Panahi, fin da quando è nata compiendo un gesto antico della tradizione locale, il taglio del cordone ombelicale. Così mentre sul piano del cinema diretto fronte macchina da Panahi si consuma una fuga zoppa (solo la ragazza della coppia ha un passaporto falso ma valido per superare il confine), nel villaggio il Panahi regista del cinema iraniano, personaggio fittizio e pubblico/storico allo stesso tempo, viene come “processato” per non essere normale e accondiscendente a usi e costumi, da religione istituzionalizzata, del luogo che lo ospita. Inutile dire che Gli orsi non esistono non ha un frammento fuori posto, uno sbaffo espressivo oltre la sostanza dimostrabile.
L’opera complessiva di Panahi è un meccanismo ad orologeria, un thriller pazzesco dal ritmo costante, insinuante e gradualmente insostenibile. Con un finale mozzafiato che si appoggia, qui davvero solo i grandi del cinema, sull’effetto che provoca nello spettatore un suono d’ambiente (no spoiler, sia mai). Gli orsi non esistono vive oltretutto della impellente presenza dell’invisibile traducibile sia come cappa normativa che fa andare in bestia Panahi regista nel film, dell’illusione che fa saltare nervi e fiducia ai protagonisti che recitano il film di Panahi, dell’intangibile fosco occhieggiare dei mercanti di esseri umani che si nascondono guarda caso dove la natura sembra aver consentito di vivere, muoversi e pensare liberi da precetti morali stringenti. Infine, nel suo apparente pauperismo formale, Gli orsi non esistono è una franca elaborazione di come l’urgenza personale del raccontare si riesca a fondere con la pratica e la teoria generale del cinema. Un film di lotta diretta e attiva, un’opera sul moto individuale dell’andarsene, del disperdersi, del fuggire, che finisce per girarsi indietro, per restare e resistere. E qui la commozione è tanta.
Davide Turrini, Il Fatto Quotidiano

28 settembre 2022
Ribelli viaggiatori spaziali protagonisti de L'immensità di Emanuele Crialese
Sospesa sopra la testa di Adriana, nella scena iniziale, la macchina da presa prende quota permettendo allo sguardo di Emanuele Crialese di allargare la porzione di spazio dove la protagonista passa il tempo a giocare e a desiderare un’altra vita. Poco dopo la scena iniziale succede più o meno la stessa cosa. A cambiare è il punto di vista, questa volta ad altezza uomo, ma il movimento è sempre lo stesso, con l’obiettivo che allontanandosi dal centro del televisore in cui Raffaella Carrà si scatena in un contagioso balletto, espande il suo occhio sull’interno famigliare in cui madre e figli si stanno godendo lo spettacolo. Per Crialese L’immensità è innanzitutto un problema di spazi e di luoghi alternativi. A differenza della madre (Clara, interpretata da una Penélope Cruz che parla un italiano con forte accento spagnolo), costretta all’interno di un matrimonio già finito, incapace com’è di andare oltre le fantasie nelle quali ogni volta immagina di fare il verso alle star della canzone, Adriana le prova tutte pur di affrancarsi dal disagio della propria esistenza. Imprigionata in un corpo che non sente suo, la ragazzina si ribella per davvero vestendosi da uomo, facendosi chiamare con un nome maschile (Andrea) e quando possibile, allontanandosi da casa per varcare la frontiera del proibito oltre cui si estende il nugolo di baracche dove ad aspettarla ci sarà il primo amore.
Che si tratti di paesaggio fisico o psicologico, i personaggi del regista di Nuovomondo confermano la loro natura di viaggiatori, ribelli ai limiti imposti dalle regole degli uomini e per questo alla ricerca di universi alternativi. Non è un caso che la prima immagine del cinema di Crialese (Once We Were Strangers, 1997) sia un a sorta di epifania - sospesa tra sogno e realtà, tra fisico e metafisico - in cui vediamo Vincenzo Amato, attore prediletto del regista romano per aver partecipato a quattro dei cinque film girati, approdare sulle rive del fiume Hudson dopo periglioso viaggio, in una scena rivelatrice della natura migrante del protagonista, condizione che per il cinema di Crialese rappresenta una sorta di “eterno ritorno” nietzschiano.
Ne L’immensità questa dimensione è sviluppata in un confronto allo specchio tra madre e figlia, con la prima che lascia in eredità alla seconda il compito di affrancarsi da ciò che a lei non è stato permesso. La mascolinità di Adriana vuol dire anche questo: impedire che nella (sua) vita ci sia un altro uomo pronto a dirle che cosa deve fare, bloccandole la strada verso la sua realizzazione. A confermare il passaggio di consegne tra Clara e Adriana è l’ultima di una serie di sequenze surreali in cui nel corso del film le ritroviamo a ballare e cantare sul palco le hit musicali degli anni 70 al posto dei veri interpreti (Patty Bravo, Adriano Celentano, Raffaella Carrà). Nella sequenza conclusiva, infatti, Andrea in versione crooner intrattiene la platea essendo unico padrone della scena; pronta a “ballare da sola” dopo aver fatto da spalla alla madre.
Ma L’immensità va guardato anche in termini di corrispondenza tra realtà e finzione, nella vicinanza tra la biografia dei personaggi con l’esperienza umana del regista. Da questo punto di vista il nuovo lavoro di Crialese si presenta simile a quello che ha rappresentato E’ stata la mano di Dio per Paolo Sorrentino. A testimoniarlo è stata - per entrambi - la necessità di prendersi più tempo possibile prima di essere pronti a parlare al pubblico di un aspetto così intimo e delicato della loro vita. Nel caso di Crialese questo ha voluto dire smettere di girare per circa undici anni, tanti sono stati quelli che separano L’immensità da Terraferma. Come il film di Sorrentino, anche L’immensità permette all’appassionato di rileggere a posteriori la filmografia dell’autore romano, di entrare con maggior consapevolezza e più a fondo nella sua ispirazione creativa: si pensi per esempio alla corrispondenza tra Clara e la Grazia di “Respiro”, femmine folli, frutto di un processo artistico proveniente dalla stessa matrice esistenziale. Alla commistione tra sogno e realtà chiamata a segnalare la lotta tra l’essere o il non essere dei personaggi, e ancora, al concetto di viaggio che nella filmografia di Crialese non riduce il suo significato ad un’unica accezione ma che è sempre il risultato di una necessità materiale e insieme spirituale.
Carlo Cerofolini, Ondacinema

26 settembre 2022
Dal 3 al 6 ottobre tornano gli Incontri del Cinema d'Essai
Anche quest'anno il cinema del carbone è una delle sedi degli degli Incontri del Cinema d'Essai organizzati dalla FICE a Mantova dal 3 al 6 ottobre, ospitando quattro anteprime filmiche per la città di Mantova.
Si parte lunedì 3 alle 17.30 col documentario Alpenland di Robert Schabu, ritratto della diversità linguistica e culturale di una regione unica; martedì 4 alle 18.30 è la volta del viaggio tra i quechua dell'Altipiano Boliviano con Utama - Le terre dimenticate di Alejandro Loayza-Grisi: Preparativi per stare insieme per un periodo indefinito di tempo di Lili Horváth è un dramma sentimentale in salsa magiara, in proiezione mercoledì 5 alle 17.30; infine, giovedì 6 alle 17.30 concluderà il ciclo di anteprime il film di formazione portoghese Lobo e cão di Cláudia Varejão.
Per il programma completo consultate il sito www.fice.it. Le proiezioni, ad ingresso gratuito fino ad esaurimento dei posti, sono VIETATE AI MINORI DI 18 ANNI, trattandosi di film privi di Nulla Osta Ministeriale.

23 settembre 2022
Il carbone al Piccolo di Milano: è tempo di abbonarsi!
STAGIONE 2022/2023 - ABBONAMENTO A 6 SPETTACOLI DEL PICCOLO TEATRO DI MILANO
Anche per la stagione 2022/2023 del Piccolo Teatro di Milano il Cinema del Carbone propone un abbonamento a cinque spettacoli.
La scelta dei titoli è caduta su quelli considerati tra i più interessanti dal pubblico e dalla critica grazie alla presenza di registi quali Antonio Latella, Mario Martone, Emma Dante, Mimmo Borrelli o di attori quali Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Sandro Lombardi, Anna Della Rosa.
Inoltre viene proposto uno spettacolo fuori abbonamento, una “maratona di 6 ore circa”, Hamlet, di Antonio Latella, direttore della Biennale Teatro a Venezia, un classico imperdibile.
30 ottobre 2022: Hamlet – regia di Antonio Latella – fuori abbonamento
15 gennaio 2023: Tre modi per non morire di Giuseppe Montesano
5 marzo 2023: Romeo e Giulietta – regia di Mario Martone
16 aprile 2023: Pupo di zucchero di Emma Dante
14 maggio 2023: La cupa di Mimmo Borrelli
28 maggio 2023: Prima di Pascal Rambert
Per informazioni dettagliate e costi cliccate sul link Il carbone al Piccolo di Milano

22 settembre 2022
Tuesday Club - Il talismano della felicità: una storia di passione e rinascita che parte dalla cucina
È cosa nota che il cibo e la cucina siano afrodisiaci. Quando si crea un nuovo piatto si mescolano ingredienti, sapori e si sperimenta non sapendo mai davvero come sarà il risultato finale; un po’ come in amore quando si costruisce un rapporto non sapendo a cosa si va incontro, sperimentando fino a trovare il giusto equilibrio. Tuesday Club - Il talismano della felicità è un film che attraverso la cucina ci parla d’amore ma anche di rinascita, di seconde occasioni e di passioni che ci rendono vivi. Il film cerca di far capire che nessuna passione deve essere messa da parte e che non è mai troppo tardi per coltivarla. Nelle parole della sceneggiatrice il film è anche un inno al passato, un’esaltazione del ricordo della gioventù e di quei sogni che si avevano. Nel cast del film svedese Marie Richardson nei panni della protagonista Karen, mentre Björn Kjellman è il marito Sten. Peter Storemare è invece un prestigioso chef che terrà un corso seguito da Karen mentre la figlia della coppia ha il volto dell’attrice Ida Engvoll nel cast della serie Netflix, Love & Anarchy. [...]
Le protagoniste del film sono tutte donne e tutte diverse. Ognuna di loro ha fatto delle scelte di vita che le hanno condotte a dove sono ora. Frederika è la figlia di Karen ed è alla soglia dei 40 anni. Non nasconde mai la paura di questo fatidico numero e il suo personaggio incarna quella generazione di uomini e donne in crisi che non riescono a trovare il proprio posto e si fanno influenzare dal peso che il raggiungimento di certi traguardi detiene. La ragazza ha poi un buon rapporto con il padre ma conflittuale con la madre. Karen a sua volta incarna quelle donne che hanno scelto di rinunciare alla carriera o ai sogni per prendersi cura della famiglia. Quando trova del tempo libero si getta a capofitto nella sua passione, quella della cucina e decide di fare un passo avanti non negandosi di sognare ancora.
Il suo personaggio rappresenta perfettamente chi non si arrende e prova a coltivare il suo sogno, non importa il prezzo. Impara con la cucina ad uscire dalla sua dimensione, non solo quella fisica ma anche quella emotiva e buttarsi di più, mettersi in gioco e sperimentare. Monika è invece al suo opposto. Non mai avuto delle solide radici, è sempre stata in movimento spostandosi di posto in posto e vivendo una vita dal ritmo diverso e incarnando una libertà e un’indipendenza che Karen non ha avuto da tempo e come lei anche Pia. Dal punto di vista tecnico il film ha una palette di colori che nel complesso lo fa risultare profondamente armonioso. I colori degli abiti e dei luoghi spesso di sposano con quelli dei piatti e degli ingredienti. Molto buone anche le performance delle protagoniste, sopratutto Karen che riesce a veicolare bene l’immagine della donna in cerca di libertà e che è determinata a tenersela stretta una volta trovata. [...]
Tuesday Club - Il talismano della felicità è una visione piacevole, divertente e anche confortante che esalta l’importanza dei sogni e delle passioni, insegnando davvero che non è mai troppo tardi per seguire i propri sogni e le proprie passioni.
Francesca Imperi, Today

06 settembre 2022
Nido di vipere, uno scatenato pulp thriller made in Corea
Non solo K-pop, anche il K-cinema, ormai da qualche anno, ha ampiamente superato i confini asiatici ed è sempre più teso alla conquista del mercato cinematografico mondiale. Un obiettivo che anche “Nido di vipere”, firmato dall’esordiente Kim Yong-hoon, ha tutte le carte in regola per poter centrare. Il film è stato campione d’incassi in patria ,ma si è fatto notare anche in diversi festival cinematografici internazionali, tra i quali il Far East Festival di Udine e il Festival di Rotterdam dove ha conquistato il premio della giuria, ed ora arriva alla prova del botteghino che, in Italia, scatterà nella data del prossimo 15 settembre.
Si può raccontare Nido di Vipere come un noir che mette insieme elementi tradizionali: un oggetto del desiderio, una banda di loschi e avidi criminali che si fanno guerra l’uno contro l’altro per conquistare quell’oggetto, un poliziotto smaliziato, un povero comune mortale, sfortunato e fortunato insieme, una spietata femme fatale, feroci killer a servizio dei boss, colletti bianchi corrotti e disperati che daranno vita a furti, inseguimenti, omicidi, occultamenti di cadaveri, trappole, sanguinose rese dei conti. Insomma, nel film c’è tutto il necessario perché gli amanti della suspence e dell’azione rimangano coinvolti fino all’ultimo e anche divertiti, perché le situazioni da black comedy abbondano.
Il film per molti aspetti quindi non può dirsi innovativo, anche perché le fonti di ispirazione stilistica sono facilmente rintracciabili nel lavoro dei grandi nomi hollywoodiani della black comedy contemporanea: Quentin Tarantino e i fratelli Cohen su tutti. Ma questo non toglie nulla alla freschezza di un titolo, capace di raccontare con una storia a orologeria e molto ben calibrata, la bassezza e la disperazione dell’avidità, ma anche di essere ottimo e sano intrattenimento, del tipo che ci si augura di godere quando si entra in una sala cinematografica. Lo spettatore rimane subito imbrigliato dalla rete tessuta dalle storie individuali e da personaggi disegnati per essere tipi, ma non caricaturizzati, e ne rimane impigliato fino al finale, senza soffrire mai un momento di noia, ma anzi, in un crescendo di coinvolgemento, tra sorprese, rivolgimenti di fronte e più di qualche risata grottesca.
Valentina Di Nino, Today.it

19 agosto 2022
FIRE OF LOVE: una gemma di montaggio che riscrive il genere del documentario scientifico
Già autrice di Remastered: Tricky Dick and the Man in Black (episodio della serie musicale di Netflix) e co-produttrice, tra gli altri, di Una scomoda verità 2, Edge of Democracy e Becoming: la mia storia, la regista Sara Dosa, mentre nel 2019 lavora al documentario The Seer and the Unseen, si è imbattuta nel girato dei Krafft e inevitabilmente si è incuriosita al loro lavoro.
Un patrimonio impressionante e sorprendente di foto, libri e soprattutto di riprese in pellicola: decine di ore in 16 millimetri, quasi completamente prive di audio. Immagini che testimoniano incoscienza e passione, sprezzo del pericolo e sete di sapere. Incredibilmente vicine al centro dell'azione naturale e per lo più ancora non viste: solo due minuti sono stati utilizzati da Werner Herzog (che già si era interessato al tema in La soufrière, e qui risulta anche come consulente) per il suo Into the Inferno. Un materiale troppo affascinante per non tentare di dargli vita e senso narrativo. Digitalizzato per la prima volta dalla francese Image'Est, viene rimontato da Dosa insieme alle montatrici Erin Casper e Jocelyn Chaput. Il trio trasforma quel corposo tesoro di differenti e ipnotici movimenti magmatici, distese di cenere, appostamenti della coppia (e rari momenti di vita pratica dei sedicenti "artisti itineranti") in una testimonianza che, senza mostrare nemmeno un bacio, documenta una tenace storia d'amore.
È proprio questo il principio estetico che informa il film, che non cerca l'agiografia di una coppia di mad scientists, di esploratori fuori dall'ordinario, eroi caduti in nome della ricerca, ma di costruire una narrazione che trasmetta l'amore per la conoscenza che può appassionare e tenere unite due persone. Non didascalie che imprimano nella memoria i record della coppia, ma i nomi vulcani sono citati nei titoli di testa, come veri e propri personaggi. Le spettacolari immagini di attività e paesaggi vulcanici filmate e fotografate dai Krafft (che a tratti ricordano un po' i Devo, per la qualità fantascientifica e insieme artigianale delle loro tute e caschi) sono quindi articolate in funzione della progressione amorosa tra i due, che è in parallelo un processo cognitivo. Fino a esprimere alla massima potenza la loro coincidenza: "comprendere è un altro nome dell'amore", dice la voce narrante che accompagna le immagini (nella versione originale di Miranda July).
Quel testo filosofico è l'unica ricreazione originale del film, insieme ad alcuni rapidi passaggi per ricreare il momento del loro incontro e a una colonna sonora che tiene insieme con disinvoltura Brian Eno, Dalida e perfino un accenno morriconiano western. L'imprevedibilità, il mistero, l'inconoscibilità, il rischio del vulcano e quella di ogni relazione corrono fianco a fianco, in questa gemma di montaggio che riscrive con un'affascinante, partecipe prospettiva erotica il genere del documentario scientifico.
Raffaella Giancristofaro, Mymovies

21 giugno 2022
Jane by Charlotte - Il viaggio di Charlotte Gainsbourg tra cinema, mito e maternità
In principio fu una coppia: lei è una giovane attrice britannica, lui un noto cantante francese. I due si incontrano su un set e si amano follemente. Dal loro incontro, oltre ad un singolo dal successo planetario, il celebre Je t’aime… moi non plus, nasce una bambina. Quella bambina porta il nome di Charlotte Gainsbourg e i suoi genitori sono Jane Birkin e Serge Gainsbourg. Ognuno di loro, seppur nei rispettivi ambiti, farà la storia dell’arte contemporanea francese (e non solo). Si potrebbe quasi pensare che su tali icone non ci sia più molto da dire, ma a contraddire pesantemente questa visione è Jane by Charlotte, l’esordio alla regia di Charlotte Gainsbourg presentato a Cannes nel 2021. Il ritratto di questa figlia, che molto delicatamente si accosta al volto della madre, è così intimo da farsi parabola universale del rapporto madre-figlia, pur non celando la straordinarietà di due esistenze tanto peculiari.
Gainsbourg esordisce alla regia con un film per nulla facile, ma che è suo pienamente. Non nasconde di non sentirsi del tutto padrona del mezzo che adotta, ma poco ci importa per quanto efficace risulta nel suo intento: raccontare una donna così straordinaria nei suoi gesti e nelle sue parole più ordinarie. Dopo l’iniziale illusione di esser di fronte ad un tradizionale documentario su un tour musicale, la pellicola vira poi verso il personale sguardo incuriosito di una figlia verso la propria madre. La tensione tra le due protagoniste (Charlotte non lo è meno di Jane!) risulta a tratti così palpabile da essere vibrante, ancor prima che meramente autentica. Scopriamo un rapporto poco tattile e abbastanza impacciato fin dall’infanzia, con una madre persino intimidita dall’alterità tipica della figlia.
E vediamo al contempo una figlia che, pur sapendo bene cosa voglia chiedere alla madre, è anche disposta a farsi trasportare dai luoghi e dal fluire naturale delle emozioni. Non importa e non disturba che all’apparenza non ci sia una storyline ben definita: riusciamo comunque da spettatori ad entrare poco a poco nel vivo di chi siano queste donne e cosa rappresentino l’una per l’altra, per mezzo della personale cronologia emotiva di Charlotte. La regista non nega possano addirittura esserci momenti di vita della madre più noti ai fan che a lei stessa: si approccia a Jane, dunque, con la percezione assolutamente unica di una figlia che ama, pur con tutte le difficoltà che l’amore comporta. E in questa unicità si celano tanti dubbi e tanta voglia di capire e indagare chi si celi dietro quel sorriso deciso e quelle rughe così meravigliose: è un bisogno ben più personale che collettivo.
Jane by Charlotte ci mostra in fondo come sia possibile ad ogni età e persino nei rapporti più stretti imparare ad amarsi o ad amarsi sempre più. Attraverso le visite ai luoghi di famiglia (inclusa la casa-museo dedicata a Serge), le confessioni fianco a fianco sotto le coperte o ancora durante la visione di vecchi (e quindi dolorosi) filmini, Charlotte si scopre ammiratrice della donna che è stata ed è sua madre, forse anche per la costante giovialità e la tenacia di fronte al dolore, magari ritenute meno proprie. Un approccio esistenziale molto frequente e tipico di alcune fasi della vita consiste dopotutto nel tentativo di affrancarsi dal proprio modello genitoriale alla ricerca della propria indipendenza: Jane by Charlotte fa invece riscoprire tutta la bellezza del lasciarsi accompagnare dai propri genitori, nonché il miracolo del crescere insieme.
Adam Olivo - The Hot Corn

14 giugno 2022
Memoria di Apichatpong Weerasethakul, ovvero la comprensione del mondo grazie al prossimo
Memoria è anche un film sul subconscio che riemerge. È un film di spettri che si manifestano, che risalgono da un sé profondo e sconosciuto, tanto da apparirci come un’alterità. La comprensione allora deriva dal contatto con un altro sé, al quale siamo inspiegabilmente connessi secondo una visione filosofica che unisce panteismo e fantascienza, viaggi nel tempo e nello spazio che si rivelano circolari e ritornanti. Chi allora meglio di Tilda Swinton, attrice aliena per eccellenza, a interpretare la protagonista Jessica, elemento d’unione con un mondo passato, che ritorna attraverso il più semplice tocco della mano. Così limpido e spontaneo, e per questo profondamente umano. Non ci può essere vita senza la morte, così non ci può essere memoria senza un corpo che si faccia ospite di ricordi. Ma Apichatpong fa un passo in più, mostrandoci che non ci può essere completezza nella visione e nella comprensione del mondo senza qualcuno a fornirci le chiavi mancanti. Ognuno di noi dunque è portatore di un frammento di storia che nulla significa nel suo solitario isolamento. All’interno di una visione organica del reale, siamo parti, frammenti oscuri, capaci di illuminarsi e trovare senso solo nell’esperienza del contatto, nel ricongiungimento con l’altro, solo tra le mani di qualcuno disposto ad accogliere la nostra storia e a farne, appunto, memoria.
Chiara Zuccari, SentieriSelvaggi

07 giugno 2022
I tuttofare è un film che invita a conoscere il prossimo
Non fatevi ingannare dal titolo: I tuttofare (Seis días corrientes) di Neus Ballús, in concorso al Festival di Locarno, non ha niente di banale. Al contrario, questo terzo lungometraggio della regista catalana trabocca di originalità, audacia e una folle voglia di sperimentare: con i suoi interpreti, con il linguaggio filmico, con le situazioni improvvisate, con la permeabilità della sua sceneggiatura, con la spontaneità del suo protagonisti, con ciò che è straordinario nella vita quotidiana... È un film di una fluidità naturale che oscilla tra documentario e commedia, mentre si irradia di surrealismo, e non lascia che il cinema sociale nella sua versione più rancida (un tipo di cinema al quale si potrebbe a priori, a causa del suo soggetto, commettere l'errore di associare questo film) ne blocchi le canalizzazioni. [...] Da una sceneggiatura più o meno ispirata a eventi reali, scritta dal regista con Margarita Melgar (pseudonimo che in realtà nasconde due nomi: Montse Ganges e Ana Sanz-Magallón), Seis días corrientes ritrae un'umanità a noi vicina, pittoresca e magnetica nella quale rivalità, gelosia, seduzione, esigenze, perfezionismo, amicizia e rapporti di potere si fanno sentire, il tutto mimetizzato sotto una buona dose di quel senso dell'umorismo di cui abbiamo parlato sopra.
Alfonso Rivera, Cineuropa