14 marzo 2022
Da martedì 15 marzo l'arte fa tappa al carbone
Ogni nuovo movimento artistico nasce dall’esigenza di una frattura radicale con ciò che lo ha preceduto. L’imperativo è mutare le forme, riconcepire lo spazio, ridefinire il colore, cambiare il modo di guardare il (e al) mondo. Cinearte 2022 torna finalmente in sala prendendo slancio dall’istinto rivoluzionario di alcuni significativi artisti del Novecento.
La rassegna di quest’anno segue Man Ray alla macchina fotografica in una vacanza d’eccezione con Picasso ed Eluard, assiste alle lezioni di László Moholy-Nagy al New Bauhahus di Chicago, rivive l’arrivo in Italia di Joseph Beuys, Herman Nitsch e Marina Abramović tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.
Con Cinearte prosegue l’ormai quasi ventennale collaborazione tra il cinema del carbone e l'Associazione degli Amici di Palazzo Te e dei Musei Mantovani nell’indagine delle relazione tra cinema e arti visive, attraverso la proposta di film su vite d’artisti, sperimentazioni di videoarte, crito-film, riflessioni sulle nuove estetiche e sulle produzioni artistiche contemporanee.
Abbonamento 3 film: 10 euro. Biglietto singolo: intero 7 euro | soci cinema del carbone e amici palazzo te 5 euro.
10 marzo 2022
Le tre fratture di Catherine Corsini
Catherine Corsini torna in concorso a Cannes esattamente 20 anni dopo La repetition (nel 2012 Trois Mondes andò in Un Certain Regard). Lo fa con La fracture, titolo che a dispetto di un incipit declinato sul versante della “classica” commedia romantica francese, trasforma la sua natura fortemente simbolica per rinchiuderci all’interno di un pronto soccorso parigino.
La prima frattura è quella tra Raf (Valéria Bruni Tedeschi) e Julie (Marina Foïs), coppia sull’orlo della rottura. La seconda è quella occorsa in modo accidentale al gomito della prima. La terza, la più violenta, è quella tra lo Stato e i suoi cittadini.
Sì, perché nel pronto soccorso dove finirà Raf (e dove poco dopo la raggiungerà la compagna) ci andrà a finire anche Yann (Pio Marmaï), camionista giunto appositamente a Parigi per unirsi alla manifestazione dei gilet gialli contro il governo.
L’incontro tra i due, tra la borghesia intellettuale, radical chic e le istanze proletarie di chi, ferito e arrabbiato, è stato colpito dai poliziotti, frantumerà qualsiasi certezza e qualsiasi pregiudizio. Intanto, fuori dall’ospedale, gli scontri si fanno ancora più violenti. Fino ad irrompere anche lì, generando ulteriore caos.
Di sicuro schierato, il film scritto e diretto dalla regista francese ha il grande merito di svelare la propria tesi lungo il percorso, di fatto costruendo un dramma di forte impegno politico e civile – senza dimenticare l’abnegazione e le fatiche improbe di un corpo sanitario allo stremo delle forze e chiamato a far fronte a qualsiasi tipo di emergenza (tra tutti, lo sguardo della Corsini si poggia con maggior profondità su un’infermiera, Kim, interpretata da Aissatou Diallo Sagna), immortalato in epoca pre-Covid – ma sfruttando al massimo le potenzialità da commedia “nevrotica” che un’attrice come Valeria Bruni Tedeschi sa sempre restituire con naturalezza sconvolgente.
È proprio in questa continua altalena tra registri che La fracture trova la sua migliore ragion d’essere, con impennate di tensione smorzate di colpo da situazioni quasi debitrici della comicità slapstick (la Bruni Tedeschi che in almeno un paio di circostanze cade dalla brandina), altalena che tiene in piedi un assunto rimarchevole e che funziona anche grazie ad un cast ottimamente assortito.
Valerio Sammarco, Cinematografo
04 marzo 2022
Yari Saccotelli presenta Amos è Zawadi
Mercoledì 9 marzo alle 21:15, in collaborazione con l'Associazione Nyumba Ali - ONLUS, il regista Yari Saccotelli sarà nostro ospite per presentare il suo docufilm Amos è Zawadi .
Zawadi è un ragazzo tanzaniano gravemente disabile che recentemente ha acquisito, primo caso nella storia del suo paese, un diploma liceale e si accinge ad intraprendere studi universitari. Se Zawadi ha potuto studiare è stato grazie all'associazione Nyumba Ali, un'associazione di Bologna che dal 2006 opera ad Iringa (Tanzania) e che assiste in tre centri diurni circa cinquanta bambini e bambine gravemente disabili. Rifiutato da tutte le scuole pubbliche della nazione, Zawadi per tutti i sette anni della scuola primaria ha imparato a leggere e a scrivere, a far di conto e ad appicarsi in storia, geografia e lingua inglese grazie al personale ed alla tecnologia informatica procuratigli dalla Nyumba Ali. Ammesso all'esame conclusivo del primo ciclo si è distinto per gli ottimi voti ed ha subito manifestato la volontà di proseguire gli studi.Un locale liceo privato ha accolto Zawadi chiedendo alla Nyumba Ali in cambio non solo il pagamento della retta, ma anche un accompagnatore che lo assistesse a tempo pieno per aiutarlo a mangiare, vestirsi, andare in bagno, muoversi. Questa persona è stato il cugino Amos che a buon diritto condivide il merito del successo scolastico di Zawadi. Yari Saccotelli ha potuto riprendere la relazione tra i due ragazzi ad Iringa durante i giorni delle vacanze natalizie ed ha implacabilmente ripreso sequenze quotidiane di un rapporto non sempre idillico, spesso burrascoso. Il risultato è una narrazione che porta lo spettatore ad incontrare il mondo del volontariato e ad interrogarsi sul valore della solidarietà, dell'inclusione, dell'incontro multiculturale in modo non retorico, ma problematico e complesso.
Il film sarà replicato per le scuole giovedì 10 marzo alle 10.30, prresentato dallo stesso regista e dall'ex presidente di Nyumba Ali, il professor Mario Pinotti. Per prenotarsi, scrivete un'email a info@ilcinemadelcarbone.it
04 marzo 2022
Una fiaccolata cinematografica per la festa della donna
L’8 marzo la rassegna di documentari “Con i miei occhi. Storie Afgane” propone un evento speciale con un focus sulla condizione femminile in Afghanistan in occasione della giornata internazionale dei diritti della donna. Una "fiaccolata cinematografica" organizzata contemporaneamente in 14 città italiane - dai grandi capoluoghi ai centri più piccoli - per tenere viva l'attenzione su una realtà che si aggrava giorno dopo giorno, un’emergenza alla quale continuare a rivolgere la massima attenzione. L’Afghanistan con gli occhi delle afgane e degli afgani, raccontato attraverso una serie di documentari di autori e autrici che propongono storie quotidiane che sfuggono alla narrazione dei media. Un evento unico, a ingresso gratuito, verrà trasmesso in contemporanea in numerose sale italiane, dai grandi capoluoghi ai centri più piccoli, dando così il via a una rassegna cinematografica nazionale che si svolgerà fino all’8 aprile.
Alle ore 21.00 dell’8 marzo, in tutte le sale aderenti, sarà proiettato il documentario A Thousand Girls Like Me, con l'intervento della regista Sahra Mani, a cui seguirà un approfondimento sulla condizione femminile in Afghanistan.
Quando Khatera, una donna afgana di 23 anni, si oppone alla volontà della sua famiglia e alle tradizioni del suo Paese per cercare giustizia per gli anni di abusi sessuali subiti dal padre, emergono i difetti del sistema giudiziario afgano e la situazione delle donne. Una giovane regista afgana filma così un documentario sulla battaglia ostinata di una donna nel far sentire la sua voce.
Al termine del film, in tutte le sale aderenti sarà trasmesso dal Cinema la Compagnia lo streaming del dibattito attraverso la sala virtuale PiùCompagnia (accessibile dal sito www.cinemalacompagnia.it, in collaborazione con MyMovies.it) a cui prenderà parte la regista Sahra Mani.
14 le città raggiunte: Milano (Il Cinemino), Torino (Il Piccolo Cinema), Mantova (Cinema Del Carbone), Savona (Nuovofilmstudio), Bologna (Cinema Antoniano), Firenze (Cinema La Compagnia), Pisa (Cinema Arsenale), Rimini (Supercinema), Perugia (Cinema Sant'Angelo), Senigallia (Cinema Gabbiano), Fermo (Sala Degli Artisti), Roma (Spazio Scena), Napoli (Istituto Francese - a cura dell'istituto Francese e Parallelo 41 Produzioni con la collaborazione delle Rassegne Astradoc e Cinema al Femminile), Nuoro (Istituto Etnografico Isre).
La rassegna propone una serie di appuntamenti in presenza e online che prevedono proiezioni di documentari sull’Afghanistan accompagnate dalla presenza di registe e registi afgani, giornalisti e giornaliste, che ogni giorno raccontano e testimoniano ciò che avviene in questo Paese da oltre vent’anni in guerra. Un modo per accendere i riflettori sulla cultura afgana, ma anche sulla produzione artistica e cinematografica del Paese.
“Con i miei occhi. Storie Afgane” è un progetto promosso da Doc/it – Associazione Documentaristi Italiani e EMERGENCY con Cinema La Compagnia -Fondazione Sistema Toscana, Middle East Now, ZaLab, Cinema Troisi un progetto di Piccolo America. In collaborazione con Rai Documentari. Il progetto non ha scopo di lucro ed è finanziato attraverso le donazioni libere di enti pubblici e privati, di cittadine e cittadini. È possibile sostenere l'iniziativa con una donazione sul sito www.conimieiocchi.org.
04 marzo 2022
Dopo due anni ripartono i Dialoghi di teatro contemporaneo
La parola d'ordine è riapertura. A due anni dallo stop per la pandemia, il teatro torna al cinema del carbone con l'ottava edizione dei Dialoghi di teatro contemporaneo, riaprendo le porte di camerini e palcoscenici al pubblico in sala. La rassegna d'incontri permette infatti ai principali artisti della scena italiana di raccontare in modo intimo e diretto il proprio lavoro e la propria idea di arte. Il format stesso dei Dialoghi rispecchia il concetto di apertura: le conversazioni-spettacolo si adattano di volta in volta all'indole e al percorso artistico dei suoi protagonisti, lasciandoli liberi di alternare performance estemporanee, storytelling, materiale video-fotografico e creare un incontro unico fra chi fa teatro e chi vi assiste, riallacciando il dialogo allentatosi in questi 48 mesi nella speranza di un futuro migliore per le sale, i teatri e la pratica artistica in toto. Ricerca di nuovi linguaggi, di gesti, voglia di dare altre voci alla parola e alle immagini sembrano essere il fil rouge che unisce i protagonisti dell’edizione 2022: Cristiana Morganti, coreografa, è stata danzatrice solista del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch; Giovanni Franzoni, mantovano, ha lavorato con alcuni tra i più interessanti registi italiani (Latella, Tiezzi), vincitore del premio Associazione Nazionale Critici di Teatro come miglior attore 2020; Sonia Bergamasco, attrice di teatro che ha collaborato con grandi maestri (Ostermeier, Fabre, Bene, Strehler), poetessa e regista, è nota al grande pubblico anche per la sua interpretazione ne La meglio gioventù e per il ruolo di Livia ne Il commissario Montalbano.
Ad inaugurare la rassegna lunedì 7 marzo alle 21:15 sarà Cristiana Morganti in dialogo con Valeria Vannucci: dall'esperienza come prima ballerina di Pina Bausch, ai set con Almodovar e Wenders, fino all'insegnamento e al successo dei suoi spettacoli personali, la danzatrice e coreografa si racconterà al pubblico del carbone in una serata imperdibile.
Per prenotazioni, scrivete a info@ilcinemadelcarbone.it
02 marzo 2022
Un incantevole viaggio nel tempo da vedere rigorosamente al cinema
L'essere umano ha sempre cercato di dare delle risposte a ciò che lo circonda. La curiosità e il mistero dei fenomeni naturali hanno da sempre un'aura che attrae magneticamente e spinge a svelarne la natura. La scienza, fin dalla sua istituzione, cerca delle risposte. In questa ricerca si inserisce il cinema di Terrence Malick. Il regista americano apprezzato da critica e pubblico nel 2016 realizza questo documentario, che dopo essere stato presentato a Venezia ’73, esce ora nei cinema. La sua genesi è lunga e meticolosa, come tutti i lavori di Malick d'altronde. Nasconde però quello che è un interesse intrinseco per queste tematiche da parte del regista che qui riprende ed esplora, senza limiti temporali, l'indagine della vita già parzialmente trattata nel suo The Three of Life. Il nuovo film è in primis uno spettacolo esclusivamente sensoriale: la vista e l'udito guidano gli spettatori in un viaggio che attraversa il tempo.
L'esperienza della sua visione è da vivere in sala, non c'è alcun dubbio, è anzi obbligatoria per godere a pieno del prodotto. Non ci sono dialoghi ne interazioni tra personaggi, considerata la loro totale assenza. Ciò che si sente sono solo i suoni della natura, la musica che accompagna la narrazione e la voce calma e soffusa di Cate Blanchett. L'attrice australiana esterna tutte quelle domande che l'uomo rivolge alla natura e che molto spesso rimangono senza risposta, a riconferma del sublime(kantiano) e dell’inafferabilità di quest’ultima.
Non c'è una vera e propria trama nella pellicola. Questa è concepita come un viaggio per tappe che mostra l'evoluzione della natura e della vita. [...] Malick ci mostra alcune delle creature che rappresentano una piccola parte della vastità della vita, ricostruendo anche i dinosauri prima della loro estinzione. In questo lungo processo appare poi l'ultima creatura, la più evoluta ma anche quella che ha modificato più di ogni altra la forma della natura: l'essere umano.
Il racconto messo in scena è esclusivamente visivo. Le immagini rappresentano le domande e allo stesso tempo forniscono alcune risposte. La narrazione di Cate Blanchett non è una didascalica illustrazione che le accompagna spiegandone il significato. La sua è più una riflessione ad alta voce, l'esplicitare quelle domande alla fonte primaria della vita: Madre natura. È così che Malick la definisce e la evoca, la cerca disperatamente nelle sue parole. La interroga in un dialogo silenzioso. I suoi quesiti sono esistenziali: Cosa siamo? Perché siamo qui? Siamo frutto dell'amore o del caso che governa le regole di questo mondo? Domande che fanno riflettere sulla straordinarietà che vige nel regno naturale. L’inarrestabile sgorgare della lava dalla roccia nonostante l'acqua la spenga, il potere dell’acqua che lentamente modifica anche la pietra, sono immagini che fanno riflettere. Indicano la naturalità dei processi evolutivi e il loro ritmo entra in contrasto con quelli meccanici della vita di tutti i giorni. Ci invita a riflettere sull'importanza del tempo e di come tutto faccia il proprio corso.
Francesca Imperi, Today.it
24 febbraio 2022
Con Stringimi forte Amalric firma il suo film più compiuto
Fin dagli esordi come attore a metà anni ’90, con il primo ruolo da protagonista in Comment je me suis disputé... (ma vie sexuelle) di Desplechin dopo una decina d’anni di lavoro sui set, la carriera da regista di Mathieu Amalric è corsa in modo parallelo indipendente, come una riflessione a parte con tempi inevitabilmente più lenti e dilatati. Eppure è bello pensare che ci sia qualcosa in comune fra lo sguardo vivido e febbrile dell’Amalric attore – quel volto eternamente fanciullesco e vorace – e l’immediatezza scombinata e avventurosa dell'Amalric regista, che dai tempi dell'opera prima Mange ta soupe (1996) ha diretto in tutto otto film e si è costruito una filmografia di tutto rispetto.
Il continuo movimento, la frenesia e l’inquietudine di tanti personaggi interpretati da Amalric si ritrovano anche nella protagonista di Stringimi forte, il suo film finora più compiuto, il più maturo dal punto di vista della costruzione, liberamente tratto da una pièce di Claudine Galéa, Je reviens de loin, che dal testo di partenza eredita l’idea di frammentarietà, di viaggio, di costruzione composita. [...]
Stringimi forte è la storia di un trauma da elaborare, eppure non è un film sulla morte. Anzi, è il tentativo di un cineasta disordinato e istintivo di sostituire al dolore paralizzante del lutto (Amalric ha dichiarato di essersi ispirato a Ritorno a casa di De Oliveira) il lavorio incessante del cinema, la sua vitalità, e dunque il passaggio da una scena dall’altra, da un’immagine all’altra, con la protagonista che per scacciare i propri fantasmi sceglie di farsi lei stessa fantasma, una figura estranea che spia e tormenta la vita dei figli; una donna che inventa le vite che i suoi amori non potranno avere, tra oggetti comuni trasformati in simboli (l’auto come una macchina dal tempo, le polaroid mescolate come le scene del film, il pianoforte usato come tramite con la figlia…) ed eventi casuali, come la visione in tv di un documentario su Martha Argerich, che creano improbabili, strazianti, bellissime trame alternative al corso ingiusto della vita…
Il cinema da regista di Mathieu Amalric è un lavoro in continua evoluzione, figlio della solitudine e della frustrazione creativa (Tournée), dell’idea di fallimento e di eterno inseguimento della realtà (Barbara) e ora con Stringimi forte –dove tornano il tema della morte di Mange ta soupe e la figura della donna estranea di Le stade de Wimbledon – della resistenza al buio, al silenzio, allo sguardo fisso nel vuoto.
Quello sguardo – lo sguardo di Amalric attore e regista e lo sguardo della straordinaria Vicky Krieps, che regge il film sulle sue spalle e può esserne considerata a tutti gli effetti la co-autrice – non si fermerà mai per continuare a spostarsi e così continuare a perdersi.
Roberto Manassero, Cineforum
17 febbraio 2022
Piccolo Corpo: lo straordinario film di Laura Samani ci parla di noi
La giovane regista triestina Laura Samani, classe 1989, con Piccolo Corpo confeziona un esordio emozionante ed elegante, in cui racconta la storia del viaggio di Agata (Celeste Cescutti), una madre che nel nord Italia di inizio Novecento perde sua figlia alla nascita.
La religione cattolica e la società rurale di quei tempi avrebbero condannato l’anima della piccola, non battezzata, a rimanere per sempre intrappolata nel Limbo, priva di un nome e di una identità. Ma dopo aver sentito parlare di un santuario in cui si dice che i bambini vengano riportati miracolosamente in vita per il tempo di un respiro, per essere battezzati e liberati dal peccato originale, Agata decide di abbandonare in segreto l’isola in cui vive e intraprendere un viaggio col piccolo corpo della figlia nascosto in una scatola.
Lungo la strada verso le montagne del Nord, Agata incontrerà Lince (Ondina Quadri), un personaggio selvatico e dall’identità sfuggevole che si offrirà di accompagnarla e di aiutarla in cambio del contenuto della misteriosa scatola.
Piccolo Corpo, pur dipingendo una realtà chiaramente distante da quella odierna, ci parla comunque di noi, e lo fa trasportandoci in un sostrato culturale che ha contribuito in modo significativo a definire la cultura italiana contemporanea. Il mondo di Agata appare vastissimo, soprattutto per il pubblico di oggi abituato alla frenesia degli ambienti urbani e a storie più individuali e circoscritte. È poi un mondo fatto di donne determinate, pronte a sfidare le imposizioni della tradizione culturale e religiosa.
Il viaggio di Agata verso il santuario nelle montagne, per dare un’identità a sua figlia, diviene metafora potente di un percorso alla scoperta di sé; un gesto di ribellione compiuto con orgoglio e spirito di protesta. Lontano dal farsi incatenare in definizioni di genere, Piccolo Corpo si posiziona a metà strada tra il fantastico e la realtà, tra la vita e la morte. I paesaggi lagunari, le montagne dell’alto Friuli e un cast misto di professionisti e non (che recitano in friulano e nei diversi dialetti locali) contribuiscono a dar forma concreta ad un miracolo.
Quello di Piccolo Corpo è un miracolo che non è solo diegetico, ma anche produttivo: con eleganza e apparente semplicità, Laura Samani dà vita ad un film godibile e intenso; una storia personale, quella di Agata, che assume tratti universali – senza presunzioni di alcun genere e senza arrogarsi il diritto di dare giudizi o risposte.
Piccolo Corpo si posiziona all’interno del nuovo cinema italiano come un’opera di respiro internazionale, capace di recuperare le tradizioni popolari nostrane e di trasformarle in pretesti per affrontare questioni senza tempo. Le paure, i desideri e la forza di Agata non possono che essere sue; ma facendosi veicolo di sentimenti che appartengono alle esperienze umane più comuni ed essenziali, come la vita e la morte, diviene lei stessa portatrice di emozioni universali in grado di abbattere le barriere dello spazio e del tempo e arrivare dritte al cuore del pubblico
Niccolò Coscia, Anonimacinefili
11 febbraio 2022
Ancarani ci mostra Venezia come non l'abbiamo mai vista prima sullo schermo
Atlantide, tradotta in inglese come “Atlantis”, è la famosa città sommersa del mito greco, una metropoli dove l’acqua scorre lungo le strade e in cui sono presenti imponenti strutture civiche. Yuri Ancarani ripropone in parte questo senso di fantasia con il suo secondo lungometraggio, aggiungendo un’ulteriore finzione innaturale nel suo tipico sguardo documentaristico. L’isola città di Venezia ci è molto familiare da un punto di vista visivo, sia se ci siamo stati o no; non dobbiamo continuare a pensare ai film passati che l’hanno rappresentata come l’isola degli innamorati per eccellenza, o a quanto sia affascinante fotografare le sue calli e i suoi ponti bizzarri alla MC Escher. Ancarani fa di tutto – e possiamo percepire il suo sforzo – per farcela vedere in modo nuovo e preferisce mettere l’aspetto civile della città sotto una luce rivelatrice. Il film è stato uno dei primi ad essere proiettato in anteprima nella sezione Orizzonti della Mostra di Venezia di quest’anno.
Il film ha un contenuto abbastanza aperto, per questo qualsiasi associazione o interpretazione personale non sembrerà troppo inverosimile; Ancarani ha una reputazione ancora maggiore nel circuito delle gallerie, e opera in un ambito che di norma permette allo spettatore di avere più spazio per questa modalità di visualizzazione. Atlantide ricorda più che altro il classico underground Two-Lane Blacktop di Monte Hellman (altri potrebbero compararlo in particolar modo alla serie di Fast & Furious) – una visione inspiegabilmente esistenziale della cultura delle macchine californiana e delle autostrade tortuose tipicamente americane. In questo caso le macchine vengono sostituite da motoscafi, il barchino per essere precisi; queste cose vengono feticizzate, divinizzate, e curate da una sottocultura di giovani che sembrano aver rinunciato a tutto per vivere l’adrenalina di guidare un motoscafo che attraversa le onde come un coltello caldo nel burro.
David Katz, Cineuropa
10 febbraio 2022
America Latina, l'oscurità osservata da molto vicino
Dopo l'esordio folgorante con La terra dell’abbastanza (2018) e il successo di Favolacce (2020) che li ha consacrati come rivelazione autodidatta del cinema italiano, i fratelli D’Innocenzo – dotati di talento innato e grande padronanza tecnica – avrebbero potuto addomesticarsi, normalizzarsi, pensare di sfruttare il momento per diventare più commerciali e accoglienti. In un Paese in cui il pubblico sembra aver bisogno di sentirsi preso per mano da oggetti artistici edificanti non è facile scegliere la strada opposta. America Latina, terzo film di Fabio e Damiano D’Innocenzo (presentato a settembre in concorso a Venezia), è un viaggio perturbante nella mente di un personaggio. Un maschio bianco, etero, di mezza età: l’identità più in crisi del nostro tempo. Elio Germano, l’attore preferito dai due registi (in un’intervista lo hanno definito “il terzo fratello”) in Favolacce interpretava un padre violento e machista. In America Latina è un dentista calvo e mite. Ha una moglie eterea e silenziosa con i lineamenti antichi da diva del muto (Astrid Casali), due figlie adolescenti (Carlotta Gamba e Federica Pala) che non danno problemi, dei cani grandi ma non aggressivi che fanno la guardia alla luminosa e solitaria villa modernista con eccessi dissonanti da incubo agro-pontino in cui vive la famiglia perfetta. Ma la luce soffusa dei piani alti non arriva nel seminterrato. Laggiù, in cantina, si materializza l’ombra.
I fratelli D’Innocenzo hanno raccontato di avere iniziato a scrivere America Latina in una stanza d’albergo al Festival di Berlino, per stemperare la tensione dei giorni del 2020 in cui hanno vinto l’Orso d’argento per la sceneggiatura di Favolacce. Da gemelli inseparabili e simbiotici, sembrano alimentare reciprocamente le proprie visioni come ragazzini che inventano storie dell’orrore alla luce di una torcia. Dentro c’è Stephen King, con il suo anti-realismo sempre dalla parte dei bambini, perché non vale mai la pena di fidarsi della squallida realtà dei grandi. C’è Emmanuel Carrère, quello dei tempi de L’avversario e de La settimana bianca, due opere letterarie che si avvicinano al cuore del nemico mortale che abbiamo sempre in casa. E poi, dato che parliamo di cinema, ci sono le inquadrature distanti, come dipinti o fotografie di paesaggi che sembrano immobili. Avvicinandosi la macchina da presa assedia i personaggi, il volto e la nuca di Elio Germano, un uomo solo che minuto dopo minuto vede frantumarsi la realtà che lo circonda. America Latina è, come gli altri lavori dei D’Innocenzo, prima di tutto un film di attori e attrici, frutto di casting meticolosi che, come hanno raccontato i registi, a volte durano di più delle riprese stesse. Un altro dettaglio che rivela la loro capacità, così rara e rinfrescante, di pensare l’arte come qualcosa che sfugge alle logiche del mercato e della consolazione facile.
«Abbiamo scelto di raccontare questa storia perché era quella che ci metteva più in crisi. Come esseri umani, come narratori, come spettatori. Sollevava in noi domande alle quali non avevamo (e non abbiamo nemmeno ora) risposte che non si contraddicessero. Interrogarci su noi stessi è la missione più preziosa che il cinema ci permette», spiegano in una nota gli autori.
Valentina Della Seta, GQ