31 marzo 2022

Un’esperienza visiva che disorienta e stupisce: Lamb

Lamb è un film silenzioso dove le immagini e i suoni raccontano molto più delle parole. [...] Il freddo paesaggio nordico circonda i pochi personaggi del film che tentano di dominare questa natura così selvaggia ed incontaminata. L’essere umano fa parte della natura e l’animalità diventa parte dell’essere umano in una strana quanto inquietante fusione corporea. Gli animali non parlano ma trasmettono tantissimo grazie alla costruzione registica maniacale di Jóhannsson. Lo spettatore è portato a proiettare ansie e paure sugli sguardi ignari di gatti, agnelli e pecore. I campi lunghi si alternano ai dettagli e molto spesso i protagonisti sono inquadrati di spalle, accentuando in questo modo l’oscura sensazione di mistero che pervade l’opera. Il film può essere interpretato con riferimenti religiosi (l’agnello di Dio e la madre Maria), oppure come metafora delle irrimediabili conseguenze di un atto contro natura. In ogni caso Lamb è un esperimento visivo interessante che disorienta ma stupisce, una volta accettato di sospendere la cinica incredulità che ci contraddistingue.

Federico Rizzo, SentieriSelvaggi

30 marzo 2022

Lo spazio in Lunana

Attraverso una storia di sorprese e rivelazioni, in cui il giovane Ugyen è costretto ad accantonare il desiderio di trasferirsi in Australia per insegnare in un villaggio remoto dell’Himalaya, il debuttante Pawo Choyning Dorji adegua il conflitto del protagonista alla spazialità rarefatta dell’ambiente. In Lunana: Il villaggio alla fine del mondo, infatti, è il viaggio tra le montagne a costituire il mezzo, strumento e veicolo unico per la riscoperta della propria soggettività. E nel raggiungere la remota località di Lunana – situata a 4.800 metri d’altitudine – Ugyen intraprende un percorso esistenziale, più che fisico. In un pellegrinaggio dallo statuto conciliatorio, in cui le aspirazioni di alterità geografica (l’Australia) cedono il passo ad una forza centripeta, rivolta adesso verso l’interno (e, dunque, verso il cuore del paese). Un tragitto che Dorji (saggiamente) delinea attraverso l’incontro/scontro di tecnologia digitale e spirito analogico. Vivendo nella capitale occidentalizzata, Ugyen non ha alcuna possibilità di scoprire se stesso, con l’ultra-digitalizzazione dell’ambiente metropolitano a cannibalizzarne i rapporti emotivi. L’unico modo che ha per evadere dal senso di smarrimento, e di ritrovare nel contempo le coordinate esistenziali, è sostituire l’assuefazione tecnologica con l’essenzialità della natura. Una transizione ontologica destabilizzante, che il cineasta filtra attraverso un senso fenomenologico dello spazio, per condurre il protagonista all’accettazione (definitiva) della cultura originaria della propria terra. E per quanto la distanza (geografica, umana, identitaria) tra Ugyen e gli abitanti di Lunana sembri (in apparenza) incolmabile, il disvelamento delle radici culturali ne rivela una connessione naturale. È solo specchiandosi nei volti dei suoi studenti/bambini, sullo sfondo di un’autoctonia ritrovata, che il protagonista può arrivare a comprendere (e a formare) la propria identità, iscritta adesso in una spazialità pacificatrice.

Daniele D'Orsi, SentieriSelvaggi

24 marzo 2022

Morricone, storia di una rivoluzione

Venticinque sono gli anni che legano Giuseppe Tornatore a Ennio Morricone, quasi tre decenni di collaborazione da Nuovo Cinema Paradiso a La corrispondenza; adesso con Ennio il regista "realizza un sogno" restituendo al pubblico il "suo" Ennio e strutturando l'operazione come una grande partitura musicale. Un lavoro raffinato che, sorretto dallo sforzo titanico di Massimo Quaglia e Annalisa Schillaci al montaggio, alterna momenti aneddotici, materiale di archivio, frammenti di film e note alle parole di chi lo ha conosciuto e a quelle dello stesso Morricone che si mette letteralmente a nudo. Un viaggio epifanico tra i ricordi di un uomo che al pubblico è sempre apparso schivo e di poche parole, ma che qui si commuove in più di un'occasione: quando ricorda il padre trombettista che con quel lavoro manteneva l'intera famiglia, "usare la tromba per mangiare era un'umiliazione" dice; quando rievoca il giorno in cui lui e Petrassi si salutarono fuori dal conservatorio dopo il suo esame di diploma; o per quello strisciante senso di colpa che per anni lo avrebbe perseguitato, frutto del pregiudizio con cui gli ambienti accademici guardarono al suo essersi prestato al cinema. Un peccato originale che lo segnò per moltissimo tempo, "scrivere per il cinema equivaleva a prostituirsi", racconta e da cui cercò sempre una rivincita. Che alla fine ebbe, eccome.

Elisabetta Bartucca, Movieplayer

16 marzo 2022

In anteprima, Reflection: la storia di un padre e di un'umanità persa, sperata, ritrovata.

Il germe di fantasia in Reflection, l’opera di Valentyn Vasyanovych presentata in concorso durante la 78ma edizione della Mostra, è autenticamente tratto dalla vita dello stesso regista: ispirato da un piccione, schiantatosi ad alta velocità contro la finestra della sua casa, Vasyanovych ha tradotto il presagio funesto in un dramma narrativo, condensando in immagini prolisse e realisticamente algide l’orrore della guerra, la brutalità del conflitto orientale e, in parallelo, il dramma familiare del protagonista. L’avvenimento ha scosso la figlia del regista al punto da indurre entrambi a riflettere (da questo, Reflection) sul senso della vita, sulla sua caducità, l’irreversibilità degli eventi e l’attesa di una flebile resurrezione. La morte, attraverso gli occhi di una bambina di dieci anni, ha spinto il regista ad interrogarsi sulla relazione tra un padre e la figlia, racchiusi – complici – nel dolore per la perdita di una persona amata.

Ucraina orientale. Il chirurgo Serhiy (Roman Lutskyi) è ostaggio delle forze militari russe durante la guerra. Costretto a sopportare torture, umiliazioni e violenza, una volta rilasciato torna nel suo appartamento nella speranza di ritrovare un obiettivo di vita. Ad orientare le forze di Serhiy, il rapporto compromesso con l’ex moglie e la figlia, con cui cerca disperatamente e con fatica di recuperare il tempo trascorso a distanza. Come antidoto alla brutale disumanità cui ha assistito in zona di guerra, il chirurgo cura gli affetti familiari, ritrova l’umanità perduta attraverso l’amore ed il sostegno di chi è pronto a condividere i suoi silenzi.

  La guerra, la morte, l’infanzia: dagli occhi di una bambina, il significato universale della perdita

La regia di Valentyn Vasyanovych agisce in sottrazione: inquadrature fisse, flemmatici piano-sequenza, movimenti di macchina dosati e impercettibili restituiscono all’opera una fisionomia statica che raramente attecchisce nelle profondità emotive dello spettatore. Il cineasta ucraino talvolta si lascia domare dalla necessità di dinamismo, ponendo la camera all’interno di un veicolo in movimento o intenta a seguire il protagonista attraverso le stanze della tortura. Un paradosso, se si parte dall’assunto che a muovere l’intera trama del dramma sia il confronto con la morte attraverso gli occhi di una bambina: nella cornice di un contrasto tra l’agiatezza della quotidianità in un quartiere residenziale borghese e gli orrori della guerra sul fronte orientale della Crimea, la giovane si trova coinvolta in un percorso di elaborazione del lutto nel quale ad aiutarla c’è solo un adulto, un padre lontano che torna per consolidare il rapporto con la figlia. In Reflection Serhiy è inquadrato sempre da lontano, all’interno di una cornice che ne sottolinea il vuoto esistenziale contrapposto al grigiore di una quotidianità vissuta retrospettivamente: il film di Vasyanovych vive di contrasti, riscattandosi nell’atto finale con una regia più inclusiva fatta di primi piani caldi, esplicitazione di una resurrezione in via di definizione.

Se l’intento di Vasyanovych era quello di rappresentare la fissità della vita, tradurlo con un sostanziale immobilismo di camera è stata una scelta sensata e vincente. Il cineasta opta per una traduzione in immagini senza veli né filtri, rincuorando lo spettatore a distanza di sicurezza con uno sguardo indagatore riflessivo e artico. Per evitare di influenzare l’occhio di chi guarda, il regista opta per la totale assenza di sonoro, un meccanismo strategico atto a marcare – nei passaggi stranianti – il naturalismo del dramma in atto.

Giulia Calvani, Cinematographe.it

14 marzo 2022

Da martedì 15 marzo l'arte fa tappa al carbone

Ogni nuovo movimento artistico nasce dall’esigenza di una frattura radicale con ciò che lo ha preceduto. L’imperativo è mutare le forme, riconcepire lo spazio, ridefinire il colore, cambiare il modo di guardare il (e al) mondo. Cinearte 2022 torna finalmente in sala prendendo slancio dall’istinto rivoluzionario di alcuni significativi artisti del Novecento.
La rassegna di quest’anno segue Man Ray alla macchina fotografica in una vacanza d’eccezione con Picasso ed Eluard, assiste alle lezioni di László Moholy-Nagy al New Bauhahus di Chicago, rivive l’arrivo in Italia di Joseph Beuys, Herman Nitsch e Marina Abramović tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.
Con Cinearte prosegue l’ormai quasi ventennale collaborazione tra il cinema del carbone e l'Associazione degli Amici di Palazzo Te e dei Musei Mantovani nell’indagine delle relazione tra cinema e arti visive, attraverso la proposta di film su vite d’artisti, sperimentazioni di videoarte, crito-film, riflessioni sulle nuove estetiche e sulle produzioni artistiche contemporanee.

Abbonamento 3 film: 10 euro. Biglietto singolo: intero 7 euro | soci cinema del carbone e amici palazzo te 5 euro.

10 marzo 2022

Le tre fratture di Catherine Corsini

Catherine Corsini torna in concorso a Cannes esattamente 20 anni dopo La repetition (nel 2012 Trois Mondes andò in Un Certain Regard). Lo fa con La fracture, titolo che a dispetto di un incipit declinato sul versante della “classica” commedia romantica francese, trasforma la sua natura fortemente simbolica per rinchiuderci all’interno di un pronto soccorso parigino.

La prima frattura è quella tra Raf (Valéria Bruni Tedeschi) e Julie (Marina Foïs), coppia sull’orlo della rottura. La seconda è quella occorsa in modo accidentale al gomito della prima. La terza, la più violenta, è quella tra lo Stato e i suoi cittadini.

Sì, perché nel pronto soccorso dove finirà Raf (e dove poco dopo la raggiungerà la compagna) ci andrà a finire anche Yann (Pio Marmaï), camionista giunto appositamente a Parigi per unirsi alla manifestazione dei gilet gialli contro il governo.

L’incontro tra i due, tra la borghesia intellettuale, radical chic e le istanze proletarie di chi, ferito e arrabbiato, è stato colpito dai poliziotti, frantumerà qualsiasi certezza e qualsiasi pregiudizio. Intanto, fuori dall’ospedale, gli scontri si fanno ancora più violenti. Fino ad irrompere anche lì, generando ulteriore caos.

Di sicuro schierato, il film scritto e diretto dalla regista francese ha il grande merito di svelare la propria tesi lungo il percorso, di fatto costruendo un dramma di forte impegno politico e civile – senza dimenticare l’abnegazione e le fatiche improbe di un corpo sanitario allo stremo delle forze e chiamato a far fronte a qualsiasi tipo di emergenza (tra tutti, lo sguardo della Corsini si poggia con maggior profondità su un’infermiera, Kim, interpretata da Aissatou Diallo Sagna), immortalato in epoca pre-Covid – ma sfruttando al massimo le potenzialità da commedia “nevrotica” che un’attrice come Valeria Bruni Tedeschi sa sempre restituire con naturalezza sconvolgente.

È proprio in questa continua altalena tra registri che La fracture trova la sua migliore ragion d’essere, con impennate di tensione smorzate di colpo da situazioni quasi debitrici della comicità slapstick (la Bruni Tedeschi che in almeno un paio di circostanze cade dalla brandina), altalena che tiene in piedi un assunto rimarchevole e che funziona anche grazie ad un cast ottimamente assortito.

Valerio Sammarco, Cinematografo

04 marzo 2022

Yari Saccotelli presenta Amos è Zawadi

Mercoledì 9 marzo alle 21:15, in collaborazione con l'Associazione Nyumba Ali - ONLUS, il regista Yari Saccotelli sarà nostro ospite per presentare il suo docufilm Amos è Zawadi .

Zawadi è un ragazzo tanzaniano gravemente disabile che recentemente ha acquisito, primo caso nella storia del suo paese, un diploma liceale e si accinge ad intraprendere studi universitari. Se Zawadi ha potuto studiare è stato grazie all'associazione Nyumba Ali, un'associazione di Bologna che dal 2006 opera ad Iringa (Tanzania) e che assiste in tre centri diurni circa cinquanta bambini e bambine gravemente disabili. Rifiutato da tutte le scuole pubbliche della nazione, Zawadi per tutti i sette anni della scuola primaria ha imparato a leggere e a scrivere, a far di conto e ad appicarsi in storia, geografia e lingua inglese grazie al personale ed alla tecnologia informatica procuratigli dalla Nyumba Ali. Ammesso all'esame conclusivo del primo ciclo si è distinto per gli ottimi voti ed ha subito manifestato la volontà di proseguire gli studi.Un locale liceo privato ha accolto Zawadi chiedendo alla Nyumba Ali in cambio non solo il pagamento della retta, ma anche un accompagnatore che lo assistesse a tempo pieno per aiutarlo a mangiare, vestirsi, andare in bagno, muoversi. Questa persona è stato il cugino Amos che a buon diritto condivide il merito del successo scolastico di Zawadi. Yari Saccotelli ha potuto riprendere la relazione tra i due ragazzi ad Iringa durante i giorni delle vacanze natalizie ed ha implacabilmente ripreso sequenze quotidiane di un rapporto non sempre idillico, spesso burrascoso. Il risultato è una narrazione che porta lo spettatore ad incontrare il mondo del volontariato e ad interrogarsi sul valore della solidarietà, dell'inclusione, dell'incontro multiculturale in modo non retorico, ma problematico e complesso.

Il film sarà replicato per le scuole giovedì 10 marzo alle 10.30, prresentato dallo stesso regista e dall'ex presidente di Nyumba Ali, il professor Mario Pinotti. Per prenotarsi, scrivete un'email a info@ilcinemadelcarbone.it  

04 marzo 2022

Una fiaccolata cinematografica per la festa della donna

L’8 marzo la rassegna di documentari Con i miei occhi. Storie Afganepropone un evento speciale con un focus sulla condizione femminile in Afghanistan in occasione della giornata internazionale dei diritti della donna. Una "fiaccolata cinematografica" organizzata contemporaneamente in 14 città italiane - dai grandi capoluoghi ai centri più piccoli - per tenere viva l'attenzione su una realtà che si aggrava giorno dopo giorno, un’emergenza alla quale continuare a rivolgere la massima attenzione. L’Afghanistan con gli occhi delle afgane e degli afgani, raccontato attraverso una serie di documentari di autori e autrici che propongono storie quotidiane che sfuggono alla narrazione dei media. Un evento unico, a ingresso gratuito, verrà trasmesso in contemporanea in numerose sale italiane, dai grandi capoluoghi ai centri più piccoli, dando così il via a una rassegna cinematografica nazionale che si svolgerà fino all’8 aprile.

Alle ore 21.00 dell’8 marzo, in tutte le sale aderenti, sarà proiettato il documentario A Thousand Girls Like Me, con l'intervento della regista Sahra Mani, a cui seguirà un approfondimento sulla condizione femminile in Afghanistan.

Quando Khatera, una donna afgana di 23 anni, si oppone alla volontà della sua famiglia e alle tradizioni del suo Paese per cercare giustizia per gli anni di abusi sessuali subiti dal padre, emergono i difetti del sistema giudiziario afgano e la situazione delle donne. Una giovane regista afgana filma così un documentario sulla battaglia ostinata di una donna nel far sentire la sua voce.

Al termine del film, in tutte le sale aderenti sarà trasmesso dal Cinema la Compagnia lo streaming del dibattito attraverso la sala virtuale PiùCompagnia (accessibile dal sito www.cinemalacompagnia.it, in collaborazione con MyMovies.it) a cui prenderà parte la regista Sahra Mani.

14 le città raggiunte: Milano (Il Cinemino), Torino (Il Piccolo Cinema), Mantova (Cinema Del Carbone), Savona (Nuovofilmstudio), Bologna (Cinema Antoniano), Firenze (Cinema La Compagnia), Pisa (Cinema Arsenale), Rimini (Supercinema), Perugia (Cinema Sant'Angelo), Senigallia (Cinema Gabbiano), Fermo (Sala Degli Artisti), Roma (Spazio Scena), Napoli (Istituto Francese - a cura dell'istituto Francese e Parallelo 41 Produzioni con la collaborazione delle Rassegne Astradoc e Cinema al Femminile), Nuoro (Istituto Etnografico Isre).

La rassegna propone una serie di appuntamenti in presenza e online che prevedono proiezioni di documentari sull’Afghanistan accompagnate dalla presenza di registe e registi afgani, giornalisti e giornaliste, che ogni giorno raccontano e testimoniano ciò che avviene in questo Paese da oltre vent’anni in guerra. Un modo per accendere i riflettori sulla cultura afgana, ma anche sulla produzione artistica e cinematografica del Paese.

Con i miei occhi. Storie Afgane” è un progetto promosso da Doc/it – Associazione Documentaristi Italiani e EMERGENCY con Cinema La Compagnia -Fondazione Sistema Toscana, Middle East Now, ZaLab, Cinema Troisi un progetto di Piccolo America. In collaborazione con Rai Documentari. Il progetto non ha scopo di lucro ed è finanziato attraverso le donazioni libere di enti pubblici e privati, di cittadine e cittadini. È possibile sostenere l'iniziativa con una donazione sul sito www.conimieiocchi.org.

04 marzo 2022

Dopo due anni ripartono i Dialoghi di teatro contemporaneo

La parola d'ordine è riapertura. A due anni dallo stop per la pandemia, il teatro torna al cinema del carbone con l'ottava edizione dei Dialoghi di teatro contemporaneo, riaprendo le porte di camerini e palcoscenici al pubblico in sala. La rassegna d'incontri permette infatti ai principali artisti della scena italiana di raccontare in modo intimo e diretto il proprio lavoro e la propria idea di arte. Il format stesso dei Dialoghi rispecchia il concetto di apertura: le conversazioni-spettacolo si adattano di volta in volta all'indole e al percorso artistico dei suoi protagonisti, lasciandoli liberi di alternare performance estemporanee, storytelling, materiale video-fotografico e creare un incontro unico fra chi fa teatro e chi vi assiste, riallacciando il dialogo allentatosi in questi 48 mesi nella speranza di un futuro migliore per le sale, i teatri e la pratica artistica in toto. Ricerca di nuovi linguaggi, di gesti, voglia di dare altre voci alla parola e alle immagini sembrano essere il fil rouge che unisce i protagonisti dell’edizione 2022: Cristiana Morganti, coreografa, è stata danzatrice solista del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch; Giovanni Franzoni, mantovano, ha lavorato con alcuni tra i più interessanti registi italiani (Latella, Tiezzi), vincitore del premio Associazione Nazionale Critici di Teatro come miglior attore 2020; Sonia Bergamasco, attrice di teatro che ha collaborato con grandi maestri (Ostermeier, Fabre, Bene, Strehler), poetessa e regista, è nota al grande pubblico anche per la sua interpretazione ne La meglio gioventù e per il ruolo di Livia ne Il commissario Montalbano.

Ad inaugurare la rassegna lunedì 7 marzo alle 21:15 sarà Cristiana Morganti in dialogo con Valeria Vannucci: dall'esperienza come prima ballerina di Pina Bausch, ai set con Almodovar e Wenders, fino all'insegnamento e al successo dei suoi spettacoli personali, la danzatrice e coreografa si racconterà al pubblico del carbone in una serata imperdibile.

Per prenotazioni, scrivete a info@ilcinemadelcarbone.it

02 marzo 2022

Un incantevole viaggio nel tempo da vedere rigorosamente al cinema

L'essere umano ha sempre cercato di dare delle risposte a ciò che lo circonda. La curiosità e il mistero dei fenomeni naturali hanno da sempre un'aura che attrae magneticamente e spinge a svelarne la natura. La scienza, fin dalla sua istituzione, cerca delle risposte. In questa ricerca si inserisce il cinema di Terrence Malick. Il regista americano apprezzato da critica e pubblico nel 2016 realizza questo documentario, che dopo essere stato presentato a Venezia ’73, esce ora nei cinema. La sua genesi è lunga e meticolosa, come tutti i lavori di Malick d'altronde. Nasconde però quello che è un interesse intrinseco per queste tematiche da parte del regista che qui riprende ed esplora, senza limiti temporali, l'indagine della vita già parzialmente trattata nel suo The Three of Life. Il nuovo film è in primis uno spettacolo esclusivamente sensoriale: la vista e l'udito guidano gli spettatori in un viaggio che attraversa il tempo.

L'esperienza della sua visione è da vivere in sala, non c'è alcun dubbio, è anzi obbligatoria per godere a pieno del prodotto. Non ci sono dialoghi ne interazioni tra personaggi, considerata la loro totale assenza. Ciò che si sente sono solo i suoni della natura, la musica che accompagna la narrazione e la voce calma e soffusa di Cate Blanchett. L'attrice australiana esterna tutte quelle domande che l'uomo rivolge alla natura e che molto spesso rimangono senza risposta, a riconferma del sublime(kantiano) e dell’inafferabilità di quest’ultima.

Non c'è una vera e propria trama nella pellicola. Questa è concepita come un viaggio per tappe che mostra l'evoluzione della natura e della vita. [...] Malick ci mostra alcune delle creature che rappresentano una piccola parte della vastità della vita, ricostruendo anche i dinosauri prima della loro estinzione. In questo lungo processo appare poi l'ultima creatura, la più evoluta ma anche quella che ha modificato più di ogni altra la forma della natura: l'essere umano.

Il racconto messo in scena è esclusivamente visivo. Le immagini rappresentano le domande e allo stesso tempo forniscono alcune risposte. La narrazione di Cate Blanchett non è una didascalica illustrazione che le accompagna spiegandone il significato. La sua è più una riflessione ad alta voce, l'esplicitare quelle domande alla fonte primaria della vita: Madre natura. È così che Malick la definisce e la evoca, la cerca disperatamente nelle sue parole. La interroga in un dialogo silenzioso. I suoi quesiti sono esistenziali: Cosa siamo? Perché siamo qui? Siamo frutto dell'amore o del caso che governa le regole di questo mondo? Domande che fanno riflettere sulla straordinarietà che vige nel regno naturale. L’inarrestabile sgorgare della lava dalla roccia nonostante l'acqua la spenga, il potere dell’acqua che lentamente modifica anche la pietra, sono immagini che fanno riflettere. Indicano la naturalità dei processi evolutivi e il loro ritmo entra in contrasto con quelli meccanici della vita di tutti i giorni. Ci invita a riflettere sull'importanza del tempo e di come tutto faccia il proprio corso.

Francesca Imperi, Today.it