20 maggio 2022

Adorazione: i ragazzi selvaggi delle Ardenne

Selvaggio e magnetico il nuovo film di Fabrice du Welz, Adorazione, pellicola ambientata nella campagna belga delle Ardenne. Una storia d'amore sui generis tra due adolescenti. Una corsa verso l'abisso della follia. E la follia è compagna di strada di Gloria, misteriosa ragazzina ospite di una clinica privata per malattie mentali in cui lavora la madre del dodicenne Paul. A interpretarli Thomas Gioria e Fantine Harduin, giovani e promettenti attori francofoni. Quando incontra Gloria, Paul ne rimane immediatamente affascinato tanto da ignorare i divieti materni e fuggire con la ragazzina. La solitudine di Paul unita alla follia di Gloria, ormai priva delle sue medicine, danno vita a un mix letale. [...] Disavventure e incontri si susseguono nella campagna belga mentre Paul assiste atterrito e affascinato alle esplosioni di violenza della sua amica, il cui personaggio sprigiona la stessa nefasta potenza attrattiva di certe figure femminili del cinema horror.

Il cammino autodistruttivo di Paul e Gloria in Adorazione ha molto in comune con tante pellicole on the road incentrate su coppie borderline, ma il film di Fabrice Du Welz ha due frecce in più al proprio arco: l'età dei protagonisti, appena adolescenti, e il paesaggio naturalistico delle Ardenne la cui campagna cupa e lussureggiante viene catturata con sapienza dall'obiettivo del direttore della fotografia Manuel Dacosse. C'è una inspiegabile purezza nella follia di Gloria che si riversa sugli esseri viventi che le si avvicinano, uomini o animali che siano. La ragazzina, attraverso il filtro dello sguardo estatico di Paul, viene rappresentata come una sacerdotessa intenta a compiere riti primordiali e anche quando il velo dell'ingenuità del ragazzo viene squarciato dalla malattia mentale di lei questo non la rende meno attraente ai suoi occhi.

Film di atmosfere punteggiato da pochi dialoghi e ancor meno presenze umane (tra cui si segnala l'eccentrico solitario di mezza età interpretato da Benoît Poelvoorde), Adorazione è in gran parte giocato sulla tensione che accompagna il vagabondare di Paul e Gloria. Non ci vuol molto a capire che la ragazzina è una mina vagante pronta a esplodere in qualsiasi momento ed è questa energia che sprigiona dalla sua figura ad alimentare il romanzo di formazione. Dopo Calvaire e The Lonely Heart Killers, la trilogia delle Ardenne di Fabrice du Welz si conclude con un film più intimo, che azzarda uno scavo psicologico su un personaggio fuori dagli schemi, offrendo al pubblico uno sguardo sull'abisso dell'adolescenza. Ma per quanto sui generis, Adorazione è pur sempre una storia d'amore che ripropone il potere fascinatorio del femminile sul maschile. Assunto valido per tutte le età e a tutte le latitudini.

Valentina D'Amico, Movieplayer

18 maggio 2022

Only the animals: un thriller ben costruito che unisce in modo sorprendente due mondi lontani

“Quando si ama non può succederti nulla di male”. Non è proprio così in Only the Animals - Storie di spiriti amanti, sesto lungometraggio del regista franco-tedesco Dominik Moll, selezionato – e molto applaudito – come titolo d’apertura della 16ma edizione delle Giornate degli Autori di Venezia. Cinque storie d’amore squilibrate e disfunzionali, dove chi ama si fa anche molto male (al contrario di ciò che afferma un’anziana signora nel film), si intrecciano in questo thriller noir serrato e ben costruito, che parte dalla scomparsa di una donna, Evelyne (Valeria Bruni Tedeschi) in una notte di tempesta in una fredda regione rurale della Francia.

Adattato dal regista con Gilles Marchand dall’omonimo e pluripremiato libro del romanziere francese Colin Niel, pubblicato nel 2017, il film di Moll mantiene la struttura in cinque capitoli distinti, ciascuno per ogni personaggio, che, mentre mostrano i diversi punti di vista su questa misteriosa sparizione, svelano un intreccio di storie e persone sempre più sorprendente, che dalle desolate nevi del Causse Méjean vanno a finire alle affollate strade di Abidjan, in Costa D’Avorio, passando per Internet, chat tra sconosciuti, scambi d’identità e feroci delusioni.

Alice (Laure Calamy), Joseph (Damien Bonnard), Marion (Nadia Tereszkiewicz), Armand (Guy Roger “Bibisse” N’drin), Michel (Denis Ménochet) sono, ognuno a suo modo, degli idealisti che sognano di evadere dal loro quotidiano, e cercano l’amore in relazioni reali o immaginarie. Lo spettatore scopre progressivamente cosa leghi gli uni agli altri, un segmento dopo l’altro che un po’ chiarisce e un po’ aggiunge nuovi elementi, e davvero non è il caso qui di svelare i dettagli della trama, per non rovinare la sorpresa.

Il mistero della scomparsa di Evelyne è il filo rosso che tiene unito il tutto, ma è soprattutto sui segreti e sulle inconfessate evasioni dei suoi protagonisti che il film si concentra, aprendo anche una finestra su alcune dinamiche del mondo contemporaneo e sulle disuguaglianze economiche. Dalla torbida relazione di un’assistente sociale con un suo scontroso e taciturno assistito (sul quale inizialmente è facile concentrare tutti i sospetti), passando per l’attrazione fatale tra una donna e una ragazza molto più giovane di lei, a circa due terzi del film la narrazione si trasferisce in un altro mondo, quello dei giovani africani assetati di soldi, che vedono come loro unica risorsa lo sfruttamento dell’uomo bianco, con la complicità di sciamani che con i loro riti tribali benedicono e propiziano attività illecite.

È l’incontro tra questi due universi lontani, ma che le nuove tecnologie mettono facilmente in connessione, il punto davvero forte di questo thriller globale. Un viaggio appassionante tra culture diverse, relazioni pericolose e nei lati oscuri del desiderio, dove l’amore è una trappola da cui si esce irrimediabilmente con le ossa rotte.

Vittoria Scarpa, Cineuropa

10 maggio 2022

A Chiara, uno dei film italiani più intensi dell'anno

Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs dell'ultimo Festival di Cannes, A Chiara è la chiusura di un'ideale trilogia che il giovane regista classe 1984 ha ambientato in Calabria, dopo Mediterranea del 2015 e A Ciambra del 2017, film quest'ultimo con cui il nuovo capitolo ha davvero molto in comune. Anche in questo caso siamo di fronte a un racconto di formazione, seppur al femminile, con una ragazza che si trova da un giorno all'altro costretta a cercare di capire quale potrà essere il suo futuro: Chiara è una quindicenne che scopre all'improvviso che il padre tanto amato è un affiliato della ‘ndrangheta e, da quel momento, tutto il suo universo sembra drammaticamente crollare. Come nei suoi lavori precedenti, Carpignano ha dato vita a un film di finzione fortemente mescolato con il linguaggio documentaristico, essendosi anche basato su esperienze delle persone del luogo.

Aperto da una sequenza di grandissima forza estetica, A Chiara è la conferma del grande talento di Carpignano, che si mantiene sui livelli del suo lungometraggio del 2017, riuscendo ancora a dare vita a un prodotto realistico e allo stesso tempo capace di empatizzare con lo spettatore. Il coinvolgimento è dovuto soprattutto all'uso notevole e maturo della macchina da presa, perennemente dinamica ed efficace nel regalare al pubblico una vera e propria esperienza immersiva all'interno del nucleo familiare protagonista.La struttura narrativa è molto semplice e alcuni passaggi non abbastanza incisivi, ma nel complesso il film funziona, riesce a far riflettere e a regalare momenti di grande cinema e di ottima recitazione. Da segnalare che A Chiara ha vinto il premio Europa Cinema Label del Festival di Cannes nella sezione Quinzaine des Réalisateurs.

Andrea Chimento, Il Sole 24 ore

03 maggio 2022

Noi due, l’emozionante road movie sulla paternità di Nir Bergman

È un commovente rapporto padre-figlio quello al centro di Noi due, del regista israeliano Nir Bergman. Selezionato per il Festival di Cannes 2020 e presentato al Toronto International Film Festival il film è un road movie misurato e lineare che riflette con lucida sensibilità sui temi dell’autismo e della paternità. Noi due è un film sul cambiamento necessario e sul dolore della separazione che conquista nella sua sobria tenerezza.

Aharon (Shai Avivi), ex disegnatore talentuoso, vive a Tel Aviv con suo figlio Uri (Noam Imber), un ventenne affetto da disturbi dello spettro autistico. La loro quotidianità, scandita da una serie di imprescindibili abitudini, subisce uno scossone quando Tamara (Smadi Wolfman), madre di Uri ed ex moglie di Aharon, preme affinché il ragazzo si trasferisca in un istituto specializzato che possa aiutarlo a socializzare e ad aprire i suoi orizzonti. La possibilità di un così radicale cambiamento spaventa tanto Uri quanto Aharon che decide, così, di scappare con il ragazzo e mettersi in viaggio verso gli Stati Uniti.

Basta notare lo scintillio negli occhi di Aharon quando guarda Uri per comprendere quanto viscerale sia l’amore di questo padre per suo figlio. Un amore che ha spinto il disegnatore ad abbandonare totalmente la sua carriera perché potesse prendersi cura a tempo pieno del ragazzo. Un amore che rischia di obnubilare la vista di Aharon e far emergere, nonostante le buone intenzioni, il lato più egoista della sua personalità. Perché non è solo Uri ad aver bisogno del padre, ma è soprattutto l’uomo a non riuscire concepire una vita lontano da suo figlio. L’idea della separazione lo terrorizza: da un lato teme che sradicare forzatamente Uri dalle proprie abitudini possa destabilizzare il ragazzo, dall’altro ha paura della solitudine. Noi due riesce a raccontare la paternità con un garbo che coinvolge, loda l’amore e problematizza le ombre di un rapporto che rifugge da qualunque idealizzazione.

Senza patetismi, con una lucidità che non smette mai di sprizzare tenerezza, Noi due celebra l’affetto e, allo stesso tempo, si dimostra un esemplare caso di rappresentazione della disabilità. Fuggendo ogni rischio di sovrabbondanza, Nir Bergman punta tutto su una sobrietà compositiva che permette all’anima dei personaggi di manifestarsi sullo schermo. Anche grazie alle misurate interpretazioni degli attori i personaggini guadagnano in complessità e tridimensionalità: Shai Avivi coglie il terrore esistenziale Aharon e, al tempo stesso, restituisce tutto l’incredibile affetto che questi prova per suo figlio; Noam Imber è eccellente nel mettere in scena le sfumature del suo Uri senza mai scadere nell’overacting. È la chimica tra questi due interpreti in cuore emozionale di una pellicola commovente.

Gabriele Guerrieri, Spettacolo.eu

20 aprile 2022

Licorice Pizza è uno di quei film che vorremmo non finissero mai

Ci sono film che appena usciti dalla sala viene già voglia di rivedere e Licorice Pizza è uno di questi. Opere capaci di portarti indietro nel tempo, farti ridere, intenerire, emozionare. Non basterebbero fiumi di inchiostro a descrivere tutta la potenza visiva, l'adrenalina, l'energia contagiosa di questo film. Un'esplosione di vita che ci riporta ai brividi dei primi amori, quelli goffi e buffi, pieni di errori e incertezze, di tenerezze, brufoli e atti mancati.

Nasce così la storia d'amore per nulla convenzionale al centro del nuovo film di Paul Thomas Anderson, che si dimostra ancora una volta un cineasta in grado di osare, rinnovarsi e sorprendere il suo pubblico come nessun altro, cambiando senza timore genere e stile narrativo. Questa volta ci porta, con un piano sequenza lungo e riuscito dei suoi, nella California degli anni 70, direttamente nella scuola in cui l'intraprendente baby attore 15enne Gary Valentine (Cooper Hoffman) s’invaghisce della 25enne Alana (Alana Haim), aiuto-fotografo per l'annuario degli studenti. Lui è ironico, insistente e logorroico, un Woody Allen in erba. Lei è scettica, acuta e curiosa, finirà per accettare il suo invito a cena e tra i due nasce un sodalizio destinato a durare. 

L'amicizia si consolida negli affari, quando Gary decide di aprire un’azienda di materassi ad acqua, facendosi aiutare da Alana. Tra i clienti c'è un certo Jon Peters, interpretato da un Bradley Cooper istrionico ed esilarante nella sua fissa della conquista (pur frequentando Barbra Streisand…). Con lui, a bordo di un camion guidato da Alana, il divertimento è assicurato. Vale la pena sottolineare che il film, giustamente candidato agli Oscar come miglior film, regia e sceneggiatura originale, vanta dialoghi e direzione degli attori d'eccezione. Se la cantante Alana Haim al suo primo film è uno dei debutti attoriali più notevoli degli ultimi dieci anni, Cooper Hoffman è la prova che buon sangue non mente (il padre era il compianto Philip Seymour Hoffman). Accanto a loro star di spessore si prestano con rara ironia a ruoli parodistici scritti talmente bene da risultare credibili e divertenti, come Sean Penn nei panni del divo macho Jack alias William Holden, con il suo fascino magnetico e la sfrenata (in tutti i sensi) passione per la moto. 

Insomma, Licorice Pizza è uno di quei film che chi guarda vorrebbe non finisse mai. Paul Thomas Anderson sublima il teen-movie portandolo a un livello superiore, firma un film lontano dalla raffinata austerità dell'impeccabile Il filo nascosto, ma vicino alle imperfezioni di cui è fatta la vita, specie nelle prime esperienze. Un delizioso film di formazione sentimentale godibile a tutte le età, traboccante di ironia e goliardica nostalgia, tra flilpper e primi baci, carezze frenate e (rin)corse a perdifiato.

Caludia Catalli, Wired

14 aprile 2022

Una madre, una figlia, un film toccante su un legame sacro (e indissolubile)

“Una madre, una figlia” non è un film facile da raccontare. Porta in scena una realtà cruda, a tratti difficile da digerire. Porta in scena le difficoltà di una madre e una figlia che uniscono le proprie forze per non lasciarsi stritolare da una società patriarcale. Porta in scena i colori e la luminosità del Ciad, ma anche l’oscurità e la povertà di una periferia sconnessa. Porta in scena anche l’amore. Quello di una mamma per una bambina che ha cresciuto da sola, quello di una comunità di donne che, nonostante tutto e tutti, riesce a fare rete, a creare un legame. Del resto, il titolo originale del film è “Lingui”, una parola usata in arabo ciadiano che indica proprio le connessioni o i legami, appunto. È un termine che implica solidarietà, mutuo soccorso, aiuto reciproco a restare a galla. Come spiega bene il regista, “io posso esistere solo se anche gli altri esistono. Questo è il lingui, questo è il filo comune, il legame sacro del nostro tessuto sociale. Essenzialmente, si tratta di una filosofia altruista. La parola simboleggia la resilienza di una società quando deve affrontare problemi e prove terribili. E quando questo lingui viene spezzato, preannuncia l’inizio di un conflitto”.

Chiara Capuani, Today.it

06 aprile 2022

Rinviato l'incontro alla Biblioteca Teresiana

L'evento dedicato ai tesserati di Cultura alle quattro e un quarto intitolato "La raccolta delle stampe della Biblioteca Teresiana", previsto per giovedì 7 aprile alle 16:15, è stato rinviato per indisponibilità della relatrice Chiara Pisani.

L'incontro si svolgerà, sempre nei locali della Biblioteca Teresiana, giovedì 5 maggio alle 16:15.

31 marzo 2022

Un’esperienza visiva che disorienta e stupisce: Lamb

Lamb è un film silenzioso dove le immagini e i suoni raccontano molto più delle parole. [...] Il freddo paesaggio nordico circonda i pochi personaggi del film che tentano di dominare questa natura così selvaggia ed incontaminata. L’essere umano fa parte della natura e l’animalità diventa parte dell’essere umano in una strana quanto inquietante fusione corporea. Gli animali non parlano ma trasmettono tantissimo grazie alla costruzione registica maniacale di Jóhannsson. Lo spettatore è portato a proiettare ansie e paure sugli sguardi ignari di gatti, agnelli e pecore. I campi lunghi si alternano ai dettagli e molto spesso i protagonisti sono inquadrati di spalle, accentuando in questo modo l’oscura sensazione di mistero che pervade l’opera. Il film può essere interpretato con riferimenti religiosi (l’agnello di Dio e la madre Maria), oppure come metafora delle irrimediabili conseguenze di un atto contro natura. In ogni caso Lamb è un esperimento visivo interessante che disorienta ma stupisce, una volta accettato di sospendere la cinica incredulità che ci contraddistingue.

Federico Rizzo, SentieriSelvaggi

30 marzo 2022

Lo spazio in Lunana

Attraverso una storia di sorprese e rivelazioni, in cui il giovane Ugyen è costretto ad accantonare il desiderio di trasferirsi in Australia per insegnare in un villaggio remoto dell’Himalaya, il debuttante Pawo Choyning Dorji adegua il conflitto del protagonista alla spazialità rarefatta dell’ambiente. In Lunana: Il villaggio alla fine del mondo, infatti, è il viaggio tra le montagne a costituire il mezzo, strumento e veicolo unico per la riscoperta della propria soggettività. E nel raggiungere la remota località di Lunana – situata a 4.800 metri d’altitudine – Ugyen intraprende un percorso esistenziale, più che fisico. In un pellegrinaggio dallo statuto conciliatorio, in cui le aspirazioni di alterità geografica (l’Australia) cedono il passo ad una forza centripeta, rivolta adesso verso l’interno (e, dunque, verso il cuore del paese). Un tragitto che Dorji (saggiamente) delinea attraverso l’incontro/scontro di tecnologia digitale e spirito analogico. Vivendo nella capitale occidentalizzata, Ugyen non ha alcuna possibilità di scoprire se stesso, con l’ultra-digitalizzazione dell’ambiente metropolitano a cannibalizzarne i rapporti emotivi. L’unico modo che ha per evadere dal senso di smarrimento, e di ritrovare nel contempo le coordinate esistenziali, è sostituire l’assuefazione tecnologica con l’essenzialità della natura. Una transizione ontologica destabilizzante, che il cineasta filtra attraverso un senso fenomenologico dello spazio, per condurre il protagonista all’accettazione (definitiva) della cultura originaria della propria terra. E per quanto la distanza (geografica, umana, identitaria) tra Ugyen e gli abitanti di Lunana sembri (in apparenza) incolmabile, il disvelamento delle radici culturali ne rivela una connessione naturale. È solo specchiandosi nei volti dei suoi studenti/bambini, sullo sfondo di un’autoctonia ritrovata, che il protagonista può arrivare a comprendere (e a formare) la propria identità, iscritta adesso in una spazialità pacificatrice.

Daniele D'Orsi, SentieriSelvaggi

24 marzo 2022

Morricone, storia di una rivoluzione

Venticinque sono gli anni che legano Giuseppe Tornatore a Ennio Morricone, quasi tre decenni di collaborazione da Nuovo Cinema Paradiso a La corrispondenza; adesso con Ennio il regista "realizza un sogno" restituendo al pubblico il "suo" Ennio e strutturando l'operazione come una grande partitura musicale. Un lavoro raffinato che, sorretto dallo sforzo titanico di Massimo Quaglia e Annalisa Schillaci al montaggio, alterna momenti aneddotici, materiale di archivio, frammenti di film e note alle parole di chi lo ha conosciuto e a quelle dello stesso Morricone che si mette letteralmente a nudo. Un viaggio epifanico tra i ricordi di un uomo che al pubblico è sempre apparso schivo e di poche parole, ma che qui si commuove in più di un'occasione: quando ricorda il padre trombettista che con quel lavoro manteneva l'intera famiglia, "usare la tromba per mangiare era un'umiliazione" dice; quando rievoca il giorno in cui lui e Petrassi si salutarono fuori dal conservatorio dopo il suo esame di diploma; o per quello strisciante senso di colpa che per anni lo avrebbe perseguitato, frutto del pregiudizio con cui gli ambienti accademici guardarono al suo essersi prestato al cinema. Un peccato originale che lo segnò per moltissimo tempo, "scrivere per il cinema equivaleva a prostituirsi", racconta e da cui cercò sempre una rivincita. Che alla fine ebbe, eccome.

Elisabetta Bartucca, Movieplayer