24 febbraio 2022

Con Stringimi forte Amalric firma il suo film più compiuto

Fin dagli esordi come attore a metà anni ’90, con il primo ruolo da protagonista in Comment je me suis disputé... (ma vie sexuelle) di Desplechin dopo una decina d’anni di lavoro sui set, la carriera da regista di Mathieu Amalric è corsa in modo parallelo indipendente, come una riflessione a parte con tempi inevitabilmente più lenti e dilatati. Eppure è bello pensare che ci sia qualcosa in comune fra lo sguardo vivido e febbrile dell’Amalric attore – quel volto eternamente fanciullesco e vorace – e l’immediatezza scombinata e avventurosa dell'Amalric regista, che dai tempi dell'opera prima Mange ta soupe (1996) ha diretto in tutto otto film e si è costruito una filmografia di tutto rispetto.

Il continuo movimento, la frenesia e l’inquietudine di tanti personaggi interpretati da Amalric si ritrovano anche nella protagonista di Stringimi forte, il suo film finora più compiuto, il più maturo dal punto di vista della costruzione, liberamente tratto da una pièce di Claudine Galéa, Je reviens de loin, che dal testo di partenza eredita l’idea di frammentarietà, di viaggio, di costruzione composita. [...]

Stringimi forte è la storia di un trauma da elaborare, eppure non è un film sulla morte. Anzi, è il tentativo di un cineasta disordinato e istintivo di sostituire al dolore paralizzante del lutto (Amalric ha dichiarato di essersi ispirato a Ritorno a casa di De Oliveira) il lavorio incessante del cinema, la sua vitalità, e dunque il passaggio da una scena dall’altra, da un’immagine all’altra, con la protagonista che per scacciare i propri fantasmi sceglie di farsi lei stessa fantasma, una figura estranea che spia e tormenta la vita dei figli; una donna che inventa le vite che i suoi amori non potranno avere, tra oggetti comuni trasformati in simboli (l’auto come una macchina dal tempo, le polaroid mescolate come le scene del film, il pianoforte usato come tramite con la figlia…) ed eventi casuali, come la visione in tv di un documentario su Martha Argerich, che creano improbabili, strazianti, bellissime trame alternative al corso ingiusto della vita…

Il cinema da regista di Mathieu Amalric è un lavoro in continua evoluzione, figlio della solitudine e della frustrazione creativa (Tournée), dell’idea di fallimento e di eterno inseguimento della realtà (Barbara) e ora con Stringimi forte –dove tornano il tema della morte di Mange ta soupe e la figura della donna estranea di Le stade de Wimbledon – della resistenza al buio, al silenzio, allo sguardo fisso nel vuoto.

Quello sguardo – lo sguardo di Amalric attore e regista e lo sguardo della straordinaria Vicky Krieps, che regge il film sulle sue spalle e può esserne considerata a tutti gli effetti la co-autrice – non si fermerà mai per continuare a spostarsi e così continuare a perdersi.

Roberto Manassero, Cineforum

17 febbraio 2022

Piccolo Corpo: lo straordinario film di Laura Samani ci parla di noi

La giovane regista triestina Laura Samani, classe 1989, con Piccolo Corpo confeziona un esordio emozionante ed elegante, in cui racconta la storia del viaggio di Agata (Celeste Cescutti), una madre che nel nord Italia di inizio Novecento perde sua figlia alla nascita.

La religione cattolica e la società rurale di quei tempi avrebbero condannato l’anima della piccola, non battezzata, a rimanere per sempre intrappolata nel Limbo, priva di un nome e di una identità. Ma dopo aver sentito parlare di un santuario in cui si dice che i bambini vengano riportati miracolosamente in vita per il tempo di un respiro, per essere battezzati e liberati dal peccato originale, Agata decide di abbandonare in segreto l’isola in cui vive e intraprendere un viaggio col piccolo corpo della figlia nascosto in una scatola. 

Lungo la strada verso le montagne del Nord, Agata incontrerà Lince (Ondina Quadri), un personaggio selvatico e dall’identità sfuggevole che si offrirà di accompagnarla e di aiutarla in cambio del contenuto della misteriosa scatola. 

piccolo corpo spiegazione significato finale

Piccolo Corpo, pur dipingendo una realtà chiaramente distante da quella odierna, ci parla comunque di noi, e lo fa trasportandoci in un sostrato culturale che ha contribuito in modo significativo a definire la cultura italiana contemporanea. Il mondo di Agata appare vastissimo, soprattutto per il pubblico di oggi abituato alla frenesia degli ambienti urbani e a storie più individuali e circoscritte. È poi un mondo fatto di donne determinate, pronte a sfidare le imposizioni della tradizione culturale e religiosa.

Il viaggio di Agata verso il santuario nelle montagne, per dare un’identità a sua figlia, diviene metafora potente di un percorso alla scoperta di sé; un gesto di ribellione compiuto con orgoglio e spirito di protesta. Lontano dal farsi incatenare in definizioni di genere, Piccolo Corpo si posiziona a metà strada tra il fantastico e la realtà, tra la vita e la morte. I paesaggi lagunari, le montagne dell’alto Friuli e un cast misto di professionisti e non (che recitano in friulano e nei diversi dialetti locali) contribuiscono a dar forma concreta ad un miracolo. 

Quello di Piccolo Corpo è un miracolo che non è solo diegetico, ma anche produttivo: con eleganza e apparente semplicità, Laura Samani dà vita ad un film godibile e intenso; una storia personale, quella di Agata, che assume tratti universali – senza presunzioni di alcun genere e senza arrogarsi il diritto di dare giudizi o risposte.

Piccolo Corpo si posiziona all’interno del nuovo cinema italiano come un’opera di respiro internazionale, capace di recuperare le tradizioni popolari nostrane e di trasformarle in pretesti per affrontare questioni senza tempo. Le paure, i desideri e la forza di Agata non possono che essere sue; ma facendosi veicolo di sentimenti che appartengono alle esperienze umane più comuni ed essenziali, come la vita e la morte, diviene lei stessa portatrice di emozioni universali in grado di abbattere le barriere dello spazio e del tempo e arrivare dritte al cuore del pubblico

Niccolò Coscia, Anonimacinefili

11 febbraio 2022

Ancarani ci mostra Venezia come non l'abbiamo mai vista prima sullo schermo

Atlantide, tradotta in inglese come “Atlantis”, è la famosa città sommersa del mito greco, una metropoli dove l’acqua scorre lungo le strade e in cui sono presenti imponenti strutture civiche. Yuri Ancarani ripropone in parte questo senso di fantasia con il suo secondo lungometraggio, aggiungendo un’ulteriore finzione innaturale nel suo tipico sguardo documentaristico. L’isola città di Venezia ci è molto familiare da un punto di vista visivo, sia se ci siamo stati o no; non dobbiamo continuare a pensare ai film passati che l’hanno rappresentata come l’isola degli innamorati per eccellenza, o a quanto sia affascinante fotografare le sue calli e i suoi ponti bizzarri alla MC Escher. Ancarani fa di tutto – e possiamo percepire il suo sforzo – per farcela vedere in modo nuovo e preferisce mettere l’aspetto civile della città sotto una luce rivelatrice. Il film è stato uno dei primi ad essere proiettato in anteprima nella sezione Orizzonti della Mostra di Venezia di quest’anno.

Il film ha un contenuto abbastanza aperto, per questo qualsiasi associazione o interpretazione personale non sembrerà troppo inverosimile; Ancarani ha una reputazione ancora maggiore nel circuito delle gallerie, e opera in un ambito che di norma permette allo spettatore di avere più spazio per questa modalità di visualizzazione. Atlantide ricorda più che altro il classico underground Two-Lane Blacktop di Monte Hellman (altri potrebbero compararlo in particolar modo alla serie di Fast & Furious) – una visione inspiegabilmente esistenziale della cultura delle macchine californiana e delle autostrade tortuose tipicamente americane. In questo caso le macchine vengono sostituite da motoscafi, il barchino per essere precisi; queste cose vengono feticizzate, divinizzate, e curate da una sottocultura di giovani che sembrano aver rinunciato a tutto per vivere l’adrenalina di guidare un motoscafo che attraversa le onde come un coltello caldo nel burro.

David Katz, Cineuropa

10 febbraio 2022

America Latina, l'oscurità osservata da molto vicino

Dopo l'esordio folgorante con La terra dell’abbastanza (2018) e il successo di Favolacce (2020) che li ha consacrati come rivelazione autodidatta del cinema italiano, i fratelli D’Innocenzo – dotati di talento innato e grande padronanza tecnica – avrebbero potuto addomesticarsi, normalizzarsi, pensare di sfruttare il momento per diventare più commerciali e accoglienti. In un Paese in cui il pubblico sembra aver bisogno di sentirsi preso per mano da oggetti artistici edificanti non è facile scegliere la strada opposta. America Latina, terzo film di Fabio e Damiano D’Innocenzo (presentato a settembre in concorso a Venezia), è un viaggio perturbante nella mente di un personaggio. Un maschio bianco, etero, di mezza età: l’identità più in crisi del nostro tempo. Elio Germano, l’attore preferito dai due registi (in un’intervista lo hanno definito “il terzo fratello”) in Favolacce interpretava un padre violento e machista. In America Latina è un dentista calvo e mite. Ha una moglie eterea e silenziosa con i lineamenti antichi da diva del muto (Astrid Casali), due figlie adolescenti (Carlotta Gamba e Federica Pala) che non danno problemi, dei cani grandi ma non aggressivi che fanno la guardia alla luminosa e solitaria villa modernista con eccessi dissonanti da incubo agro-pontino in cui vive la famiglia perfetta. Ma la luce soffusa dei piani alti non arriva nel seminterrato. Laggiù, in cantina, si materializza l’ombra.

I fratelli D’Innocenzo hanno raccontato di avere iniziato a scrivere America Latina in una stanza d’albergo al Festival di Berlino, per stemperare la tensione dei giorni del 2020 in cui hanno vinto l’Orso d’argento per la sceneggiatura di Favolacce. Da gemelli inseparabili e simbiotici, sembrano alimentare reciprocamente le proprie visioni come ragazzini che inventano storie dell’orrore alla luce di una torcia. Dentro c’è Stephen King, con il suo anti-realismo sempre dalla parte dei bambini, perché non vale mai la pena di fidarsi della squallida realtà dei grandi. C’è Emmanuel Carrère, quello dei tempi de L’avversario e de La settimana bianca, due opere letterarie che si avvicinano al cuore del nemico mortale che abbiamo sempre in casa. E poi, dato che parliamo di cinema, ci sono le inquadrature distanti, come dipinti o fotografie di paesaggi che sembrano immobili. Avvicinandosi la macchina da presa assedia i personaggi, il volto e la nuca di Elio Germano, un uomo solo che minuto dopo minuto vede frantumarsi la realtà che lo circonda. America Latina è, come gli altri lavori dei D’Innocenzo, prima di tutto un film di attori e attrici, frutto di casting meticolosi che, come hanno raccontato i registi, a volte durano di più delle riprese stesse. Un altro dettaglio che rivela la loro capacità, così rara e rinfrescante, di pensare l’arte come qualcosa che sfugge alle logiche del mercato e della consolazione facile.

«Abbiamo scelto di raccontare questa storia perché era quella che ci metteva più in crisi. Come esseri umani, come narratori, come spettatori. Sollevava in noi domande alle quali non avevamo (e non abbiamo nemmeno ora) risposte che non si contraddicessero. Interrogarci su noi stessi è la missione più preziosa che il cinema ci permette», spiegano in una nota gli autori.

Valentina Della Seta, GQ

27 gennaio 2022

Quel giorno tu sarai: trauma, memoria e l’idea di futuro di Kornél Mundruczó

Tre capitoli, tre storie, tre piani sequenza. Kornél Mundruczó racconta altrettante diverse generazioni alle prese con il trauma dell’Olocausto e di come questo influisca sulla memoria e sulla vita delle persone. Anche a distanza di anni, anche se quel trauma è stato vissuto da altre persone, in un’altra epoca. Come per Pieces of a Woman, anatomia di un lutto dai contorni fortemente autobiografici, Kata Webéer, compagna e storica collaboratrice del regista ungherese, attinge dal suo privato – il rapporto con la madre ebrea malata di Alzheimer – per Quel giorno tu sarai, pellicola applaudita a Cannes 74 e ora in sala per il Giorno della Memoria.

Ma il film del regista ungherese non va inteso solo come un’opera sulla Shoah. Quel giorno tu sarai è un film attualissimo e contemporaneo che parla più del nostro presente e futuro che del nostro passato. Lo fa guardando al trauma dei campi di concentramento, dello sterminio degli ebrei, del peso di chi è rimasto ma si traduce in una riflessione su un quotidiano tallonato da estremismi e razzismo. E lo fa attraverso una nonna, una figlia e un nipote. Éva (Lina Monori). Léna (Láng Annamária). Jónás (Goya Rego).

quel giorno tu sarai

Ad ognuno di loro Mundruczó e Wéber dedicano un capitolo in cui suggeriscono come il trauma vissuto da Éva, ritrovata bambina in un campo di concentramento di Auschwitz e con un passato fatto di ricordi annebbiati, abbia influenzato la vita di sua figlia Léna per attraversare oltre sessant’anni di Storia ed avere ripercussioni anche su quella del nipote, giovane adolescente della Berlino di oggi che vorrebbe affrancarsi dal quel peso che ha sempre aleggiato nella sua vita. Girato in soli tredici giorni, il film è visivamente meraviglioso.

Una danza di tre piani sequenza in cui le atmosfere dell’opera teatrale da cui è tratta riecheggiano in più occasioni e in cui il regista alterna parentesi quasi sognanti legate alla memoria di Éva ad altre divise tra sequenze al chiuso e all’aperto. Una fluidità legata da un elemento, l’acqua, che ritorna in ognuno dei tre capitoli e li lega tra simbolismo e immaginazione. Prodotto, come per il precedente lavoro, da Martin Scorsese, Quel giorno tu sarai è un’esperienza immersiva, è cinema esperienziale che ha al suo interno un seme di speranza che apre e chiude il film e che, in entrambe le occasioni, è affidata a una bambina e a una coppia di adolescenti. E quindi al futuro.

Manuela Santacatterina, Hotcorn

16 gennaio 2022

Mondovisioni: tornano i film di Internazionale

Riportando gli occhi sul mondo. Dopo un anno di sospensione, da martedì 18 gennaio torna al cinema del carbone MONDOVISIONI, la rassegna di film dedicata all’attualità geopolitica, ai diritti civili, alla libera informazione curata da Cineagenzia per il festival di Internazionale a Ferrara e poi in tour in decine di città italiane.

La formula della rassegna - come di consueto - affianca alla proiezione del film la presenza di un esperto in sala. Ad aprire il viaggio di MONDOVISIONI martedì 18 sarà THE MONOPOLY OF VIOLENCE, che affronta il delicatissimo tema dell’uso della violenza da parte dello Stato. Partendo da un’impressionante raccolta di video amatoriali e reportage realizzati durante le manifestazioni dei “gilet gialli” in Francia,il film apre una riflessione più ampia su eccessi ed abusi nella gestione dell’ordine pubblico nell’acuirsi delle tensioni sociali. A introdurre il film sarà una videopresentazione di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.

THE LAST SHELTER ci condurrà a Gao, al confine meridionale del deserto del Sahara, uno dei crocevia delle rotte dei migranti africani, dove speranze e fallimenti si mescolano e si confondono: opsite in sala sarà Andrea de Georgio, giornalista freelance ed autore di Il grande gioco del Sahel. SIEGED seguirà il travaglio politico e sanitario del Brasile contemporaneo sotto la fallimentare guida di Jair Bolsonaro, presidente negazionista della pandemia e in battaglia perenne contro i giornalisti. A presentare il film sarà Lucia Capuzzi, giornalista della redazione esteri del quotidiano l'Avvenire.

THE NEUTRAL GROUND (grazie anche alla presenza in sala di Maria Ciccolari Micaldi, curatrice del blog ”La McMusa”) mostrerà come, a quasi 170 anni di distanza, l’immaginario e i simboli della Guerra Civile americana continuino ad alimentare discordie, divisioni e violenze in un paese insanabilmente malato di razzismo. WRITING WITH FIRE (in calendario martedì 15 febbraio, con l’intervento della giornalista Maria Tavernini) ci porterà a conoscere la coraggiosa esperienza di Khabar Lahariya, l'unica testata giornalistica dell'India gestita da donne Dalit, la casta più “bassa” della società, impegnata nella denuncia della corruzione e della brutale oppressione delle minoranze.

Protagonista dell’ultimo film della rassegna è la Turchia di Erdogan: DYING TO DIVORCE segue le vicende di una determinata avvocata, impegnata nella denuncia della violenza contro le donne, specchio di una società in cui le limitazioni della democrazia si fanno sempre più strette.

Tutte le informazini su spettacoli e abbonamenti sono disponibili a questo link.

16 gennaio 2022

Riparte la rassegna su Claude Chabrol

Una piccola città di provincia esposta al mare della Bretagna, un paesaggio aspro e nebbioso, una serie di omicidi che sembrano non trovare soluzione. Riparte da qui lunedì 17 gennaio CLAUDE CHARBOL: DIETRO LO SCHERMO DEL CRIMINE, la rassegna del cinema del carbone curata da Alberto Cattini e dedicata al grande maestro francese.

Il film in programma è IL COLORE DELLA MENZOGNA, un giallo fatto di illusioni e bugie, delusioni e speranze, in cui la paziente indagine della polizia serve a ricucire rapporti, svelare debolezze umane più che stabilire una verità assoluta. Nel cast Sandrine Bonnaire, Valeria Bruni Tedeschi e Jacques Gamblin.

13 gennaio 2022

È andato tutto bene: il lungo addio è un affare di famiglia

In concorso a Cannes 2021, il prolifico regista francese si lascia alle spalle la nostalgia degli anni Ottanta per tuffarsi nella Parigi di oggi, nel cuore di una famiglia disgregata che si riunirà grazie al dolore. A smuovere i personaggi di È andato tutto bene (titolo agrodolce come il film stesso) è infatti un malore improvviso. L'ictus di un anziano padre di famiglia dà il via a un inarrestabile effetto domino che travolgerà figlie, mogli, amanti e parenti prima lontani. Ozon va così alla ricerca del collante che tiene ancora in piedi una famiglia. E fa riflettere notare come, per una volta, questa forza adesiva sia una forma d'amore contaminata. Dentro ci sono vecchi rancori, cose non dette, rapporti irrisolti. Tutte cose che vengono a galla quando la vita chiede il conto e la morte bussa alla porta. Tutte cose raccontate con semplicità da un Ozon misurato, capace di dipingere un dramma familiare schietto e autentico.[...]

 Emmanuelle e Andrè sono chiamati a guardarsi in faccia per davvero, senza filtri, senza ruggini, con l'urgenza del tempo che appiana ogni risentimento. Un percorso emotivo che Ozon mette in scena con pazienza e grande sincerità, stando vicino ai personaggi in momenti delicati eppure trattati con il giusto tatto. Senza mai essere ricattatorio, Everything went fine ha un tratto morbido, come quello di una matita che disegna persone senza mai sottolineare troppo il male che sono costrette a gestire.

E Andato Tutto Bene

Questo perché Ozon decide di fare una cosa semplice ma non facile: fare appello all'ironia per sdrammatizzare un tema complesso come quello dell'eutanasia. Al di là di qualche passaggio leggermente più brusco e grezzo (nei momenti iniziali), col tempo il film gestisce sempre meglio questa alternanza tra dramma e sprazzi di commedia, con un André Dussollier eccezionale nell'incarnare un anziano voglioso di morte eppure ancora capace di sarcasmo e autoironia. Al suo fianco spicca una Sophie Marceau matura, posata, abilissima nel nascondere al pubblico la sua sfera emotiva per poi lasciarci spiare dentro il suo personaggio con parsimonia. Impossibile peccare di voyerismo in Everything went fine, perché Ozon ci tiene alla larga da qualsiasi forma di morbosità. Il regista protegge i suoi personaggi, li mette a nudo poco per volta, solo quando serve. Questo perché il film ha il grande pregio di normalizzare un evento sconvolgente senza mai banalizzarlo. Merito di una scrittura asciutta, di una regia al servizio del racconto (che si concede solo qualche sprazzo d'inventiva) e soprattutto di un cast perfetto nel dare forma a questa vera e proprio epifania della morte. Un limbo sospeso tra l'inizio e la fine in cui, all'improvviso, padri e figlie ritrovano il senso di quello che sono stati e di quello che hanno vissuto. Consapevoli dei proprio errori e pronti a sorridere con le lacrime agli occhi dell'assurdità della vita.

Giuseppe Grossi, Movieplayer.it

10 gennaio 2022

Il mito di Strehler rivive al carbone

Mercoledì 12 gennaio alle 21:15 un evento imperdibile per gli amanti del teatro: la giornalista e scrittrice Cristina Battocletti, prestigiosa firma della “Domenica” del “Sole 24 Ore” e autrice del libro "Giorgio Strehler. Il ragazzo di Trieste. Vita, morte e miracoli", introdurrà in collegamento via skype la visione in sala del film Essere Giorgio Strehler di Simona Risi.

Nel centenario della nascita. questo documentario presenta uno sguardo inedito su Strehler, un affresco inusuale e intimo, ricostruito attraverso interviste rare.

30 dicembre 2021

Un capolavoro del maestro Zhang Yimou

Fino a una ventina di anni fa tra gli obblighi cinefili c’erano i film diretti dal regista cinese Zhang Yimou. Poi, complice un allineamento politico del nostro rispetto alla dittatura governativa del suo paese, e a una serie di vorticosi titoli wuxia pian, è stato un filino messo alla porta come un esecutore qualunque. Solo che se un cineasta ha talento, e Zhang a 71 anni ne ha ancora da vendere, è francamente impossibile fingere che non esista più. Una prova lampante è One Second, autentico capolavoro epico sentimentale, incastonato in un contesto storico/politico del passato rivoluzionario cinese di metà anni settanta, lampi di gru su azioni di massa alla Novecento, emozioni cinefile e profonde da sala cinematografica di una volta come in Nuovo cinema paradiso.